“Madri” di Marisa Fasanella è un’antologia di racconti che squarcia la normalità di vite ordinarie e rivela conflitti e non detti; rivisita gli stereotipi e li trascende, raccontando la mancanza e l’urgenza di una solidarietà propriamente umana – Su ilLibraio.it un estratto

Sono undici (più una) le storie che Marisa Fasanella presenta nella sua nuova raccolta di racconti, Madri (Castelvecchi), un’antologia che squarcia la normalità di vite ordinarie e rivela conflitti e non detti; rivisita gli stereotipi e li trascende, raccontando la mancanza e l’urgenza di una solidarietà propriamente umana.

L’autrice, che ha già firmato i romanzi Il male in corpo (Castelvecchi) e Nina (Prospero), inserisce le narrazioni all’interno di una cornice singolare, nei vicoli storti, fuori e dentro le mura di un  manicomio. Qui c’è Lena, che appunta su foglietti di carta le storie che ha udito, per non dimenticarle, e le custodisce in una borsa di tela rossa. L’uomo che suonava l’organetto sotto le finestre del manicomio la aspetta sul molo.

madri maria fasanella

Ti racconterò una storia, gli sussurra lei all’orecchio, e poi un’altra e un’altra e ancora un’altra… Sono storie di confino, dal luogo dove rinchiudono le donne che urlano per le strade e non si lavano e non si pettinano; storie di uomini che vogliono le donne come proprietà, animali per figliare, serve per accudire. Sono storie di morti e nascite violente, di case-prigioni, storie in grado di parlare, sottovoce, a ognuno di noi.

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un estratto:

Il corpo della madre (Il mio nome è Lena)

Il corpo della madre è nudo. Nel bagno con le mattonelle celesti e i tralci di rose blu che si inerpicano fino al soffitto, lo specchio appeso sul lavandino e gli asciugamani di lino rigidi come compassi per i troppi ripassi del ferro da stiro. Guai a toccarli, gli asciugamani, stavano lì in bella mostra per le amiche che venivano a guardarli i giovedì pomeriggio e si compiacevano dei ricami della madre: punto a rete, punto a croce, punto a giorno…

Erano vecchie come la madre, le amiche, ma avevano ancora gambe buone diceva, non senza un sospiro, e ci rimuginava sopra per giorni. La domenica passavano dopo la messa per un caffè, e la madre apparecchiava i centrini nei vassoi e mi ordinava di togliere dalla credenza le tazzine buone con i piattini e la zuccheriera e i cucchiaini di argento. La madre si è svegliata prima delle cinque, ha bevuto la sua tisana seduta in cucina e ha parlato con la tazza e i pensili e la porzione di cielo affacciata dalla finestra del pianterreno. La madre non sopporta il silenzio, va avanti e indietro e la punta del bastone arriva nel mio sonno tardo come i rintocchi di un orologio. Poi è andata nella sala da bagno, come la chiama lei, si è specchiata e il suo grido ha sciolto le mie gambe. Questa patacca scura sulla guancia prima non c’era, ha detto quando l’ho raggiunta. Ha controllato gli asciugamani: domani è giovedì e se c’è una piega il ricamo perde di bellezza. Si è scoperta la fronte, ha frugato nelle radici dei capelli: Te lo ricordi, com’erano belli i miei capelli?

Ho chiuso il rubinetto e ho controllato la temperatura dell’acqua: aveva riempito metà della vasca. Sudano i muri, le ho risposto.

I capelli della madre potrebbero aver avuto sempre questo colore stinto: rosso bruno sulle punte e in trasparenza alla radice, come il rivestimento della castagna, quella pellicola rugosa che si incunea nella polpa croccante. Non si è ancora convertita al grigio e la mistura del parrucchiere si deposita sulla cute e resiste ai lavaggi. Glieli acconcia seguendo il verso storto della vertigine e li fissa con la lacca, e torna a casa contenta, la madre. Il mattino dopo, si specchia e qualche ciuffo le cade sulla fronte e altri si gonfiano sulla testa e li alliscia con le mani, i resistenti, ma i ribelli non si piegano alla carezza.

I ritratti sono in bianco e nero, lei è giovane e la camicetta si apre sui seni grossi. In quell’unico ritratto con mio padre, sopravvissuto alla sepoltura, i capelli sono ricci e scomposti, lei ha il sorriso triste.
La madre si guarda nello specchio e la sua voce ha il tono secco del comando: Devi parlare con il dermatologo! Lo chiamerò domani, le ho risposto, e già le caldane mi annebbiavano e gli occhi lacrimavano come i muri.
Spera sempre in una crema miracolosa, come suo padre. Seduto nello spiazzo, sovrastato dai comignoli di pietra a forma di casa, aspettava l’uomo giramondo e contrattava il prezzo. I risparmi di una vita mio nonno li ha spesi tutti in miscugli puzzolenti, e la notte si grattava nel letto neanche avesse le pulci. E quando i risparmi si sono assottigliati e l’ultima polvere dell’uomo giramondo gli ha accorciato i giorni, raccontava che nessuno se ne va da solo, i morti vengono a prenderci e ci accompagnano, farfugliava. Si siedono ai piedi del letto e aspettano. Aveva sentito le sue sorelle giovani morte di spagnola conversare con il padre scomparso, e una certa Gemma, morta giovanissima, era venuta a bussare alla sua porta, una notte di novembre, per tranquillizzarlo sull’aldilà, e di mio nonno ho salvato solo la sua cieca fede.

La vasca è troppo alta, ha detto la madre, e ha scavalcato, e una gamba è approdata e l’altra è rimasta sospesa. Ha spalancato la bocca e i denti posticci si sono affacciati e si è incantata come una campana, prima di sprigionare il riso a singhiozzi che la lascia senza fiato. Si è appoggiata alla mia spalla e ha portato dentro l’altra gamba e si è seduta sulla sedia, al centro della vasca. Ho guardato il suo corpo nudo che cerca il rubinetto e il doccino e la spugna e ha chiesto di insaponarle la schiena. Il mio corpo si è impagliato.

Il corpo nudo della madre è ossa e pelle e il ricordo dell’amore consacrato e degli occhi degli uomini a cui si è negata lo scaldano. Il mio sfiorisce senza assalti.

Mi ha custodita messa al mondo e riguardata. Ho succhiato i suoi seni e troppo presto mi hanno abbandonato, per la nascita dell’altra figlia venuta a bussare al ventre della madre appena due mesi dopo la mia nascita, morta nel sonno ad appena sei mesi. La madre ha sfrattato il latte e perso il sorriso: Dio si è presa la migliore delle mie figlie, ha detto alle amiche che venivano a consolarla. Mio padre addolciva con il miele l’infuso dei fiori per calmarle i nervi, e quando lui se n’è andato, e storceva la bocca e svoltava gli occhi, la sopravvissuta alla sorella migliore abbondava con il miele e con i fiori giallo paglierino.

Sono scesi, i seni, si addossano alle costole e penzolano. Il corpo della madre non è più carne. La pelle si piega sul pube tornato bambino, trovo tracce della mia nascita nelle striature trasparenti sui fianchi larghi, sull’addome flesso. Le sue gambe hanno perso la fitta peluria che le rivestiva, sono secche, sono stanche, sono vive. La madre è radice. Il tempo le sfoltisce i capelli, aggrappola pelle sull’osso, succhia linfa dal tronco senza corteccia. La madre allunga nodosità ammollate di terra e le guarda ormai scoperte infiltrarsi nella casa.

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Da quando i parrocchiani mi riservano i primi banchi in chiesa e il paese, ossequiosamente, si rivolge a me con il titolo di donna Virginia la signorina, per risparmiarmi la vergogna di essere rimasta zitella, la madre ha perso il pudore e la risata le scalda le viscere e si incaglia alla lingua e al fiato. Si spoglia e si affaccia nelle stanze con le sottovesti di nailon nere trasparenti e le canottiere bianche e i reggiseni rinforzati e le gambe secche strette nelle calze doppie. Mamma, copriti! Il portone è aperto. Ride del mio affanno. Ride delle caldane e mi porge il fazzoletto bianco per asciugarmi il sudore che sembra pioggia. Ride del ragazzo della bottega che se la trova davanti mezza nuda e gli occhi gli vanno di traverso.

Mi lavava a pezzi, la madre. La domenica metteva a bollire l’acqua sul fuoco e riempiva il bacile e mi grattava i piedi inzaccherati di terra. La madre, dopo, quando sono cresciuta, versava altra acqua bollente nel bacile e mi lasciava da sola con il pube che cominciava a infoltirsi di peli neri e fitti come ragnatele. Dovevo lavarmi in fretta e nasconderlo nelle mutande, il pube nero. A undici anni avevo già tutto: il seno in boccio, le ascelle pelose, le gambe coperte dalla lanugine. Non alzare le braccia! Gridava, la madre.

Allungavo le mani in quella polpa rosa che metteva foglie e mi toccavo. La madre pedinava i passi e spiava dai buchi delle serrature: Non toccarti! Sono cresciuta con il peccato stretto tra le cosce, nascosto nelle mutande, e non ho mai smesso di provare disagio di fronte a un corpo nudo. Una sola volta ho amato, ma la madre si è preso il mio primo e unico amore e non lo ha restituito. Il figlio di una mala donna non entrerà nella mia casa, ha detto la madre. Quel giorno, una gatta a pelo grigio con gli occhi di un azzurro come non se n’erano mai visti è entrata nella casa. Tallonava i miei passi, chiedeva che le pettinassi il pelo, si annodava e dovevo sbrogliarlo con le mani. La gatta, la notte, parlava nel sonno e al mattino sembrava che ridesse. La madre non la sopportava, diceva che lasciava peli ovunque e qualcuno le entrava nel naso e starnutiva e perdeva il respiro. La madre l’avrebbe confinata nella soffitta, ma la gatta era molto più lesta e per giorni non si faceva trovare.

Ha confinato mio padre nell’aldilà, la madre, e ha seppellito la vita di prima nella soffitta, ha murato la porta di ingresso. Dove, madre? Nella soffitta, non c’era spazio nella casa per i ricordi, ma tuo nonno ha risparmiato sulla manodopera e lo sterro dell’ultimo restauro ha murato la porta per sempre. La madre è sopravvissuta al lutto fuggendo dalla casa del morto. Ogni anno, a luglio, chiamava i muratori. Venivano armati di scale martelli chiodi e sfasciavano cucine, chiudevano spazi, ne allargavano altri. Sotto le ascelle si formavano spiagge di sudore e bevevano acqua profumata di limone e caffè, addentavano pane, sotto l’occhio di suo padre, mio nonno, rincorsi dal tuono della sua voce, da quella gentile della madre. Ogni anno, a luglio, la madre distruggeva la casa. Respiravamo polvere. I vicini andavano al mare, tornavano asciutti di sole. Tornavano alle case fresche. Ogni anno, a luglio, la madre trascinava mobilio. A luglio perché poi arriva l’inverno e comincia la scuola. A luglio perché a primavera i muratori devono rattoppare coppi e riparare tetti sventrati dalla pioggia, scoperti dal vento. Copriva la Singer di Rinuccia, la madre. Della sua dote aveva cura. La sistemava tra il letto e la finestra e la copriva con un lenzuolo, ci passava sopra la palma della mano e le parlava neanche potesse ascoltarla: tu sai, le diceva, nessun altro sa. Ogni tanto, la madre stendeva la stoffa di un vestito sotto l’ago e spingeva i piedi sul pedale: accorciava orli, allungava maniche, restringeva fianchi… Poi diceva sono stanca, mi tremano le mani, e si sedeva nella poltrona ocra e chiedeva pillole per la pressione, per gli occhi, per la vescica, per lo zucchero nel sangue, e si abbuffava di acqua. La vecchia Singer è sopravvissuta ai muri crollati e occupa uno spazio della sala.

La vita scorre dal rubinetto e i pori si aprono, i nervi gobbi si appianano. Scioglie memoria annodata, chiusa nella mente della madre, quella che resta, che non può scancellare. Vive sotto forma di lampo, si racconta a pezzi… Zitta, madre! Il ragazzo della bottega verrà a bussare con le verdure fresche e dovrò sfrondare cime e bollirle e so- no già le otto. Zitta, madre! Il bagno lo fai un giorno sì e uno no e il dolore alla spalla mi tiene sveglia la notte. Alle cinque sento i tuoi passi e rovisti negli stipi e parli da sola fino a quando non mi affaccio e ridi. Sono diventata vecchia, madre, e mi scivoli dalle mani un giorno o l’altro. Non ce la faccio a tenerti e a insaponarti e a sciogliere sapone, persino i tubi rantolano. Dobbiamo trovare una donna che venga ad aiutarmi.

La madre mi ha voltato le spalle e ha risposto: Non voglio estranei nella casa, le tue mani devono toccarmi. E nella vasca pareva che danzasse, come quando ballava il tango stretta al corpo di mio padre. Con una mano accarezza i tralci di rose sulle mattonelle e con l’altra svolazza. Mi guarderà Dio, ha risposto.
La madre ha litigato forte col suo Dio, dopo la morte di papà, lo ha minacciato di legarsi al demonio se non le avesse dato da vivere anche gli anni del morto. Non le avrebbe torto un capello, il suo Dio, prima di vedere grande l’orfana. E quando sono cresciuta, ogni volta che il suo Dio ha bussato, lei gli ha risposto: No. Chiede di accompagnarmi al trapasso, non sono ancora pronta a lasciarla andare, e sono zitella, neanche un uomo sono riuscita a incatenare alla promessa dell’altare. E intanto sfodera dall’armadio il vestito buono e restringe taglia e ricuce con la vecchia Singer. Così non la trova mai pronta. Come la casa, il vestito ha subito i tagli e i cuciti della madre. Sui soffitti cerco i segni dei muri abbattuti, hanno lasciato gobbe e spazi più chiari.

(continua in libreria…)

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