Vincitore del Prix Renaudot 2020, “Storia del figlio” è un mosaico raffinato e abbagliante, una saga familiare in miniatura. La scrittura di Marie-Hélène Lafon è sobria e tersa, e improvvisamente esplode di luce, di profumi e di pennellate curate, stese con magistrale delicatezza: il suo è un quadro impressionista profondamente radicato nella regione dell’Alvernia, un mondo rurale di splendente bellezza, dove si nasce, si cresce, e dove il cuore, di tutti, rimane attaccato per sempre

Marie-Hélène Lafon”Chanterelle porta curiosamente un nome da regno antico. Un cielo immenso le volteggia intorno, nella luce dorata di un’estate indiana che non vuole finire.
Chanterelle è vuota, follemente azzurra, assalita dalla luce”.

Giocando con il tempo, Marie-Hélène Lafon ha scritto una saga in miniatura, e raccontato un secolo di storia, composta di tante storie semplici, in 160 pagine: la sua è un’opera ingegnosa di densità, costruita con un raffinato lavoro di dettaglio, con la scelta minuziosa delle parole da usare.

Storia del figlio (Fazi editore, traduzione di Antonella Conti) abbraccia un’immensità, che emerge dallo sguardo attento alla quotidianità, e lo fa con l’essenziale, con pagine che brillano di nitidezza, illuminando momenti di vita e fermandoli nel colore.

Storia del figlio

Dal 1908 al 2008 Lafon racconta gli episodi di una vicenda familiare, frammentata in istantanee che si incastrano insieme: un bimbo muore in un tragico incidente domestico, il suo gemello diventa un ragazzo bello, impetuoso, irresistibile. Al collegio incontra un’infermiera che ha sedici anni più di lui, la voce calda e granulosa: Paul Lachalme è pericoloso e inebriante, è Gabrielle Léoty una donna libera, una “puledra scappata dalla stalla”.

Gabrielle avrà un figlio, clandestino come quella relazione con un ragazzo mai suo, fremente verso la vita, distratto e subito lontano. André, “Dadou”, cresce con la sorella di Gabrielle, Hélène e le sue cugine. È un figlio senza padre, con una madre che compare qualche settimana l’anno, una parigina avvolta nei profumi di un’esistenza lontana, protettiva proprio nella sua distanza.

Tra bisogno di sapere e paura di conoscere la verità sul suo padre biologico, la vita di André passa finché, ormai adulto e sposo, gli viene rivelato un nome, una professione, le coordinate di un’appartenenza, la possibilità di un volto.

“Sconosciuto è un aggettivo qualificativo, ne è sicuro, su questo, sulla grammatica, può contarci. A padre sconosciuto, figlio sconosciuto. Lui e quel padre avrebbero dunque in comune un aggettivo di quattro sillabe, la prima delle quali contiene un prefisso di senso negativo, le tre seguenti sono un participio passato”.

Marie-Hélène Lafon rifiuta qualsiasi linearità e traccia un percorso umano tra attaccamento e assenza, avanti e indietro nel tempo, saltando da un’epoca all’altra, facendo ritorno alla giovinezza, all’ombra fascinosa di Paul giovane seduttore, per rilanciarsi avanti a Dadou padre a sua volta, e poi ancora indietro alla notte in cui la fratellanza di Paul e Armand si è dilaniata e Paul è rimasto il gemello solo, e poi di nuovo, andata e ritorno, con dodici dipinti per altrettante date, che vivono nello spazio di luce che gli viene regalato per un attimo, perché la vita si consuma così, finché un pronipote compare sulla scena, dopo 100 anni, e si raccapezza tra nomi e parentele, quasi a voler portare quiete nello scompiglio di generazioni.

Senza preoccuparsi di una sequenza temporale, l’autrice crea un caleidoscopio in cui il tema cardine della ricerca di un uomo che non aveva saputo, o potuto, o voluto essere padre, si avviluppa in una matassa di legami. Perché è sempre e solo il tempo a colmare i vuoti lasciati dagli esseri umani.

Trovare il proprio posto nel mondo tiene conto delle proprie radici, è da lì che inizia il viaggio e si stabilisce la rotta: essere consapevole di questo definisce la storia di André, la sua ricerca affettiva, che è una morsa che gli azzanna il cuore. E se una paternità riconosciuta non c’è, se un portone resta chiuso e fissato solo in una foto a ricordare una tappa, c’è il valore più profondo di cui prendere coscienza, da cui ereditare se non un nome, una gratitudine più intima: di chi ci sentiamo figli.

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Nei profumi e nei colori di un’appartenenza serena c’è il senso di una vita che cerca la luce: così quel bambino “a tradimento” che per Hélène e la sua famiglia era stato come una canzone allegra, un figlio in più da accogliere nel calore e nell’umanità di un’esistenza sana, diventa un adulto educato al gusto della felicità nelle dolcezze “coltivate come piante perenni sotto i platani di Figeac”.

Figlio cresciuto in mezzo alla gioia contagiosa, con tre cugine danzanti al sole, tra le favole di La Fontaine e nell’acqua luccicante del Jaladis, André si costruisce il suo posto di uomo, il suo ruolo di padre compiuto e presente, perché impara a convivere con la crepa di un padre assente, a fiutarne le tracce, senza dimenticare le sofferenze che azzannavano il suo cuore bambino, ma senza lasciarsi sopraffare dalle acque nere del tormento.

Il dolore esiste, non si dimentica, è un procione che fa tana dentro di noi, e resiste: ma intanto si vive, figli di qualcuno, ci si innamora, ci si crea spazio nel mondo, ci si adatta a grammatiche nuove, che non hanno nulla a che vedere con il sangue. I corpi si accordano all’amore, e rivelano la magia dell’essere famiglia.

Vincitore del Prix Renaudot 2020, Storia del figlio è un mosaico raffinato e abbagliante. La scrittura di Marie-Hélène Lafon è sobria e tersa, e improvvisamente esplode di luce, di profumi e di pennellate curate, stese con magistrale delicatezza: il suo è un quadro impressionista profondamente radicato nella regione dell’Alvernia, un mondo rurale di splendente bellezza, dove si nasce, si cresce, e dove il cuore, di tutti, rimane attaccato per sempre.

“A Venezia, nientemeno che all’hotel Royal Danieli, dove aveva soggiornato l’autunno precedente con una bellissima donna un po’ al di sopra delle sue possibilità, aveva pensato alla sua camera di Chanterelle, alle lenzuola ricamate lavate stirate, preparate dalla madre e dalla zia. Ci aveva pensato dentro la pelle, era il suo segreto e tale sarebbe rimasto”.

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