L’amore è l’argomento centrale della nostra epoca, ed è un argomento politico. Su ilLibraio.it un estratto dall’edizione italiana di “Il cuore scoperto – Per ri-fare l’amore” della femminista e podcaster francese Victoire Tuaillon, che coinvolge anche autrici, pensatrici e attiviste del panorama italiano (tra cui Giorgia Serughetti, protagonista del brano che proponiamo, dal titolo “Il privilegio del centro”), oltre a librerie specializzate in tematiche di genere, femminismi e cultura queer. Tanti i temi di attualità affrontati negli interventi, da diversi punti di vista
Amare è qualcosa che si impara? Se sì, come? Quali pratiche concrete possiamo mettere in campo, individualmente e collettivamente, per creare, nutrire, vivere, nonostante tutto, relazioni profonde ed egualitarie?
L’amore è l’argomento centrale della nostra epoca, ed è un argomento politico. L’amore è una forza plasmata da norme e immaginari profondamente ancorati al nostro retaggio culturale, che di rado mettiamo in discussione per cercare nuovi modelli. Ma come si inventano forme relazionali nuove? Rivoluzionare l’amore non è solo ripensare le nostre relazioni, né spazzare via tutti i modelli con un colpo di spugna per rivendicare totale libertà. La decostruzione delle norme della coppia monogama va pensata nel quadro di una riflessione politica sulle condizioni materiali delle nostre esistenze: che senso avrebbe fare una rivoluzione romantica in un mondo di disuguaglianze? E che cosa può davvero rivoluzionare l’amore?

Victoire Tuaillon nella foto di Alice Murillo
In uscita per add Il cuore scoperto – Per ri-fare l’amore della femminista e podcaster francese Victoire Tuaillon. Classe ’89, la giornalista e autrice ha curato i podcast Les Couilles sur la table e Le Cœur sur la table, e con add ha già pubblicato Fuori le palle. Privilegi e trappole della mascolinità.
L’edizione italiana di Il cuore scoperto (con le illustrazioni di Federico Manzone) – a cura dell’Associazione Vanvera (che cura anche l’omonimo podcast di Storielibere.fm) è arricchita da interviste con autrici, pensatrici e attiviste del panorama italiano (Leo Acquistapace, Valentina Amenta, Antonia Caruso, Carlotta Cossutta, Marie Moïse, Giusi Palomba, Giorgia Serughetti, Sessfem, Giulia Siviero) e da una bibliografia curata da librerie indipendenti, specializzate in tematiche di genere, femminismi e cultura queer.
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Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto dall’intervista a Giorgia Serughetti:
Il privilegio del centro
Sono Giorgia Serughetti, insegno all’Università di Milano Bicocca. Sono arrivata alla carriera accademica abbastanza tardi, dopo aver fatto molte cose diverse nella vita. Sono stata una ricercatrice un po’ eclettica da un punto di vista disciplinare, lavorando e facendo ricerca in mondi che confinavano sempre con l’intervento sociale. Al di là del lavoro accademico, conservo sempre un piede fuori in altre organizzazioni o enti attraverso quello che mi piace rappresentare come un impegno di intellettuale pubblica. L’intenzione è quella di utilizzare davvero il sapere che provo a produrre, grazie anche al privilegio di lavorare all’interno di un’istituzione culturale.
Quando ti ho raccontato che il libro parlava di relazioni come questione politica, mi hai risposto istintivamente: «Ma io sono una persona molto standard! Sono bianca, eterosessuale, monogama…». Cosa intendevi?
Quello che intendevo è che mi sento portatrice di una prospettiva non minoritaria: del resto ho affrontato gli studi di genere, gli studi femministi, con l’intento di comprendere alcuni fenomeni che stanno al centro dell’organizzazione del genere e della sessualità, più che ai margini. Per molti anni uno dei miei campi di interesse e di studio è stata la prostituzione, in particolare il lavoro sessuale di donne per una clientela maschile. Quello che mi interessava andare a reinterrogare era cosa ci fosse dietro al fenomeno degli uomini che pagano le donne, la forma più classica di questo lavoro, con l’intenzione di capire cosa raccontasse di noi come società. Uso il concetto di «centro» anche pensando al «margine» di bell hooks: io penso veramente che, così come è prezioso il concetto di margine, è prezioso anche riconoscere quando in un modo o nell’altro si abita il centro. La mia è sempre stata un’interrogazione del problema del patriarcato nella sua forma più classica e visibile: la dominazione degli uomini cis sulle donne cis e tutti i suoi corollari in termini di oppressione delle sessualità minoritarie. Il concetto di centro non è sempre corrispondente al centro dal punto di vista della stratificazione economica e sociale. Però se facciamo un ragionamento di genere adottando la prospettiva di Judith Butler,[1] non possiamo che riconoscere il privilegio di una vita vivibile, per quanto precaria e ovviamente sempre in lotta con delle condizioni ostacolanti. È doveroso riconoscere il privilegio di una cittadinanza, di un’adesione non forzata a un certo modo di vivere le relazioni, di una sessualità accettata socialmente, il privilegio del titolo di studio, di una posizione sociale, professionale, il privilegio della voce, del poter parlare. Questo un po’ mi corrisponde, nel senso che non ho mai forzato i miei percorsi di ricerca in una direzione in cui non mi sentissi autentica.
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Nel tuo lavoro ti occupi anche dell’analisi delle destre populiste, ostili alle uguaglianze sociali e strenue paladine della famiglia «tradizionale». In Italia abbiamo una presidente del Consiglio che si definisce «donna, madre, cristiana» che ha avuto una figlia fuori dal matrimonio e si è separata. Che radici ha l’accettazione di questa contraddizione?
Secondo me questo modello presenta un grado di seduzione proporzionale al fallimento, o alla minore seduttività, dei messaggi di liberazione. In decenni di ordine neoliberale, la parola «libertà» è stata infatti distorta nella libertà di competere, libertà di vendersi, libertà di fare di sé quello che ci piace. Peccato che ciò avvenga in un contesto di abbandono sociale, dove vengono meno le infrastrutture di sostegno e di riproduzione della vita. Penso che quel tipo di libertà abbia comprensibilmente smesso di affascinare anche le donne, smesso di figurare come una promessa di felicità. Fa molta più presa un modello di donna che, per quanto abbastanza estranea ad alcuni schemi relazionali e familiari troppo rigidi, continua a esaltare le virtù tradizionali delle madri e un modello di famiglia dentro cui si possa davvero realizzare un certo tipo di femminilità. Quello che ha affascinato le donne che hanno votato soggetti che in realtà minacciano di comprimerne le libertà – in cambio di una promessa di conforto soprattutto rivolta alle maggioranze razziali, sociali, religiose – è significativo di un tempo in cui una certa parabola di emancipazione collettiva ha esaurito il suo corso, mentre l’emancipazione in chiave individuale resta una risorsa anche simbolica forte. Da questo punto di vista Giorgia Meloni è una figura che può offrire un messaggio rassicurante alle donne madri che trovano valorizzazione nei ruoli tradizionali, ma allo stesso tempo presentarsi come una donna capace di tenere salde le redini della propria vita. Lea Melandri dice che l’assenza di potere politico delle donne è stata compensata storicamente da due poteri: la maternità e la seduzione. Riconoscerti quel potere di madre dentro una famiglia valorizzata in termini pubblici resta una carta vincente. Se in più è giocata da una donna che ti consegna anche l’idea che puoi lasciare il tuo compagno se è uno stronzo e riorganizzarti da te, tutto ciò diventa un ottimo mix di contemporaneità e tradizione che comunque gioca sulla leva dei ruoli tradizionali e quindi sulla possibilità, per chi si riconosce in quel modello, di sentirsi veramente rimessa al proprio posto nel mondo. Tutto ciò a fronte di un contesto che cambia, nel quale i modelli familiari si moltiplicano e di fronte ai quali la sensazione da parte di chi non si riconosce in questo cambiamento può essere quella di aver perso riconoscibilità sociale.
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Se contrapponiamo a[ll’] idea di responsabilità verso gli altri la spinta all’autodeterminazione del femminismo, sembra nascere una tensione complicata tra autonomia e dipendenza. Come si contemperano le due spinte?
Il miglior femminismo ha sempre riconosciuto la complessità dei rapporti tanto di riconoscimento reciproco quanto di oppressione, che proviene anche dalle relazioni. Le relazioni sono al tempo stesso strumento di oppressione e condizione di libertà. Senza relazioni non c’è libertà. La libertà di cui si parla quando si parla del pensare per sé e da sé, pretendendo in qualche modo di poter rinunciare a ogni esercizio di responsabilità nei confronti degli altri, è una libertà piuttosto vuota che a me evoca l’infelicità. Diverso invece è stare fino in fondo nella contraddizione di come conciliare il nostro bisogno di relazionalità – il nostro bisogno di sentirci riconosciute e di amare – con il problema dell’autonomia, perché abbiamo alle spalle millenni di educazione alla dipendenza. In qualche modo continua a sedurci il pensiero che solo smarrendo l’autonomia all’interno di una relazione si possa diventare veramente sé stesse, felici, pienamente parte della comunità. Allora il problema di come essere autonome nelle relazioni è un po’ il problema del femminismo. Questo vale sia a livello di relazioni individuali sia a livello di visione generale della società perché la sfida sta nel fatto di pensare queste relazioni come relazioni costitutive del nostro stare al mondo. Senza queste relazioni significative, senza questa dimensione relazionale, non riesco a immaginare una piena realizzazione dell’umano. Anzi trovo veramente mortifero il discorso sull’autonomia astratta che considero totalmente illusoria, eredità di una lunga tradizione di pensiero che vede l’umano come individuo acquisitivo, competitivo e che innanzitutto pensa sé stesso in modo indipendente dagli altri. Questo non significa che le nostre relazioni intime, personali, debbano essere plasmate sulla base di una visione politica del mondo, ma significa che quelle tracce che avvertiamo dentro la nostra storia di dipendenza, di relazioni vischiose, non vanno trattate solo come un ostacolo alla realizzazione di sé.
Mi ricordo una vecchia femminista che mi diceva di non riuscire a tollerare l’uomo che stava lì a guardare mentre lei lavava i piatti. Quest’immagine domestica le sembrava intollerabile e io ho pensato alla mia vita, al fatto di essere una persona molto poco tradizionale nella vita domestica. Ho pensato a quante volte ho lavato i piatti: poche… e a quante volte i piatti li ha lavati lui e a quanto per me lavare i piatti non consegnasse affatto l’idea di una sottomissione a una norma. Non tanto perché siamo nella parità perfetta, quanto perché evidentemente non sono mai i gesti in sé a raccontarti qualcosa, ma il tipo di significato di cui li carichi all’interno di una cornice di significato. Ovviamente dipende dai contesti, dipende da chi siamo, dipende da dove viviamo, però secondo me è utile riconoscere che in molte relazioni possano esistere forme problematiche di dipendenza, di mancanza d’autonomia, che non passano necessariamente più da chi cucina o chi fa il bucato. I segnali di problematica disparità nelle relazioni possono essere meno visibili, perché passano spesso attraverso gesti, atteggiamenti e comportamenti diversi dal passato, e questo ci obbliga a scavare un po’ di più dentro di noi e a non limitarci ai cliché. Tutto il lavoro di assoggettamento delle donne che passa soprattutto dalla svalutazione, persino dalla manipolazione psicologica, resta secondo me un tratto che ancora segna parecchio le relazioni tra uomini e donne oggi. Le donne vengono convinte di non valere abbastanza e di aver bisogno di cercare valore attraverso la vicinanza ad un uomo che vale di più. La permanenza di un dominio maschile va effettivamente stanata nelle sue forme un po’ meno eclatanti e indubbiamente qualche cosa da stanare ancora c’è.
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A questo proposito trovo molto bella l’idea che ho ascoltato nel vostro podcast della lotta femminista come una lotta per l’amore. Secondo me la lotta per l’amore significa anche nutrire il nostro vivere in società di investimenti più densi, più profondi. Questo è a mio avviso il richiamo a un femminismo che non sia soltanto intellettuale ma militante, il richiamo forte all’idea di stare dentro anche a relazioni dense di responsabilità reciproca, in alcuni contesti anche di mutualismo, aiuto reciproco, costruzione di comunità, per la sopravvivenza o comunque per un sostegno alla vita, a una vita libera dalla violenza, una vita anche fatta di gesti materiali di aiuto. Perché il femminismo diventa particolarmente cruciale come approccio, come movimento, come investimento, come impegno in contesti in cui davvero quasi coincide con la lotta per la vita e quindi anche l’idea di amore si riempie di sensi nuovi.
[1] Butler si chiede «Quali vite sono vivibili?» in Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, a cura di Olivia Guaraldo, Postmediabooks, 2013.
(continua in libreria…)
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