Tra saggio, pamphlet, memoir e manifesto: in “Non è un pranzo di gala – Indagine sulla letteratura working class” Alberto Prunetti si concentra su quelle opere (a cui spesso non viene dato il dovuto spazio) che raccontano il mondo del lavoro dall’interno. Sui romanzi e i racconti di scrittrici e scrittori di estrazione proletaria, o firmati dai membri della nuova classe lavoratrice precaria, dai lavoratori della ristorazione, della logistica, dei servizi…

Alberto Prunetti, classe ’73, autore dei romanzi Amianto. Una storia operaia (Alegre), 108 metri e Nel girone dei bestemmiatori (entrambi Laterza), traduttore e redattore (di Jacobin Italia), curatore per edizioni Alegre della collana Working class, ha vissuto in Inghilterra lavorando come cleaner, pizza chef e kitchen assistant. Forte del suo percorso, pubblica ora con minimum fax Non è un pranzo di gala – Indagine sulla letteratura working class.

Il testo, tra saggio, pamphlet, memoir e manifesto, si concentra su quella letteratura (a cui spesso non viene dato il dovuto spazio) che racconta il mondo del lavoro dall’interno, sulle opere di scrittrici e scrittori di estrazione proletaria, o firmate dai membri della nuova classe lavoratrice precaria, dai lavoratori della ristorazione, della logistica, dei servizi. Una letteratura che può avere forme e strutture diverse da quelle proposte nelle scuole di creative writing; altre lingue, altri sviluppi, persino altri scopi.

indagine sulla letteratura working class

Come sottolinea l’autore, che cita diverse opere di ieri e di oggi (non solo letterarie), “quando si parla di narrazioni working class, non si può fare a meno di confrontarsi con la scena britannica. È qui che la working class si è formata con la rivoluzione industriale, è da qui che arrivano i contributi più significativi all’immaginario popolare. La working class inglese ha contribuito a dare forma al costume, alla musica, alle tendenze, alle mode, al calcio. E anche nel campo della scrittura ha saputo plasmare un immaginario”.

Nel volume, scritto in prima persona, Prunetti prova a definire i tratti della cosiddetta letteratura working class, e ne ripercorre l’evoluzione in Italia e in altri paesi europei, rendendo evidente il legame tra le storie che siamo disposti a leggere e ascoltare, le forme e gli stili che riteniamo accettabili e tramandiamo, e le condizioni materiali dell’industria che a queste storie gira intorno.

Non mancano i passaggi polemici. Ad esempio, per l’autore, “(…) il punto nevralgico della questione è questo: poche persone di estrazione sociale working class lavorano nell’editoria. Che vi piaccia o no, se gli editor non si riconoscono nelle storie che raccontiamo – se sono andati al ristorante solo come clienti e mai come camerieri, se i loro genitori non rischiavano di portarsi via una mano al lavoro, se in famiglia da piccoli non parlavano di scioperi e disoccupazione – poi sarà difficile che accettino di pubblicarle. Per questo le nostre storie vengono respinte. Per questo Shuggie Bain di Douglas Stuart ha avuto quarantaquattro rifiuti… (…). Per questo gli autori e le autrici working class, anche affermati, devono sempre ripartire da zero quando presentano un nuovo manoscritto. Perché ci si aspetta che si mettano alle spalle il loro background, che entrino nel club degli autori che non parlano di sudore e sciopero, ma di spaesamento, crisi personale, cosmopolitismo, nostalgia, viaggi, amore, giardinaggio e di tutto quello che possa solleticare e rendere appetibile la loro storia al lettore medio (nel senso di classe media). Se non lo fanno, che se ne tornino da dove vengono”.

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Nell’ultima parte del libro, spazio per un “Piccolo manifesto personale di scrittura working class“, in cui spiccano punti come: “niente approcci vittimari“, “preferiamo i punti di vista obliqui“, “una lingua antiretorica“, “raccontare il disastro industriale e ambientale” e “infine: costruire un nuovo immaginario“.

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