Le narrazioni letterarie, le cronache e le rappresentazioni artistiche hanno alimentato un immaginario del veleno come arma segreta e insidiosa, e delle donne come le principali “avvelenatrici”. Su ilLibraio.it un estratto dal saggio “Arsenico e altri veleni – Una storia letale nel Medioevo”, in cui Beatrice Del Bo decostruisce alcuni falsi miti di un fenomeno che ha affascinato e spaventato l’umanità per secoli

Nel Medioevo il veleno era una minaccia costante, tanto che le morti per avvelenamento erano relativamente comuni, e l’arsenico, con la sua letale efficacia e la sua invisibilità, era una delle sostanze più utilizzate.

Le narrazioni letterarie, le cronache e le rappresentazioni artistiche hanno alimentato un immaginario del veleno come arma segreta e insidiosa, e delle donne come le principali “avvelenatrici”.

Arsenico e altri veleni, un saggio di Beatrice Del Bo

A partire dalle fonti storiche, nel saggio Arsenico e altri veleni – Una storia letale nel Medioevo (Il Mulino), Beatrice Del Bo (che insegna Storia economica e sociale del Medioevo e Didattica della storia all’Università degli Studi di Milano) decostruisce alcuni falsi miti di un fenomeno che ha affascinato e spaventato l’umanità per secoli.

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Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Veleno quotidiano

Nella nostra immaginazione, il veleno è ammantato di mistero. Attorno a questo perno si sono costruite narrazioni letterarie di grande successo, dominate da intrighi politici e amorosi, drammi passionali, ossessioni alienanti e tremende vendette. Le morti per avvelenamento ci vengono raccontate come eccezionali ed enigmatiche.

L’epoca storica d’elezione in cui sono ambientati questi fatti è il Medioevo, che nell’immaginario collettivo risulta misterioso di per sé. Ed è al Medioevo storico e non a quello fantasy, per così dire, o letterario costruito nei secoli successivi, che è dedicato questo libro.

Infatti, se abbandoniamo le pagine di Shakespeare e di Eco, le musiche di Donizetti, le immagini di Biancaneve e le gesta di Lucrezia Borgia – nella sua versione di personaggio da libro giallo e non storico –, e ci spostiamo tra i manoscritti, le carte dei notai, le leggi municipali, le sentenze dei giudici, i diari personali, le agiografie, i Tacuina sanitatis – i trattati medico-dietetici illustrati ispirati a un testo arabo dell’XI secolo e diffusi in Italia dal Trecento –, le novelle, le cronache dei contemporanei e gli scheletri; se, cioè, analizziamo le tracce di veleno lasciate sul suo cammino dalla storia medievale, faremo molte scoperte: innanzitutto che esso non è un elemento eccezionale, anzi, e nemmeno riservato ai principi. In quei mille anni, fra chi avvelena si nascondono, infatti, tante persone comuni.

Comprenderemo, oltretutto, che, per la gente dell’epoca, l’avvelenamento faceva parte della quotidianità ed era una causa di morte piuttosto frequente. Insomma, il toxicum era qualcosa di eccezionalmente ordinario.

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La nostra visione attuale è stata deformata infatti dalla consultazione di fonti che per forza di cose riguardano le sfere alte della società, cioè coloro che lasciano traccia di sé, come i carteggi tra principi, per intenderci, e di una letteratura contemporanea che enfatizza il ruolo del veleno quale strumento per eliminare nemici e persone scomode potenti.

Invece il veleno è assai diffuso. Se non fosse stato così, Giovanni Boccaccio, nell’Introduzione alla Prima giornata del Decameron, che è un’opera di successo destinata a un vasto pubblico, non avrebbe scelto di illustrare gli effetti della cosiddetta Peste Nera, che colpì l’umanità a metà Trecento, paragonandoli a quelli dell’assunzione di un veleno:

La peste non passava solo da uomo a uomo ma contagiava anche gli animali che ne morivano in breve tempo. Sono testimone che un giorno, alcuni gettarono per strada gli stracci di un morto per il morbo. Due porci vi si avventarono sopra e morirono poco dopo come avvelenati. Da questo e altri episodi nacquero paure che alimentarono credenze in chi restava vivo e tutti fuggivano i malati convinti di conservare la sanità.

Dunque per descrivere le conseguenze di quella malattia orribile e sconosciuta che ha falcidiato la popolazione europea, l’autore individua un esempio che ritiene chiaro e comprensibile ai più. Decide, cioè, di paragonarle a qualcosa di noto, benché, nella fattispecie, a esserne colpiti siano due maiali.

È lecito allora pensare che nel Medioevo i sintomi da avvelenamento fossero noti perché facevano parte della quotidianità. Nulla di straordinario, come invece si è portati a credere.

Immaginario: il veleno è donna?

È un altro luogo comune che vorrei sfatare il fatto che a uccidere nell’Età di Mezzo con tali sostanze siano spesso donne, poiché invece sono soprattutto uomini. Prendendo le mosse dagli stereotipi, mi piace­rebbe mostrare che le fonti ci rivelano che la relazione scontata tra donne, veleno e Medioevo tanto scontata non è.

Questo trinomio mortifero pressoché inscindibile che, insieme ad altri cliché, contribuisce a consolidare una visione negativa, distorta e deforme tanto delle donne quanto di quei mille anni di storia, non è reale né realistico ma asseconda la misoginia del suo tempo e quella del nostro.

Per quali ragioni questa triade gode ancora oggi di credibilità? Perché ci risulta così persuasivo che ad av­velenare siano state in prevalenza donne benché sotto gli occhi si abbiano esempi di segno del tutto opposto?

Attualmente, infatti, sono soprattutto potenti uo­mini politici a impiegare questa metodologia omicida per eliminare singoli antagonisti in possesso di dati sensibili e informazioni scomode, oppositori, perso­naggi troppo loquaci e disobbedienti, contestatori, in­somma chiunque non sia gradito al regime; oppure sono nuclei terroristici e governi che ne fanno uso per azioni criminali e militari, anche di massa, colpendo in maniera indiscriminata gruppi di persone, armate e disarmate, in tempo di pace e di guerra.

Quindi, se dovessimo tracciare l’identikit dell’u­tilizzatore del veleno per eccellenza, questi dovrebbe avere le caratteristiche di un uomo, spesso potente, abile nel maneggiare armi e prestante fisicamente. Pro­prio agli antipodi dello stereotipo che lungo i secoli ha raffigurato come principale utilizzatrice di questa sostanza una donna, cioè un essere presentato come irrazionale, succube delle passioni, debole fisicamente e psicologicamente, e quindi pressoché costretto all’uso di questa metodologia omicida, essendo incapace di impiegarne altre.

(continua in libreria…)

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