Su ilLibraio.it la riflessione di Matteo Grandi, in libreria con il saggio “La verità non ci piace abbastanza. Il virus della disinformazione fra bufale, web e giornali”. Secondo l’autore, “difendersi realmente dalla disinformazione non potrà mai essere un’azione davvero collettiva, ma dovrà essere necessariamente un esercizio individuale”

Media, internet, politica. Oggi la disinformazione può nascondersi ovunque. E probabilmente se l’ambiente che viviamo è così inquinato le responsabilità sono molteplici e non esiste un unico colpevole. Neppure internet, che pur essendo lo strumento che meglio si presta a veicolare la disinformazione e quello sul quale è più facile (ed auto-assolutorio) scaricare le colpe, non è l’unico responsabile dell’uso distorto che ne viene fatto.

D’altronde esiste anche un’altra faccia della medaglia: l’importanza della rete nel veicolare denunce, smascherare falsità, permettere di risalire direttamente alle fonti; senza contare l’enorme potenziale del web al di fuori degli aspetti strettamente legati all’informazione. E proprio per questi motivi internet continua a essere fondamentale nel contrasto alla disinformazione, la quale non è nata con la rete ma dalla rete è stata disvelata.

Il web ha reso soltanto più visibile qualcosa che già c’era.

Paradossalmente, prima dell’avvento dei social non solo avevamo meno consapevolezza del problema, ma anche meno strumenti per poterlo contrastare. È pertanto bene non farci suggestionare dall’effetto prospettico che come nei più classici trompe-l’oeil rischia di trarre in inganno la nostra percezione facendoci credere che la colpa sia di internet.

La verità è che con la rete abbiamo semplicemente accesso a molte più informazioni, ivi comprese bufale e disinformazione. E al tempo stesso, grazie al web, abbiamo un maggior numero di strumenti per avvicinarci a un’informazione più affidabile. E questo probabilmente può aiutarci a superare anche i nostri stessi pregiudizi. Ed è pure il punto che ci fa approdare a un ultimo e decisivo concetto.

Il sistema mediatico non ci tutela dalla disinformazione. È giusto immaginare una nuova forma di educazione digitale che sia in grado di offrire gli strumenti per orientarsi meglio in rete, per dubitare, per non cadere in trappola, per sapere come e cosa cercare quando si hanno dei dubbi sulle informazioni che ci vengono date. Ma altro non è possibile ottenere. Non certo una legge contro le fake news, che oltre a essere un pericoloso strumento di controllo nelle mani dello Stato, rischierebbe di stabilire un confine fra il vero e il falso andando nei fatti a ricostituire i tribunali della verità. E l’informazione è una materia troppo viva per essere divisa con un taglio netto, magari con una sentenza, tra vero e falso. Esiste anche l’incertezza, esistono le zone grigie, esiste un concetto meno filosofico e meno assoluto della verità ma sicuramente più rispondente a quelle che dovrebbero essere le nostre aspettative nei confronti di chi fa informazione: la veridicità.

E sgombriamo subito il campo da un’illusione: da questa deriva non ci tutela neanche l’informazione tradizionale, sempre più proiettata verso forme di sensazionalismo e titoli clickbait che deformano spesso la verità sostanziale dei fatti, e che si stanno trasformando in una strategia mirata esclusivamente a “catturare” lettori e visite al sito, ma che nei fatti contribuiscono alla disinformazione generale.

Il titolo clickbait è infatti un titolo esca, spesso fuorviante rispetto alla sostanza dell’articolo ma più che sufficiente ad alimentare il cortocircuito della disinformazione: basti pensare a quante persone si soffermano esclusivamente alla lettura dei titoli. Immaginate il danno se quei titoli non sono rispondenti al vero e si configurano come delle semplici esche. Ma c’è di più: il clickbait è una scorrettezza che, se da una parte contribuisce a disinformare, dall’altra tradisce il patto con il lettore, attirandolo in trappola con titolazioni che si rivelano poi molto distanti da quanto descritto all’interno del pezzo. E se il giornalismo perde di vista la sua funzione, che è quella di informare, in favore di una caccia senza regole alle visite al sito, l’informazione subisce un altro colpo da ko, e utenti e cittadini perdono quello che dovrebbe essere il primo presidio contro la disinformazione.

Per questo motivo difendersi da questa deriva non può che essere un’azione individuale, una battaglia che dobbiamo affrontare da soli e per noi stessi. Magari acquisendo maggiore consapevolezza nell’uso virtuoso della rete come alleata in questa battaglia. Ovviamente questo non cancella il nostro diritto di pretendere affidabilità e credibilità da chi fa informazione, magari dei progetti mirati di educazione e interventi su algoritmi e bolle di filtraggio che rendano più trasparente il nostro rapporto con le notizie.

Ma è utopistico pensare che le bufale possano sparire d’incanto solo perché c’è stata una presa di coscienza collettiva, o che con un’improvvisa presa di coscienza collettiva l’info-sfera si farà d’un tratto un luogo incantato di buona informazione.

Difendersi realmente dalla disinformazione non potrà mai essere un’azione davvero collettiva, ma dovrà essere necessariamente un esercizio individuale. Su base collettiva ci può essere una presa di coscienza propedeutica a innescare una maggiore attenzione e azioni più concrete in difesa della buona informazione, ma se il nostro obiettivo è migliorare il nostro habitat informativo e contrastare quotidianamente la disinformazione questo non può che essere un impegno individuale.

Attraverso conoscenza e consapevolezza, grazie alle verifiche, cercando di attingere al maggior numero di fonti, rivedendo i nostri pregiudizi, allargando i canali di informazione a cui siamo abituati. Non si tratta di uno sforzo da poco anche perché implica un ribaltamento assoluto del nostro approccio di fruitori passivi dell’informazione. Un approccio che oggi non basta più, e che deve farsi nuovo paradigma. Se vogliamo essere davvero informati dobbiamo diventare fruitori attivi: cercando, dubitando, verificando.

L’AUTORE E IL LIBRO – Matteo Grandi, giornalista professionista e autore televisivo (Il Labirinto, Carpool Karaoke, X-Factor, Sanremo Giovani), è molto attivo sui social network e scrive di web e tecnologia per diverse testate. Autore di testi musicali, ha collaborato con ­Fedez, Rovazzi, Francesco Renga, Danti e numerosi altri. Collabora con l’Università degli Studi di Perugia curando un laboratorio su social media e scrittura digitale. È ­coorganizzatore della Festa della Rete e dei Macchianera Internet Awards.

Ora arriva in libreria con La verità non ci piace abbastanza. Il virus della disinformazione fra bufale, web e giornali (Longanesi), libro che si basa sulla consapevolezza del fatto che la disinformazione sia un mostro tentacolare, che si allarga a macchia d’olio e che può contare su una rete di fiancheggiatori, più o meno consapevoli, molto nutrita.

Dalla politica che ha scelto le fake news come nuova forma di propaganda, al giornalismo tradizionale che, travolto dalle nuove tecnologie e dalla competizione con le dinamiche del web, sta rincorrendo sensazionalismo e clic spesso a scapito della veridicità e della qualità delle notizie, fino all’enorme potere di mediazione delle piattaforme, sono infatti nuovi gli arbitri (interessati) della verità.

Matteo Grandi

Matteo Grandi

E mentre la notizia si trasforma in prodotto e come tale viene trattata, noi utenti online, già disorientati e spesso condizionati dalle fake news tradizionali, siamo portati ulteriormente fuori strada da profilazione e algoritmi che hanno la pretesa di selezionare per noi le fonti e le informazioni. Un quadro estremamente instabile in cui la pandemia e l’infodemia che ne è scaturita hanno contribuito a creare la tempesta perfetta. Eppure anche noi utenti abbiamo le nostre responsabilità. Spesso troppo pigri per approfondire, a volte troppo pieni di pregiudizi per mettere in discussione le cose che leggiamo, ci stiamo assuefacendo a una forma di informazione che proprio grazie alla rete potremmo invece testare e verificare. Se solo la verità ci stesse abbastanza a cuore.

Abbiamo parlato di...