“Memorie del sottosuolo” di Fëdor Dostoevskij è la storia di un uomo frustrato e orribilmente infelice, pieno di rancore nei confronti di un mondo ai suoi occhi spregevole e che, pur consapevole di cosa sia il bene, sprofonda sempre più in uno stato di fredda, velenosa cattiveria. Uno dei romanzi fondamentali per comprendere il grande autore russo in una nuova edizione Garzanti, con la traduzione di Paolo Nori – Su ilLibraio.it la postfazione dello scrittore emiliano

“Tu sai cos’è un cambio di tonalità musicale”, scrive Fëdor Dostoevskij al fratello Michail il 14 aprile del 1864, “ecco, qui è la stessa cosa. Nel primo capitolo sembra che non ci siano altro che delle chiacchiere, poi, d’un tratto, queste chiacchiere si trasformano in un’improvvisa catastrofe”.

La catastrofe cui Dostoevskij si riferisce è quella del protagonista di Memorie del sottosuolo: un uomo senza nome e senza qualità, “né cattivo, né buono, né disonesto, né onesto, né un eroe, né un insetto”.

Il capolavoro dell’autore russo viene ora riproposto da Garzanti, in una nuova edizione, che riprende la traduzione dello scrittore Paolo Nori (già uscita nel 2012 per Voland), che lo scorso marzo, ricorderete, è stato protagonista di uno scontro con l’Università Bicocca di Milano in relazione a un ciclo di lezioni sul grande autore russo che Nori avrebbe dovuto tenere. Erano le prime settimane dell’invasione russa in Ucraina.

Autore di numerosi libri (come Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor M. Dostoevskij uscito per Mondadori e La grande Russia portatile proposto da Salani) e traduttore dal russo e dal francese, Nori, nel testo che proponiamo di seguito (datato 2012, come la traduzione), parla dunque di Memorie del sottosuolo, uno dei testi più importanti per comprendere il pensiero di Fëdor Dostoevskij.

Lo scrittore russo dipinge un uomo frustrato e orribilmente infelice, pieno di rancore e risentimento nei confronti di un mondo ai suoi occhi spregevole che, pur consapevole di cosa sia il bene, sprofonda sempre più in uno stato di fredda, velenosa cattiveria, tra desideri insoddisfatti e propositi di vendetta. In queste pagine, in cui il soliloquio si alterna a sconnessi ricordi di episodi della sua vita, si abbandona a una tormentata confessione, mettendo a nudo impietosamente la propria anima.

Senza timore di affondare il coltello nella piaga, ma anzi ricavando dalle umiliazioni, dalla degradazione e dalla sofferenza un morboso piacere, il protagonista rinuncia a ogni difesa e ci restituisce, come in uno specchio, il riflesso di ciascuno di noi, prigionieri come lui delle nostre contraddizioni e condannati a convivere con gli orrori del nostro privato sottosuolo.

Memorie del sottosuolo

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo la postfazione scritta da Paolo Nori (scritta dall’autore nel 2012):

Succede, a chi traduce dei romanzi, di dover dire poi delle cose su questi romanzi che ha tradotto e di accorgersi, a me succede abbastanza spesso, che di questi romanzi che ha tradotto non sa dire niente. Ecco, in questo caso, nel caso delle Memorie del sottosuolo, è proprio così: delle Memorie del sottosuolo io non so dire niente. Mi ricordo tanti anni fa, forse venti anni fa, che la moglie di un amico di mio babbo che c’era venuta a trovare in campagna, una signora che di mestiere faceva la psicologa, parlando aveva citato Dostoevskij, I dèmoni, con l’accento sulla e, I dèmoni, e io le avevo detto, un po’ pignolo, che secondo me era un romanzo bellissimo che però in italiano si diceva I demòni, e le avevo raccontato la cosa che mi aveva raccontato la mia professoressa, che dèmone è qualcosa di astratto, come il dèmone del gioco, e che quelli lì, Stavrogin e quegli altri, invece, eran della gente concreta, in carne e ossa, cioè dei demòni. Allora mi ricordo che lei, quella signora, mi aveva guardato e mi aveva detto «Ma tu, sei un esperto di Dostoevskij?». E io l’avevo guardata le avevo detto «No. Io non sono, un esperto di Dostoevskij». In questi giorni, siamo nel gennaio del 2012, è morto da poco Carlo Fruttero, e l’altro giorno, il 16 gennaio del 2012, ho visto, sul computer, un’intervista a Carlo Fruttero in cui l’intervistatore, parlando del lavoro di Fruttero all’Einaudi, aveva detto «Lei era un esperto di letteratura inglese e francese», e Fruttero l’aveva interrotto aveva detto «Io non ero un esperto di niente». Non ero stato a dirle, a quella signora, che l’idea che probabilmente c’era sotto, ai Demòni, il tentativo di dimostrare che i rivoluzionari sono, banalizzo, dei demòni, dei maledetti, delle canaglie, e che i rappresentanti della società civile che li guardano con favore e con curiosità sono peggio di loro, ecco questo tentativo, secondo me, era una porcheria. Non ero stato lì a dirglielo perché altrimenti sarei sembrato ancora più pignolo e ancora più esperto. E anche perché il romanzo, anche se le idee politiche che l’avevano probabilmente generato a me sembravano delle porcherie, il romanzo, in sé, a me sembrava, e sembra, un capolavoro. Ma questo riguarda i Demòni, non Le memorie del sottosuolo, e se lo dico è soltanto perché, delle Memorie del sottosuolo, non so cosa dire. Solo una cosa, potrei dire, che ha a che fare con la musica. «Tu sai cos’è un cambio di tonalità musicale», scrive Dostoevskij al fratello Michail il 14 aprile del 1864, «ecco, qui (cioè nelle Memorie del sottosuolo), è la stessa cosa. Nel primo capitolo sembra che non ci siano altro che delle chiacchiere, poi, d’un tratto, queste chiacchiere, nei due capitoli successivi, si trasformano in un’improvvisa catastrofe.» In una lettera del mese prima, sempre al fratello Michail, Dostoevskij scrive: «Mi son messo a lavorare al racconto (cioè alle Memorie del sottosuolo). Mi sforzo di scrollarmelo di dosso il più presto possibile, e, nello stesso tempo, di farlo venir fuori nel migliore dei modi. È molto più difficile, da scrivere, di quello che pensavo. Però, deve assolutamente essere un bel racconto, sono io stesso che ne ho bisogno. Ha un tono troppo strano, un tono duro e crudele; potrebbe anche non piacere, perciò bisogna che la poesia ricopra e temperi tutto». La poesia, credo, forse mi sbaglio, non sono un esperto, la poesia è come la musica, è il pathos, e questo libro, sia nel primo che nel secondo capitolo (un terzo capitolo che evidentemente c’era nella prima stesura si dev’essere perso per strada, chissà dove, non sono un esperto non posso saperlo), è pieno, di musica e di pathos. Vi consiglio, se posso dar dei consigli, e se ne avete voglia, di leggerlo ad alta voce. Credo che cambi. Ci son delle pagine che non si riescono a leggere senza accelerare, ci son delle pagine in cui manca il fiato. E anche se, come nei Demòni, anche qui dentro si trovan delle cose… non so, per esempio

Ogni uomo per bene del nostro tempo è e deve essere un vigliacco e uno schiavo. È la sua condizione normale. Di questo sono profondamente convinto. È fatto così e per quello. E non è un fatto del nostro tempo, che dipende da qualche circostanza casuale, è generale: in tutte le epoche un uomo come si deve deve essere un vigliacco e uno schiavo. È la legge della natura di tutti gli uomini come si deve che ci son sulla terra. Se a uno di loro capita anche di comportarsi, in qualche circostanza, da uomo coraggioso, non se ne rallegri e non si illuda: nella circostanza successiva si metterà comunque la coda tra le gambe. Questa è l’unica, eterna conclusione. Fanno i coraggiosi soltanto gli asini e i loro bastardi, ma anche loro fino a un certo punto. Occuparsi di loro non vale la pena, perché non significano assolutamente niente.

Oppure:

E se i nostri desideri stravaganti venissero esauditi, staremmo peggio. Su, provate, su, dateci, per esempio, più indipendenza, sciogliete le mani a uno di noi, allargate il cerchio della nostra attività, allentate il controllo e noi… vi assicuro, noi chiederemo subito di tornare sotto il vostro controllo.

Anche se qui dentro si trovano queste idee che, a me, continuano a sembrar delle porcherie, la musica, il suono, la poesia, pervadono tutto in un modo che dopo, alla fine, la ragione, l’ideologia, non c’entrano più niente.

Che è un po’ come dire che quello che ha scritto, Dostoevskij, non c’entra più niente. C’entra qualcos’altro, che è una cosa talmente sottile, mi sembra, che forse è meglio che io non ci provi neanche, a nominarla.

Ecco. Volevo dir quello.

(continua in libreria…)

© 2022, Garzanti S.r.l., Milano

Scopri le nostre Newsletter

Iscrizione alla Newsletter
Il mondo della lettura a portata di mail

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

scegli la tua newsletter Scegli la tua newsletter gratuita

Abbiamo parlato di...