Walter Siti torna in libreria con il pamphlet “Contro l’impegno – Riflessioni sul Bene in letteratura”. Per lo scrittore si sarebbe diffusa l’idea che la narrativa debba promuovere il bene, guarire le persone e riparare il mondo. Al contrario, per l’autore della raccolta di saggi (in cui si citano Roberto Saviano e molti altri) la letteratura è un bastian contrario che spira sempre dal lato sbagliato – Su ilLibraio.it l’introduzione di un volume destinato a far discutere, perché entra nel vivo del dibattito contemporaneo

Non è certo una novità che i libri di Walter Siti provochino polemiche e discussioni. E anche la sua nuova pubblicazione, Contro l’impegno – Riflessioni sul Bene in letteratura (Rizzoli), tra pamphlet e raccolta di saggi, è destinata a far parlare. Entra infatti nel vivo del dibattito contemporaneo (dagli Usa all’Europa) e cita tanti autori italiani (e non) di oggi, da Roberto Saviano a Gianrico Carofiglio, passando per Alessandro D’Avenia e tanti altri scrittori (e scrittrici), anche del passato ovviamente.

Da un po’ di tempo, secondo l’autore, si sarebbe diffusa l’idea che la letteratura debba promuovere il bene, guarire le persone e riparare il mondo. Ma per Siti la letteratura è un bastian contrario che spira sempre dal lato sbagliato; il suo maggiore obiettivo non è la testimonianza, ma l’avventura conoscitiva.

In questa raccolta di saggi (alcuni già pubblicati e rivisti per l’occasione), che toccano diversi aspetti e problematiche, Siti analizza alcuni autori e testi contemporanei di successo per difendere la letteratura dal rischio di abdicare a ciò che la rende a suo avviso più preziosa: il dubbio, l’ambivalenza, la contraddizione. Non senza il sospetto che, in alcuni casi, secondo l’autore l’impegno “positivo” sia soltanto la faccia politicamente in luce di una mutazione profonda e ignota, in cui tecnologia e mercato imporranno alla letteratura nuovi parametri…

walter siti libri da leggere estate 2021

Su ilLibraio.it per gentile concessione della casa editrice, proponiamo la prima parte dell’introduzione:

Introduzione

Offesa o medicina?

1.

Non bisogna incolpare le donne se non sono all’altezza dell’immagine ideale che ci facciamo di loro; non possono capirlo, perché nelle loro teste limitate un concetto così vasto non ci entra. L’uomo fa male a sperare sentimenti sovrumani in chi, per natura, è inferiore all’uomo in tutto; come ha il corpo più debole, così la donna ha anche una mente meno capace.

Se io scrivessi qui ora queste frasi, in prima persona, verrei giustamente sommerso da biasimo e vituperio; invece, per fortuna, quella che ho appena riportato è l’onesta parafrasi di un brano di una delle poesie più mature del maggior poeta lirico italiano di tutti i tempi. Dunque, che fare? Censurare Leopardi, togliere Aspasia dalla raccolta dei Canti, o almeno dalle edizioni scolastiche? O spiegarlo mettendo quei versi sul conto di una privata infelicità, dicendo alle liceali che li leggono: «compatitelo, era gobbo, puzzava e le donne lo schifavano»? Purtroppo non è così semplice: anche concedendo a Giacomo un bel po’ di frustrazione e ira rancorosa nei confronti della Fanny Targioni Tozzetti, o risalendo negli anni di “quella puttana della Malvezzi”,[1] o (come io credo) di Maddalena Signorini Pelzet che stava facendo soffrire l’amato Ranieri, le sue parole rispecchiavano largamente l’opinione comune e potevano appoggiarsi a studi scientifici di fisiologia del cervello (come la frenologia appena inaugurata da Franz Joseph Gall).

La letteratura occidentale comincia (libro primo dell’Iliade) con due maschi che litigano per decidere a chi tocca possedere una schiava; il romanzo moderno comincia (Robinson Crusoe) con un uomo bianco che libera un uomo nero e immediatamente pensa di tenerlo con sé come “suddito”, imponendogli un nome che non è il suo e convertendolo alla propria religione. La letteratura del passato gronda di presupposti non condivisibili, come probabilmente non saranno condivisibili per i posteri i presupposti su cui si fonda la letteratura di ora (a meno di non credere che la società occidentale abbia raggiunto la Verità assoluta). Nei classici non è difficile rintracciare posizioni razziste, misogine, omofobe, antisemite, classiste; ma anche, perché no?, elogi della tirannia, della violenza, dell’omicidio, dell’incesto, di ogni genere d’oscenità e perversione. A seconda dei periodi storici e della delicatezza dei lettori, anche la confessione al marito di amare un altro uomo, o una partita di caccia, o una bistecca al sangue mangiata con gusto, o troppe sigarette fumate, o una donna remissiva in amore o un omosessuale nevrotico possono mettere a disagio. Un eccesso di politicizzazione dei personaggi o un chiuso intimismo, un ateismo aggressivo o una religione troppo sbandierata, omertà vile di fronte ai criminali o indiscrezione verso individui noti, mammismo o odio per la madre, esasperato nazionalismo o oltraggio alla bandiera, tutto può irritare e indignare. Quindi, ancora una volta, che fare? Dar ragione a Platone ed escludere gli scrittori dalla Repubblica?

Il romanzo, soprattutto, ha avuto vita difficile nei secoli (ma nemmeno poesia e teatro sono rimasti immuni, basti pensare al Tartuffe di Molière o ai baudeleriani Fiori del male); accusato di oscenità, volgarità, diffamazione, blasfemia, tradimento della Patria o dell’Idea, responsabile per il suicidio dei giovani e l’adulterio delle mogli. Processato spesso, condannato, bruciato nelle pubbliche piazze – un destino di opposizione eroica al Potere e al perbenismo. Ora, almeno in Occidente, è tutto più soft: l’oscenità è quasi scomparsa, la libertà d’opinione è considerata un valore acquisito, la religione è debole e permissiva, la Patria è monopolio delle destre, all’Indice dei libri proibiti si è sostituito il movimento Disrupt Texts. Un tempo a condannare erano i tradizionalisti e gli autocrati, ora sono piuttosto i progressisti, forti di una egemonia culturale mainstream. La preoccupazione principale dei nuovi censori è pedagogica: si vuole evitare che la letteratura abbia un harmful impact, un impatto dannoso sui lettori – avvicinandoli a idee malsane come il fascismo, il maschilismo, il razzismo eccetera, o anche semplicemente suggerendo che certe strutture oppressive possano apparire normali, o che l’odio possa essere interessante quanto l’amore. Nessuna tolleranza verso chi “parla male perché pensa male”, meglio soffocare il contagio sul nascere; le parole sono pietre, e quelle letterarie tanto più in quanto seducenti. Non divise militari e toghe tribunalizie, ma solleciti tutori che agiscono per il bene delle menti meno avvertite e lavorano per un mutamento delle coscienze sui tempi lunghi, sentendosi avanguardie di un mondo finalmente più equo.

Così si sono succeduti, e si succedono, avvertimenti sulla nocività di questa o quell’opera letteraria, con episodi che spesso hanno superato il confine del ridicolo. L’esemplificazione è varia e pittoresca. Si parte dalla Disney, che ha tolto Gli Aristogatti dal catalogo disponibile a tutti e l’ha riservato agli adulti, perché i gatti siamesi vi sono rappresentati “con tratti caricaturalmente orientali”; stessa sorte è toccata a Peter Pan perché i membri della tribù di Giglio Tigrato vengono chiamati “pellirosse”; e in una canzoncina di Dumbo si insinua che i neri delle piantagioni non fossero in grado di risparmiare. Sul filo del rispetto per gli afroamericani ci sono state obiezioni a La capanna dello zio Tom, a Via col vento e addirittura a un romanzo per eccellenza antirazzista come Il buio oltre la siepe (ma vi si pronuncia la parola tabù, nigger, e l’avvocato Atticus, il difensore dei neri, è pur sempre un bianco che fa sfoggio di superiorità morale). Ovvie le rampogne contro Il mercante di Venezia (antisemita) e Arancia meccanica (violento); più sorprendenti le messe in guardia contro Romeo e Giulietta (negativo quanto a educazione familiare) e contro l’omofobia di un personaggio di Grease, o per l’eliminazione dal MoMA di un manifesto che annunciava una retrospettiva di Antonioni (il fotografo di Blow Up che sta sopra la modella sembra simulare uno stupro); Le supplici di Eschilo sono state vietate alla Sorbona perché il coro usava il blackface, a un Maggio Fiorentino si è cambiato il finale della Carmen perché avallava il femminicidio. E così via. Si impedisce ai personaggi di parlare una lingua realistica e alle trame di avere una conclusione in armonia con l’integrità dell’opera. Sempre assicurando che non si vuole censurare ma soltanto proteggere i fruitori più fragili: nei casi migliori imponendo avvertenze (trigger warning) e obbligando al dibattito,[2] nei peggiori cancellando ciecamente parti di testo, in ossequio a quel “politicamente corretto” contro cui già tanti intellettuali hanno preso posizione a costo di apparire reazionari ed elitari schizzinosi: mentre si cerca di ribaltare ingiustizie secolari, non si può guardare tanto per il sottile.

Ho chiesto a un’amica come avrebbe spiegato a una classe di diciottenni i versi misogini di Leopardi e lei mi ha risposto «partirei da Iser»; Wolfgang Iser era un professore tedesco il cui più noto contributo alla teoria della letteratura rimane l’idea del “lettore implicito”,[3] cioè del lettore che (consapevolmente o no) ogni scrittore ha presente mentre scrive – un lettore impregnato dell’enciclopedia mentale del proprio tempo, pregiudizi compresi. Mérimée, tanto per esemplificare sull’ultima risibile censura che ho citato, in Carmen presupponeva un lettore che: 1) considerava l’assassinio della colpevole una logica risposta d’onore per un uomo respinto e umiliato; 2) pensava alla Spagna secondo lo stereotipo della “terra caliente”, dalle selvagge passioni; 3) considerava le sigaraie sessualmente più libere delle donne borghesi; 4) subiva l’antico fascino della femmina volubile e crudele, ultima propaggine della belle dame sans mercy. Su questo ha costruito il suo testo, inventando e variando. Ogni lettore reale (“effettivo” diceva Iser, altri dicono “empirico”) si trova a confrontarsi con quello implicito ed è più che comprensibile che provi disagio (se, mettiamo, è una ragazza spagnola di oggi, con un lavoro part-time in un’industria di tabacco). I suoi parametri culturali sono diversi e diverso sarà il suo giudizio istintivo su questo o quel testo classico; ma mi pare alquanto stupido risolvere la questione in uno scontro di opposte fazioni: chi non vede nei testi che storture da raddrizzare e chi si scandalizza perché viene distorta e mutilata la tradizione.

I paletti, semmai, andranno fissati da un’altra parte, al termine di un sentiero più serio ma anche più subdolo: una volta ribadito in tutti i modi che nessun testo dovrebbe mai essere cancellato né mutilato, ma soltanto spiegato, resta il problema del cambiamento più o meno consapevole delle modalità di lettura o di giudizio. Il canone dei testi più significativi di un’epoca o di una lingua, o addirittura un canone della letteratura mondiale, deve essere considerato qualcosa di rigido? Oppure, se flessibile, secondo quali criteri proporre la correzione? Se non può valere l’impressionismo della lettura singola, soggetta ai venti e agli umori, che dire delle letture tendenziose di questo o quel gruppo organizzato? La fine delle competenze tecnico-critiche comporta necessariamente di cedere alla demagogia? Esiste un giudizio di valore oggettivo, che non sia pura inerzia accademica? Il canone invalso finora (Sofocle Virgilio Dante Shakespeare…) è composto in massima parte da scrittori bianchi occidentali (con qualche intrusione di poeti cinesi o di scrittrici giapponesi e anglosassoni); se questo canone è frutto di iniquità, ha senso lottare perché venga rivoluzionato inserendo più neri, donne, disabili, etnie emarginate, magari col meccanismo delle “quote”? Una brava critica d’arte, Linda Nochlin, si è domandata una cinquantina d’anni fa perché nella storia dell’arte non esistessero grandi pittrici, e si è risposta “per le stesse ragioni per cui non esistono grandi tennisti eschimesi” – assenza di campi, di scuole, di insegnamenti, di tempo per praticare.[4] Pretendere oggi parità di condizioni è inevitabile oltre che giusto, ma volgere le rivendicazioni al passato rischia di ottundere le gerarchie basate sulla grandezza dei testi.

La virtù di Checchina, di Matilde Serao, è una specie di Madame Bovary rinunciatario e buffamente malinconico: l’attenzione della protagonista per vestiti e cucina, la portata emotiva di quelle cose per lei certo Flaubert non le ha sentite e non ha saputo esprimerle, Emma spesso ha tratti virili; ciò non impedisce che Emma sia originale mentre Checchina è un’epigona,[5] e soprattutto che Flaubert per forza di stile dia alla vicenda di Emma uno spessore che coinvolge la storia della letteratura in avanti e all’indietro, verso Tolstoj e Cervantes, e ci consegni insomma una interpretazione del desiderio, mentre la storia di Checchina ci dice soltanto quanto la Serao fosse intelligente e sensibile. Porre i due testi alla pari nel giudizio di valore, per la causa politica della parità di genere, sarebbe uno schiaffo alla competenza critica. Un Prigione di Michelangelo può essere gradevole alla vista quanto uno splendido copricapo di piume dei nativi americani: ma ha dentro più cose, più tecnica, più filosofia, più coerenza, più cultura sedimentata. Supporre una oggettività dei giudizi di valore è un terreno scivoloso, argomentativo e non certo scientifico, ma se paragono una poesia di Ada Negri a una coeva di Giovanni Pascoli credo di riuscire a dimostrare con ragionamenti attendibili perché la seconda è più bella della prima. Bisognerà pur ammettere che, oltre al lettore empirico e a quello implicito, c’è un lettore ideale (o eterno) che è capace di giudicare e stabilire gerarchie nel tempo – purché i testi li abbia tutti a disposizione, è chiaro. Riconoscere le ingiustizie della Storia non può voler dire perdere la capacità di distinguere il bello dal brutto, né rovesciare sul testo i peccati dell’autore, del tipo “era d’accordo con la persecuzione degli ebrei, ha trattato sua moglie come uno straccio, ha lasciato i figli in un orfanotrofio, quindi il suo libro fa schifo e io lo espungo dalla biblioteca comunale”.

[1] Lettera ad Antonio Papadopoli, 21 maggio 1828.

[2] Che c’è di male, si dirà, in un’avvertenza o in un dibattito? Nulla, anzi, se non fosse che (con la pigrizia oggi imperante nella comunicazione) un’avvertenza o un dibattito obbligatorio possono dissuadere dalla lettura – e soprattutto che i giovani scrittori possono essere indotti a evitare terreni così perigliosi, come quelli di rappresentare un ebreo “non conforme” o un femminicidio.

[3] Der implizite Leser è del 1972; a lui si è ispirato Umberto Eco per il suo Lector in fabula (1979).

[4] Per gli sportivi valgono anche, naturalmente, cause fisiche: le fibre muscolari dei giamaicani li rendono più adatti alle corse brevi e quelle degli etiopi al fondo e mezzofondo, come la bassa statura degli eschimesi forse li rende poco adatti al tennis o al basket; ma sembra difficile applicare agli scrittori queste peculiarità anatomiche e biologiche: uno studio sul rapporto tra creatività e maternità sarebbe auspicabile ma porterebbe a discorsi enormi.

[5] Nell’ansia di correggere le manchevolezze della Storia si rischia di dimenticare il concetto di epigonismo; recentemente sui giornali italiani si è lodato Il canto di Calliope di Natalie Haynes (in inglese A Thousand Ships, 2019) perché finalmente racconta l’epica classica dal punto di vista delle donne. Il romanzo non ha nemmeno un briciolo della luce, della meraviglia e della brutalità degli originali antichi, è solo un diligente compitino che si incolla alle invenzioni di Omero, Virgilio, Euripide, Ovidio; non credo sia utile confondere la “riparazione” (cfr Capitolo primo) col parassitismo. Diverso il caso, naturalmente, quando i modelli classici vengono rivissuti e funzionano come ispiratori di altra originale bellezza: vedi Omeros di Derek Walcott, o Le mosche di Sartre, o Cassandra di Christa Wolf.

(continua in libreria…)

Libri consigliati