Su ilLibraio.it Giusi Marchetta analizza “Tutto è possibile” e confronta l’umanità descritta da Elizabeth Strout nella sua raccolta di racconti con quella narrata da autori come Kent Haruf, Alice Munro, Annie Ernaux ed Edna O’Brien – L’approfondimento

A pochi metri dalla vecchia casa dei Burton, in una roulotte malmessa, vive Joy, una donna sola di mezza età. Chi va a farle visita non può fare a meno di trovarsi davanti una foto di lei con accanto il figlio: Joy gli tiene una mano sul petto e lo guarda con tenerezza infinita. Lui sta scontando l’ergastolo, spiega Karen (che conosce bene la storia) all’amica Yvonne, (che muore dalla voglia di conoscerla), per aver ammazzato una ragazza. Anche se all’epoca dei fatti il ragazzo era solo sedicenne gli hanno dato una pena severa, perché è rimasto zitto per ben due anni col cadavere sepolto in giardino prima di confessare. Dopo il suo arresto il padre ha mollato la famiglia e Joy è rimasta sola ad andare a trovare il figlio in carcere, ad amarlo nonostante tutto.

Questa storia Karen la racconta come faremmo tutti, per puro piacere di spettegolare. Ma dice anche che la mano di Joy mentre accarezza amorevolmente il petto del figlio gli copre il numero sulla divisa del carcere: basta un semplice gesto e l’uniforme del condannato diventa una camicia blu scuro. Raccontare questo gesto significa essere Elizabeth Strout (nella foto di © Leonard-Cendamo, ndr).

Tutto è possibile di Elizabeth Strout

Eravamo già stati qui, in questo paesino del midwest in cui il cielo è enorme e case e famiglie hanno bisogno di continua manutenzione per non cadere a pezzi. C’eravamo stati leggendo Lucy Burton, il romanzo in cui la protagonista, scrittrice, da un letto di ospedale ritrova la possibilità di parlare con la severissima madre venuta a posta a New York per starle accanto: pur di non affrontare tutte le questioni che hanno in sospeso madre e figlia passano le lunghe ore in ospedale parlando, o meglio spettegolando, dei vicini.

A distanza di tempo, Strout decide di tornare in questo piccolo pezzo di provincia americana per raccontare uno ad uno quei personaggi che, finiti in un libro della compaesana scrittrice, avevano diritto di diventare protagonisti della propria storia: dai fratelli di Lucy, Pete e Vicky, abbandonati dalla sorella che ha cercato fortuna (trovandola) nella grande città, a Patty la Grassona e Charlie McCauley l’ex veterano destinato ad aspettare invano un dolore che non è più in grado di sentire. Nasce così Tutto è possibile, una nuova Antologia di Spoon River in forma di racconti. Qui, però, la “collina” è dei vivi ed è proprio per questo che, a differenza dell’opera di Masters, si intravede ancora tra le righe la possibilità di aggiustare queste esistenze intaccate e ferite da un lutto, una separazione, un delitto.

Non che si tratti di rattoppi facili o di soluzioni immediate: su tutti aleggia il fantasma della povertà, passata o presente, dell’abbandono, della follia. Lo sfondo di ogni vicenda, poi, è intriso di un’atmosfera popolare: modesti impiegati, padroni di aziende, piccoli proprietari di ostelli, di qualunque cosa si occupino tutti i compaesani di Lucy Burton sono costretti a fare quotidianamente i conti con la crudeltà degli oggetti (una casa persa a causa di un incendio, finestre con vetri che non diventano mai trasparenti del tutto).

Sebbene ogni racconto si concentri su un personaggio alla volta, il legame di parentela o vicinanza che unisce tutti i protagonisti rende il libro una narrazione corale o un mosaico che attraverso tessere diverse compone un unico quadro che si potrebbe cantare sulle stesse note di Illinois o di Michigan di Sufjan Stevens.

È uno scenario interessante, più interessante dello spiraglio intravisto dal capezzale di Lucy Burton e non mi meraviglia: Lucy, che è scappata a New York e che in questo libro ritorna solo brevemente a casa, ha scelto di raccontare da lontano i suoi compaesani scrivendo un libro che si basava solo sui propri, artefatti, ricordi. Dimenticando quanto fosse pesante l’esistenza al paese, scegliendo di dimenticarlo, li ha traditi, tutti. Quella vera, quella fatta di miseria, affanni, piccoli e grandi abusi, è una storia che non ha voluto scrivere.

– Non era così terribile – dice adesso alla sorella con cui condivideva quella vita.

– Era proprio così terribile, invece – risponde lei che ancora la vive.

Tutto è possibile, dunque: anche la speranza. O semplicemente, forse, Strout compone un affresco di un’umanità che si sforza ogni giorno di sopravvivere; non completamente pura, mai del tutto assolta come nella tranquilla prateria di Haruf, questa umanità va avanti portandosi addosso una macchia o un dolore ma senza vergogna.

La vergogna, come la troviamo nei libri-saggi di Ernaux, pare un concetto riservato al racconto borghese, un residuo di una coscienza di classe. Al contrario, in Joy che continua ad andare a trovare in carcere il figlio assassino è impossibile non sentire un’eco di un personaggio di Alice Munro; nella sua storia e in quella di Linda che, seguendo alla televisione la notizia di una donna violentata, non può che pensare al marito raggelata dal dubbio, pare rivivano tutti quei personaggi femminili che sanno già che ci sarà da stringere i denti ma che vivere sarà, tutto sommato, ancora possibile. C’è in loro un sacrificio, una scelta e anche un notevole istinto di sopravvivenza che il fatto di leggere e di essere vivi ci hanno reso familiari.

Nella penna di Strout si avverte dunque una forza che riesce a sfiorare l’universale a partire dalla storia piccola, privata, trascurabile. Tuttavia, a differenza delle donne sacrificali di Edna O’Brien (raccontate in ogni singola gemma che compone la raccolta Oggetto d’amore), qui si suggerisce il gesto salvifico, la minuscola accortezza che permetterà di arrivare a fine giornata.

È probabile, e io ne sono certa, che O’Brien racconterebbe magnificamente il momento in cui il figlio di Joy chiede alla madre di sedersi in cucina perché ha qualcosa da confessarle; sono altrettanto sicura che Munro descriverebbe la penosa gita settimanale fino al penitenziario di Stato e le consegnerebbe nel giro di poche pagine il respiro del romanzo; Strout invece trasforma la storia di questa famiglia in un pettegolezzo tra amiche, come pettegolezzi potrebbero essere ognuno di questi racconti, e poi, improvvisamente, la ingrandisce. Così, sfogliando Tutto è possibile, ci ritroviamo di colpo a fare i conti con noi stessi, con quel dubbio che ci tiene svegli di notte, con le labbra che tremano mentre facciamo quella telefonata, con le parole cattive che qualcuno ci ha indirizzato e il male che qualcuno ci ha fatto e che ci portiamo cuciti in petto ogni giorno, coprendoli con la mano per non farli vedere a nessuno.

 

L’AUTRICE – Giusi Marchetta, nata a Milano nel 1982, è cresciuta a Caserta, poi si è trasferita a Napoli. Oggi vive a Torino dove è insegnante. Per Terre di Mezzo ha pubblicato le raccolte di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (2008), con la quale ha vinto il Premio Calvino, e Napoli ore 11 (2010). Il suo primo romanzo, L’iguana non vuole, è stato pubblicato nel 2011 da Rizzoli. Nel 2015 è uscito, per Einaudi, Lettori si cresce.
Qui tutti gli articoli scritti da Giusi Marchetta per ilLibraio.it.

Fotografia header: Elizabeth Strout © Leonard-Cendamo

Libri consigliati