“‘L’incendio’ è un libro di storie di persone che hanno una cosa in comune, e cioè rischiano ‘dal basso’ cercando di cambiare qualcosa”, racconta a ilLibraio.it Cecilia Sala, giornalista che si occupa principalmente di esteri e che nel suo ultimo libro ha raccolto le storie delle persone incontrate nei suoi reportage dall’Iran, dall’Afghanistan e dall’Ucraina. “Dopo aver visto le immagini della caduta di Kabul del 15 agosto del 2021, di un’invasione con i carri armati alle porte dell’Europa e di una protesta senza precedenti in Iran, chi credeva stessimo andando ogni giorno più vicini a un mondo un pochino più pacifico ha visto quell’illusione infrangersi”. Sala, che si occupa di giornalismo su più mezzi, tra cui social e podcast (“credo che l’audio riesca a dare un’intimità che né un servizio video per la televisione né un articolo di giornale possono a offrire”), racconta cosa significa oggi coprire gli esteri e soprattutto contesti di crisi e di guerra, e l’importanza del trovare l’approccio giusto per farlo: “Una storia potente ha un pubblico potenzialmente sconfinato, non incuriosisce soltanto a chi si interessa di geopolitica…”

Cecilia Sala, nata a Roma nel 1995, è una giornalista che si occupa principalmente di esteri: le sue analisi si possono leggere sul quotidiano Il Foglio e la sua voce ogni giorno scardina un tema dell’attualità nel podcast Stories, prodotto da Chora Media. I reportage di Sala sono apparsi anche su altre testate, e sui suoi canali Instagram e Twitter la si può seguire nei viaggi che indagano i contesti di crisi durante il loro svolgimento.

Nel libro L’incendio. Reportage su una generazione tra Iran, Ucraina e Afghanistan (Mondadori, e che arriva dopo Polvere – Il caso Marta Russo, scritto con Chiara Lalli), Sala ha condensato le storie raccolte durante i suoi reportage sul campo, e in particolare quelli che hanno affrontato eventi cruciali della storia internazionale degli ultimi anni: il ritorno del regime talebano in Afghanistan, le proteste in Iran seguite alla morte di Mahsa Amini, e gli sviluppi della guerra in Ucraina.

“Il titolo tiene insieme tre incendi, intesi come rivoluzioni, ribellioni e resistenze (sia riuscite sia fallite) che, per ragioni diverse, sono i grandi protagonisti dell’attualità di oggi. Ma questa parola per me si riferisce anche a ciò che questi eventi hanno significato: ci eravamo illusi di essere sul percorso di un mondo sempre meno pericoloso e caotico, ma ora ci è nuovamente chiaro come le cose brutte continuino ad accadere, e in un modo o nell’altro finiscano per coinvolgere anche noi”, spiega Sala, raggiunta telefonicamente da il Libraio.it.

copertina de l'incendio libro di cecilia sala

Come mai ha scelto di soffermarsi proprio su questi tre paesi?
L’incendio è un libro di storie di persone che hanno una cosa in comune, e cioè rischiano ‘dal basso’ cercando di cambiare qualcosa. C’è chi ci riesce, come gli ucraini che nel 2014 curvano il destino del proprio Paese, e che otto anni dopo si trovano a dover affrontare la punizione inflitta da Putin per quel successo. Ci sono poi i giovani iraniani, una generazione con cui la Repubblica Islamica, per ammissione delle stesse autorità, non riesce più a comunicare, poiché molto emancipata; quando si parla di Medio Oriente, infatti, bisogna considerare che i venti – trentenni rappresentano all’incirca due terzi della popolazione, quindi è difficile non tener conto delle loro istanze, sono generazioni che hanno un peso molto diverso fuori dall’Europa”.

Sono infatti le generazioni a cui appartengono molte delle persone che ha intervistato.
“È con i loro occhi che presento la situazione, cioè una guerra, una crisi, un Paese; non per una scelta arbitraria, ma perché sono i protagonisti, per ragioni diverse e in modi diversi, di queste storie. Sono tutti accomunati dalla grinta (in fondo le rivoluzioni e le proteste hai il coraggio di affrontarle a vent’anni) e dal non sentirsi a proprio agio con i regimi a cui si ribellano”.

Come si raccontano luoghi in cui passata la notizia più eclatante, si rischia venga perso l’interesse dei lettori?
“Questo è un po’ il problema di chi si occupa di esteri, ed è anche un circolo vizioso, perché leggendo le notizie provenienti da certe parti del mondo solo due volte l’anno poi è difficile capirle. In più, chi si occupa di paesi come Iran e Afghanistan, ma anche di Ucraina, a differenza di chi si occupa di Stati Uniti o di Francia deve dare per scontate meno informazioni, perché si conosce meno la loro cultura e la loro storia. A chi racconta serve più spazio per dare elementi di contesto e un po’ di bravura per non renderlo un saggio respingente, e serve anche un po’ più di concentrazione da parte del lettore per rimettere insieme i pezzi. Una bella svolta sarebbe perdere meno attenzione su questi territori tra un grande evento e un altro, anche perché non solo sono collegati, ma finiscono per avere conseguenze anche da noi”.

C’è anche una categoria di lettori che di fronte a flussi di notizie particolarmente disturbanti, come quelli che provengono dai paesi in guerra, sceglie di evitare di informarsi su quel tema.
“Se da un lato non scuserei chi si allontana, perché informarsi su quello che succede è importante, dall’altro in questo fenomeno c’è anche la responsabilità di chi le notizie le fornisce in un certo modo. Il sensazionalismo delle breaking news, sconnesse le une dalle altre, in cui si dà spazio senza contesto solo alle dichiarazioni più assurde e più allarmiste, più che a informare punta a mettere ansia, ed è normale che, a un certo punto, allontani e spaventi le persone”.

Ci sono differenze tra come si affrontava la cronaca estera sul campo dieci, vent’anni fa, e come la si affronta oggi?
“La differenza più evidente è dovuta alla tecnologia: si parla di nebbia della guerra, ma in realtà la guerra in Ucraina è squadernata di fronte ai nostri occhi in un modo senza precedenti grazie alle immagini satellitari, agli OSINT (Open Source Intelligence), ai video dei droni… avere consuetudine con questi strumenti è fondamentale per mettere insieme un racconto il più preciso possibile. La confusione, semmai, può provenire dalle troppe informazioni e dalla facilità nel promuoverne di false. La tecnologia, però, permette ai giornalisti di avere un quadro più completo e corretto, e rende più indipendenti dalla propaganda delle fazioni coinvolte”.

La multimedialità dell’informazione sembra anche aver contribuito a un rinnovato interesse verso gli esteri, soprattutto nelle generazioni più giovani.
“Credo che gli avvenimenti che racconto siano stati protagonisti di questo rinnovato interesse. Dopo aver visto le immagini della caduta di Kabul del 15 agosto del 2021, di un’invasione con i carri armati alle porte dell’Europa e di una protesta senza precedenti in Iran, chi credeva stessimo andando ogni giorno più vicini a un mondo un pochino più pacifico ha visto quell’illusione infrangersi. Gli esteri, quindi, non possono più essere relegati a pagine di interesse per una ristretta cerchia di persone. Va anche detto che le generazioni più giovani hanno a che fare quotidianamente con il resto del mondo, vivono questa separazione in modo meno netto e guardano ai problemi con una prospettiva più globale di quanto non facessero le generazioni precedenti”.

Come giornalista anche lei si divide tra diversi strumenti di comunicazione. Lo sente come un passaggio naturale?
“Credo che alla mia generazione venga più agile, e che oggi la multimedialità sia imprescindibile. Ogni mezzo ha le sue peculiarità: io lavoro soprattutto con audio e scrittura, e credo che l’audio riesca a dare un’intimità che né un servizio video per la televisione né un articolo di giornale possono offrire. Questo vale anche con chi intervisti sul campo: un iPhone appoggiato su un tavolo è un oggetto che non intimorisce, anche nelle circostanze più complesse. Per esempio in Ucraina ho intervistato persone che vivevano in un bunker senza riscaldamento a sei gradi sotto zero, e che da più di un mese non potevano uscire; se fossi entrata con un operatore, una telecamera, e gli avessi puntato addosso delle luci non sarei riuscita a ottenere quello che ho ottenuto con questo strumento”.

Le storie personali nel libro emergono come punti chiave nell’affrontare la complessità degli eventi recenti.   
“Certo, perché una storia potente ha un pubblico potenzialmente sconfinato, non incuriosisce soltanto a chi si interessa di geopolitica o di esteri. Una storia, inoltre, aiuta a creare quell’intimità di cui parlavamo prima: immedesimarsi con un altro essere umano è naturale, mentre partendo dalla teoria questa immedesimazione è difficile, se non impossibile. Le storie particolari, così, si fanno portatrici di messaggi universali”.

Per esempio? 
“Penso alla storia di Vladimir, che racconto nel libro: se avessi semplicemente scritto ‘quella di Putin è propaganda, perché questa non è veramente un’operazione di denazificazione’, non sarebbe stato così forte come raccontare di un novantenne russo che, come tanti suoi connazionali, vive in Ucraina, che durante la Seconda Guerra Mondiale ha falsificato i documenti pur di unirsi all’armata rossa per combattere i veri nazisti, e che ora che non riesce più scendere le scale per ripararsi in un bunker si trova a convivere con i bombardamenti di quella che Putin chiama un’operazione di denazificazione. Una volta ascoltata la sua storia non c’è nulla da aggiungere, il paradosso è evidente a chiunque”.

Sa già quali saranno i suoi prossimi viaggi?
“Spero di tornare prestissimo nei posti che racconto ne L’incendio, sono i luoghi in cui ho lasciato il cuore e quelli in cui vorrei tornare prima. Ovviamente in Ucraina è più semplice, altrove si dipende da dei visti che non sempre ti vengono forniti. Ma farò anche altre trasferte, in particolare in Africa”.

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Fotografia header: Cecilia Sala, foto di Daniele Ciraiolo

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