Nel nuovo numero di “Elettra” – serie in cui le figlie raccontano i padri attraverso le voci di autrici sempre diverse – la scrittrice e insegnante Giusi Marchetta narra il conflitto familiare attraverso la sorellanza: “Quella è la porta” vede infatti tre sorelle ruotare attorno a un padre che non le vede, e che per questo le porterà a sentirsi più vicine tra loro… – Su ilLibraio.it un estratto
In uscita per la casa editrice effequ il quarto racconto della serie Elettra – La rivincita delle figlie, firmato questa volta da Giusi Marchetta, scrittrice, insegnante e, tra le altre cose, collaboratrice de ilLibraio.it (a questo link i suoi articoli).
In questo quarto episodio della serie a più voci – dal titolo Quella è la porta – tre sorelle ruotano attorno a un padre che non le vede, ma a cui sono legate perché nutrono un bisogno ultimo: approvazione, soldi, riconoscimento.
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E nel corso di una giornata speciale cercheranno di ottenerlo: ognuna è disposta a ignorare i bisogni dell’altra per farlo. Tuttavia vederle, capirle o amarle non è per il padre qualcosa di realizzabile fino in fondo; ma forse è proprio accettando questo che le tre protagoniste impareranno a sentirsi più vicine tra loro.
Giusi Marchetta, che vive a Torino, ha pubblicato Dai un bacio a chi vuoi tu (Terre di Mezzo, 2008, Premio Calvino), Napoli ore 11 (Terre di Mezzo, 2010); L’iguana non vuole (Rizzoli,2011), Lettori si cresce (Einaudi, 2015), Dove sei stata (Rizzoli, 2018) e Tutte le ragazze avanti (add, 2018, in seguito diventato un podcast). Il suo ultimo libro è invece Principesse. Eroine del passato, femministe di oggi (add, 2023).
Nel nuovo numero di Elettra – serie di effequ in cui le figlie raccontano i padri attraverso i racconti di autrici sempre diverse – Giuri Marchetta narra il conflitto familiare attraverso la sorellanza.
La serie è volta a rappresentare l’identità femminile in chiave antipatriarcale. Quante parole nascono da una singola radice (Patria, antichi padri, Paternità), eppure una sola dinamica: quella di subordinazione a qualcosa di più grande, più sacro, più autorevole (perfino nella morte, o forse proprio per questo).
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All’ombra di questa presunta superiorità della figura paterna si sviluppa il mito di Elettra: un amore che è anche e soprattutto devozione verso un uomo-dio cui la figlia deve la sua stessa vita, e con il quale desidera idealmente ricongiungersi. Una figura che ci conduce alla ricerca di nuove forme, nel tentativo di rappresentare autenticamente non solo la figura paterna, ma anche la donna.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto dal libro:
Vera
La solita ghirlanda di Natale pende ancora sopra lo spioncino della casa dei miei, segno che se Vera è già arrivata, sta aspettando me per sbolognarmi metà delle cose da fare. Oltre la porta qualcosa di molto grosso viene spostato, trascinato, colpito. Mia sorella dice qualcosa di incomprensibile.
Che aspetti? Tengo le scarpe lontane dal bordo dello zerbino come se ci fosse nascosto un allarme pronto a scattare e a tradirmi. Eccoci qua, mi dico.
Senza far cadere la confezione della torta, cerco in fretta il cellulare in tasca e mi sposto al centro del pianerottolo per non farmi sentire.
«Solo per dirti che sono arrivata, non devi rispondere. Ti ho scritto tutto, leggimi appena puoi e dammi solo l’ok. Ok? Ok».
L’icona dell’audio compare nella chat di Whatsapp, in attesa.
«Spero di trovarti già dentro» aggiungo, poi metto via il cellulare e la porta alle mie spalle si spalanca ricordandomi che a questo serve.
«Era ora» dice Vera e mi strappa la torta dalle mani. «Sbrigati».
Subito dopo scompare in casa con il suono dei suoi mezzi tacchi che si involano in cucina.
«Bentornata, Gaia, come stai?» le urlo dietro.
Faccio appena due passi e lo spettacolo di mio cognato a quattro zampe in soggiorno mi disturba e mi attrae. Non si è accorto di me perché è impegnato nell’impresa di infilare il più possibile un braccio sotto il divano senza slogarsi una spalla. Muoio dalla voglia di commentare ma mi mordo le labbra: se suo marito resta intero, oggi Vera sarà più trattabile.
A questo punto nelle famiglie delle serie tv la nuova arrivata dice: «Oddio Vincenzo, che succede? Posso aiutarti?»
Invece mentre mio cognato ansima e il mio zaino precipita sul divano che schiaccia le sue articolazioni, mio nipote sbuca dalla cucina saltellando e stringendo con aria vittoriosa la metà del biscotto al cioccolato che non ha sbriciolato sulla maglietta gialla. Gli occhioni celesti sono gonfi di lacrime appena asciugate. Il ciuffo sulla fronte pare quello di sempre ma nel complesso mi sembra più alto. E non era più biondo a Natale?
«Mattia, ciao. Che fai?»
Lui sbriciola quello che resta del biscotto sul pavimento e comincia a singhiozzare.
«Poppy ha perso il gatto» dice.
Osservo mia sorella in ginocchio mentre cerca un gatto dentro la lavatrice e per la prima volta da non so quanto tempo avverto la speranza di non essere la persona in questa casa che ha fatto le peggiori scelte di vita negli ultimi dieci anni.
«Guarda che se è finito lì dentro è troppo tardi».
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Lei si rimette in piedi sbuffando. La guardo controllare lo spazio tra la lavatrice e la parete.
«Se non vuoi aiutare almeno guarda il bambino».
«È con Vincenzo» mento. Vincenzo ha scoperto un sinistro scricchiolio alla schiena durante la perlustrazione di un secondo divano quindi si è arreso e ci si è steso sopra. Al figlio ha concesso l’intero pacco di biscotti in cambio di una tregua dal pianto isterico.
«E come faccio se non so neanche com’è?»
Lei si assicura non ci sia nessun felino nella doccia. Non mi degna di risposta perché è evidente che basti una familiarità col concetto astratto di gatto per individuarne uno. È solo che questa è la nostra partita a ping pong: la giochiamo da più di trent’anni e smetteremo solo nella bara.
«Papà?»
«Sopra. Dai Morgillo».
Arrivando, ho registrato vagamente la presenza del biglietto bianco appeso con lo scotch accanto al citofono. La famiglia Morgillo sentitamente ringrazia.
«Chi è morto? Lui o lei?»
Vera continua a guardarsi intorno cercando un angolo in cui non ha guardato.
«Lui. A Santo Stefano».
«E ci sta andando adesso?»
Vera alza le spalle.
Ricordi vaghi dei vicini riaffiorano: occhiali scuri, capelli bianchi, sono sempre stati vecchi. È molto strano come il tempo nelle case degli altri sembri fermarsi mentre il nostro avanza, ci cambia e ci danneggia di continuo. Finché non succede pure a loro e allora di colpo muoiono e ringraziano.
«Senti, Vera, parliamo un momento così ci mettiamo d’accordo prima che torni».
Ha scoperto nello specchio del lavandino un alone che non le piace quindi recupera una spugna pulita dal lavello e si dà da fare.
«Iole viene?»
«Certo che viene».
Lei continua a strofinare finché non è soddisfatta.
«L’ho vista quest’estate a Roseto solo perché ci passava con certa gente» dice. «Dopo Natale solo un messaggio di auguri. Inoltrato».
«Ed era un bel messaggio?»
Per un attimo Vera si osserva nello specchio sperimentando su sé stessa lo sguardo giudicante che infligge al mondo.
«Oggi viene» dico. «È il compleanno».
Lei alza le spalle poi rimette la spugnetta a posto.
«Una cosa alla volta».
Non riesco a farmi abbastanza concreta per impedirle il passaggio perciò lei mi supera, si avvia nel corridoio e non mi resta che correrle dietro.
«E comunque da dove esce ’sto gatto?»
«Babbo Natale» sputa fuori, come una parolaccia.
Vera è nata tre anni prima di me ma non lo ha mai considerato un vantaggio. Ha preso la mia nascita con un’indifferenza notevole per la sua età, accogliendomi in casa come si farebbe con una pianta che i tuoi genitori hanno deciso di piazzare in salotto accanto alla tv.
Dappertutto mia madre le diceva Bada a tua sorella, e lei alzava le spalle e si metteva seduta a contare le piastrelle sul pavimento mentre lì accanto io aprivo un libro e mi mettevo a leggere.
A Vera piacciono il silenzio, la calma e costringere tutti a un rispetto innaturale per le regole. Quando a sei anni mi tirai addosso la marionetta di Orlando appoggiata sulla libreria per assicurarmi che i baffi del paladino fossero veri e la spada veramente affilata mi staccò quasi un dito, non so perché corsi da lei e le mostrai la mano sanguinante. Lei alzò la testa dalla cartina della Calabria che stava colorando dentro i bordi e mi guardò per un momento prima di sporgersi e valutare, alle mie spalle, l’entità delle goccioline rosse che avevano inondato il pavimento della sua stanza. Se fossimo state in Hunger games e mi avessero sorteggiato per partecipare a un torneo all’ultimo sangue a meno che qualcuno non si offrisse al posto mio, lei mi avrebbe aggiustato il colletto del vestito per evitarmi una brutta figura mentre morivo.
C’è qualcosa di profondamente sbagliato e affascinante in questa sua accoglienza del mondo esterno: come se dalla nascita fosse seduta dietro la scrivania di una segretaria. Questo spiegherebbe il bisogno costante di archiviare, catalogare, ordinare; la predilezione per i tailleur da ufficio, la fedeltà decennale allo stesso parrucchiere e allo stesso taglio di capelli. Il timore dei germi e del contatto umano. Il modo impavido in cui affronta le conversazioni con i gestori telefonici e le prenotazioni delle visite di controllo. L’uomo medio che ha sposato. La memoria straordinaria per l’ordine esatto in cui mamma doveva prendere le medicine. La gamba che trema ogni volta che papà parte con una sua tirata e che nasconde la fretta di alzare le spalle e dire: Va bene, babbo, come vuoi tu.
Mi stupisce che l’occhiata che lancia al marito sul divano non lo incenerisca. Poi però va a mettergli una mano sulla testa e gli accarezza i capelli; a occhio sono meno dell’ultima volta.
«Matti?»
Vincenzo geme, indica un angolo qualunque della stanza. Mattia in effetti è ancora vivo ed è impegnato a spogliare un albero che ha già perso la punta e i fili dorati. È forse la prima volta in questa casa che un albero di Natale resta in servizio oltre il due gennaio. Sparse sui rami restano ancora le vecchie decorazioni che mamma collezionava di anno in anno: palle di fattura e colori diversi, Babbi Natale di carta, angioletti all’uncinetto con le mani giunte e ali sproporzionate.
«Il gattino?»
«Adesso lo troviamo».
Vera si inginocchia accanto al bambino, gli sfila il cavo delle luci dalla manina.
«Prima ci stavi giocando vicino al camino, amore. Ti ricordi dove lo hai messo?»
«Poppy l’ha nascosto».
«Il camino era acceso?» chiedo io.
Vera mi ignora; infila le luci in una scatola piena per metà di decorazioni e la spinge fuori dal raggio d’azione del figlio. Poi gli prende le guance tra le mani e lo fissa come per ipnotizzarlo.
«Poppy non esiste, amore mio. Lo dici a mamma dove hai messo il gattino?»
Non funziona. Come un animaletto selvatico lui sguscia via e corre ad afferrare per i piedi un Babbo Natale di carta che pende da un ramo basso, lo tira a sé, lo tira, finché non lo strappa.
«No, cazzo!»
Vera mi lancia un’occhiataccia e lo abbraccia come per difenderlo. Fa bene, perché se potessi farei sparire Babbo Natale dalle sue piccole mani appiccicose.
«Scusa, mi è scappato. Scusa».
Lei lo bacia sulla fronte e gli fa il solletico per farmi sentire un mostro. Sono certissima che mi abbia sentito mentre sussurra sciocchezze al bambino e gli costruisce attorno una bolla che tenga a bada la zia brutta e cattiva. Accarezzo l’angioletto bianco che penzola sul ramo più vicino.
«È tutta roba di mamma, questa. Non penso che a papà faccia piacere se li fa fuori tutti».
Vera culla il suo bimbo come se esistesse solo lui e, peggio, come se in questa stanza fosse sempre esistito solo lui. Quasi non mi accorgo che mi fa cenno di guardare, poco più in là, la cesta dei giochi da dove spuntano un paio di Babbi Natale mutilati e un angioletto stropicciato.
«Ci hanno giocato fino a mezz’ora fa con papà. Sono solo cose vecchie, non muore nessuno».
Giro i tacchi e me ne vado di là, calpestando tutte le mattonelle del corridoio fino alla nostra stanza in cerca di una porta da sbattere. Mi chiedo se ha sentito, ma anche se il dubbio permane non ripeto.
La stanza è ingombra di scatoloni di libri e sugli scaffali sono comparsi modellini di navi, arei, macchine d’epoca, costruiti meticolosamente e lasciati in pasto alla polvere. Poster e foto di classe sono stati tirati via e nella parete bianca in corrispondenza di quello che era il mio letto spicca un cappello piumato da bersagliere. Come un’illusione ottica rinascimentale, le foto di mio nipote sparse per tutta la stanza mi fissano attente mentre raggiungo il balcone, curiose di vedere se darò un seguito drammatico a quest’aria afflitta.
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Invece fumo soltanto pensando alla volta che mamma mi ha beccato fuori col pacchetto e me ne ha chiesto una. Era l’ultima ma gliel’ho data perché volevo vederla mentre faceva una cosa alle spalle di papà. Pensavo che avrebbe tossito e invece se l’è goduta in silenzio e poi ha messo la cicca in un fazzoletto di carta e mi ha chiesto di smettere. Aveva poco più di quarant’anni, l’età che ho io adesso. Mi sembrava così vecchia.
Ci penso su qualche secondo ma poi faccio partire la chiamata. Al quinto squillo, stacco e valuto la fattibilità di un altro vocale lunghissimo e disperato.
«Stai fumando?»
Butto la sigaretta dal balcone direttamente sull’Opel Corsa di Vincenzo.
«No».
«L’Opel è nostra. Fai schifo».
Ma non è arrabbiata. È nervosa.
«Senti».
La fermo subito. Non voglio che si scusi.
«No senti tu, Vera: mi dispiace, sono preoccupata per Iole e non so se sono stata abbastanza chiara al telefono. Non dico sia l’apocalisse ma è l’apocalisse per lei. E non c’è un’altra soluzione, quindi dobbiamo essere convincenti e soprattutto compatte se la vogliamo aiutare. Soprattutto dopo Natale. Quindi io direi di fare così: quando Iole arriva, lo facciamo sedere tranquilla e cominci tu. Oppure io. O meglio tu. La cantina di nonna non serve più a nessuno. Sono almeno cinquemila a testa. Forse sei. Secondo te? Cinque o sei?»
Vera alza una mano e me la piazza davanti alla bocca. Odio quando lo fa, e lo fa sempre.
«Secondo te» sussurra «Mattia è strano?»
Una parte di me è rimasta ancora attorcigliata attorno alla parola apocalisse quindi non riesco proprio a essere ricettiva.
«Strano come?»
«Abbassa la voce».
Abbasso la voce.
«Strano come?»
Vera si abbraccia, poi forse se ne accorge perché subito raddrizza la schiena, lascia cadere le mani sulla ringhiera.
«Da novembre è tutto un Poppy ha fatto questo, Poppy ha fatto quello. È una specie di pupazzo che tengono all’asilo, mezza scimmia, mezzo orso, non si capisce».
Non mi pare una tragedia.
«Non mi pare una tragedia» dico, ma lei mi parla sopra.
«È fissato con i cucchiaini: torna sempre dall’asilo con le tasche piene di cucchiaini sporchi. Gliene abbiamo comprato dieci buste ma dice che Poppy non li vuole, gli fanno schifo. Come gli fa schifo la mela, i piselli e lo shampoo. Certe volte di notte mi sembra pure che ci parli. Hai presente i bambini dei film che parlano da soli e poi scopri che parlano col diavolo? Poppy non è il diavolo ma è una rottura di cazzo».
È sconvolta, lo vedo e il mio cuore si stringe un po’.
«Quindi secondo te ha ammazzato il gatto?»
Lei rimane in silenzio a guardare la sua macchina e io so che sta cercando di intravedere la cicca per andare a recuperarla.
«Vera? Dài, sto scherzando».
Lei non si gira.
«Vera. La dobbiamo aiutare: siamo sorelle. E poi me l’ha chiesto».
Quest’ultima cosa la dico perché non mi sta guardando e solo così le posso mentire.
«Hai sentito?» bisbiglia.
«Sì. No. Cosa?»
«Miagola. Sta giù» dice e corre dentro senza aspettarmi.
Prima di andarle dietro, il vocale lo mando: Iole vieni, per favore. Per favore.
Appena inviato, però, lo cancello e lo sostituisco: Se non vieni non ti guardo più in faccia.
Per molti aspetti era facile venire dopo Vera.
La mattina si vestiva per la scuola, grembiule e fiocco e se qualcosa non quadrava, se il colletto era abbottonato male e ci faceva perdere tempo, o se mancava la penna nell’astuccio e papà partiva in quarta, io avevo tutto il tempo di riannodare e controllare e aggiustare e sopperire. Anche nelle nostre litigate arrivava sempre il momento in cui lei rinunciava: mi bastava alzare troppo la voce, minacciare di rompere o sporcare qualcosa per superare una linea invisibile che lo avrebbe fatto arrabbiare e allora lei mollava la bambola o la pretesa di vincere un gioco. Com’è buona, dicevano le maestre.
Non sapevano che in casa c’era una corda sospesa su cui camminare, Vera per prima, io dietro, con le mani appoggiate sulle sue spalle. Nostra madre ci guardava con orgoglio cedere il posto all’altalena, fare i compiti senza alzare la testa. Teneva la corda ben tesa per non farci cadere.
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