A trent’anni dalla tragica morte di Kurt Cobain, che fine ha fatto la musica alternativa? Dal tramonto dei sogni della generazione X all’avvento di Spotify, che cosa è andato storto? Se lo chiede Hamilton Santià nel saggio “Sotto traccia – Una storia indie contemporanea” – Su ilLibraio.it un estratto

A trent’anni dalla tragica morte di Kurt Cobain (suicida il 5 aprile 1994), che fine ha fatto la musica alternativa?

Se lo chiede Hamilton Santià, e la risposta è un libro, Sotto traccia – Una storia indie contemporanea, corposo saggio in libreria per effequ.

L’autore, classe ’86, nato a Torino, ha un dottorato in Storia del Cinema e lavora nell’editoria. Ha scritto di musica per anni su il Mucchio Selvaggio e oggi conduce The Weekly Report su Radio Popolare e collabora con diverse testate, oltre a essere chitarrista della band indie rock The Wends.

E veniamo al suo libro, che parte dalla seguente tesi: quando Cobain si spara un colpo in testa, diventa mediaticamente l’agnello sacrificale e cambia per sempre il corso della Storia. Con l’avvento di internet prima e dei social poi, attraversando il G8 di Genova e l’11 Settembre, si produce una colonna sonora in cui l’underground diventa genere, stile e cultura. In una parola: indie.

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Come argomenta – esempi alla mano – Santià, il pensiero sotto traccia cerca una sua strada per diventare discorso comune, creare un nuovo immaginario collettivo senza perdere la sua missione originaria, quella di essere controcultura.

Tuttavia, qualcosa è andato storto: le idee che la musica indie trasportava non hanno avuto l’esito sperato. Dal tramonto dei sogni della generazione X all’avvento di Spotify che cambia per sempre l’approccio all’ascolto, il libro si concentra sul ‘ventennio breve’ 1994-2012, e lo fa attraverso la musica: il racconto di una sconfitta o le basi di una futura rinascita?

sotto traccia una storia indie contemporanea

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto

Verso la fine dell’estate del 1992 una band di cinque ragazzi magri, tendenzialmente sociopatici, con le chitarre elettriche e uno stile in via di definizione, entra in studio per registrare il primo disco. L’EP d’esordio, uscito a maggio dello stesso anno, ha fatto parecchio rumore. La stampa e le etichette discografiche hanno già drizzato le antenne. Grazie al successo dei Nirvana, anche le major sono tornate a guardare con interesse le band inglesi con le chitarre elettriche. Quell’EP è uscito per la Parlophone[1], una sottoetichetta della EMI, che in Inghilterra è un’istituzione al pari della BBC, Bobby Charlton e la Regina Elisabetta. Durante le prime registrazioni, però, qualcosa non funziona. È come se mancasse non tanto una giusta alchimia, quanto la capacità di estrarre da quelle canzoni il giusto spirito, far sì che quei lamenti nichilisti che avevano acceso un certo interesse trovassero una direzione per esprimersi al pieno delle proprie potenzialità. Stare in uno studio di registrazione, poi, non è certo una cosa facile e i ragazzi iniziano a dare di matto e litigare tra di loro. Bisogna fare qualcosa perché i soldi in ballo sono parecchi e si vede che quei tizi di Oxford sono ragazzi pieni di idee che si muovono confuse nella struttura di una canzone da tre minuti. Curioso che per risolvere la situazione la mossa – in musica come in numerosi altri ambiti – sia sempre la solita: chiamare gli americani. L’equazione in questo caso però è semplice: questi tizi fanno una musica rock ispirata un po’ ai Pixies e un po’ ai Nirvana, e il mondo sta andando sottosopra per via di quel terremoto con epicentro Seattle. Inoltre, le produzioni americane indipendenti costano meno di quelle britanniche, che forse ancora credono di avere a che fare con David Bowie, i Pink Floyd e Phil Collins o sono alla continua ricerca di una qualche band capace di replicare gli U2. Come in uno di quegli aneddoti che ti racconterebbe chi c’era e ha visto tutto, proprio in quei giorni del 1992 due produttori americani si stavano aggirando per l’Inghilterra in cerca di lavoro. I due hanno già lavorato con numerose band statunitensi che stanno facendo strada, in particolare Pixies e Dinosaur Jr., che si distinguono anche o forse soprattutto per un uso interessante delle chitarre[2]: mostrano, insomma, di saper trattare la materia. Vuoi per l’uso sapiente delle distorsioni, vuoi per un lavoro sulle dinamiche molto più raffinato rispetto alla strategia – funzionale ma forse a distanza di trent’anni si può dire un pochetto dozzinale – di Butch Vig, produttore di Nevermind (che sembrava utilizzare un metodo po’ ‘apri tutto!’). Pertanto, non si sa se invogliati dal successo dei Nirvana che aveva probabilmente alzato il valore di mercato dei produttori americani o dal fatto che a un certo punto dall’Inghilterra bisogna passare (perché se da un lato chi è inglese vuole fare successo negli Stati Uniti, dall’altro chi viene dall’America vuole essere preso sul serio in Inghilterra), Paul Q. Kolderie e Sean Slade vengono ingaggiati dalla Parlophone per mettersi a lavorare con quei ragazzi problematici – e, sosterranno i due in seguito, tremendamente inesperti, che volevano fare tutto da sé senza sapere in alcun modo dove mettere le mani – per guidarli e rendere le loro canzoni qualcosa di vendibile.

Tuttavia, anche con gli americani, i ragazzi di Oxford non sembrano andare da nessuna parte. Le canzoni sono davvero scariche, non hanno niente della potenza e della tensione dell’EP d’esordio e al di là di un paio di pezzi embrionali che non sono male, eppure manca davvero qualcosa che li renda speciali.

Allora, a sentirsi raccontare la storia della musica rock si finisce col dirsi che non può essere costantemente un catalogo di eventi nati per caso, eppure forse non solo la musica rock, ma la musica tutta e la Storia tutta, se letta in un certo modo, funziona proprio così. Accade dunque che, frustrati dal nulla travestito da niente che stava succedendo in quel piccolo studio sperso nell’Oxfordshire, Thom Yorke, Johnny Greenwood, Colin Greenwood, Ed O’Brien e Phil Selway si mettano a suonare una canzone di tre accordi che considerano uno scarto: vabbe’, sentite pure questa. Ma sì, devono essersi detti Kolderie e Slade, sentiamo pure questa.

Durante la fine della strofa, appena prima dell’attacco del ritornello il chitarrista, Johnny Greenwood, un tizio magro e alto come una stampella, di cui non si conosce il volto perché sta ripiegato su sé stesso senza guardare nessuno, percuote la sua chitarra in un accordo semplice, ma distorto e tellurico, generando un effetto che ricorda un plotone d’esecuzione quando carica il fucile. È davvero poco probabile che non vi ricordiate quello che segue, ovvero il ritornello di Creep. Alla fine della prova, tutte le persone presenti in studio scoppiano in un applauso: non hanno trovato solo il primo singolo del disco, hanno trovato la canzone che forse avrebbe dato un senso a quell’investimento e, soprattutto, hanno trovato i Radiohead.

In una delle prima biografie dedicate alla band di Oxford, scritta da Mac Randall, nel 2000, e quindi poco prima che Thom Yorke, Johnny Greenwood e soci decidessero di cambiare la storia della musica per la seconda volta negli anni Novanta, si racconta proprio di come ci fosse bisogno della mano degli americani per portare quel particolare spirito del tempo dentro la musica inglese[3].

Sempre nel 1992, poche miglia più a sud, più precisamente a Londra, negli studi Master Rock di Kilburn, un’altra band sta cercando di fare proprie le pulsioni e le forze distruttive che arrivano dagli Stati Uniti per farle dialogare con l’istinto musicale britannico. Ma qui la faccenda si complica sensibilmente. Perché se da un lato i Radiohead negano qualsiasi elemento di tensione sessuale per riportarla tutta dentro una dimensione interiore, introversa e anche un pochino autolesionista, dall’altro questa band che fin dal nome scelto, Suede – ‘pelle scamosciata’, con apertissimo richiamo alle Blue Suede Shoes di quel concentrato sessuale che era Elvis – fa della tensione erotica, della promiscuità e del racconto degli anfratti più limacciosi della vita londinese sospesa nella tensione tra il grigiore del brutalismo architettonico delle case popolari e l’esplosione di colori acidi dei vestiti di chi cercava una via di espressione personale in un paese ancora vessato dagli effetti delle politiche repressive degli anni Ottanta la propria missione. L’artwork e lo stile della band richiama un mondo in cui la moda, la ricercatezza e la provocazione diventano un paradigma con cui la working class cerca di emanciparsi dal triste destino di un operaismo distrutto dai colpi di manganello della polizia[4], dalla dissoluzione dei patti sindacali, dalla fine del ‘vecchio’ partito laburista e dall’evoluzione del contesto economico che diventa sempre più immateriale, finanziario e prono all’individualismo e all’ambizione personale.

La musica inoltre è a suo modo rivoluzionaria: certo, è rock ’n’ roll, ma con un cantato in cui il ‘divo-in-essere’ Brett Anderson riesce a mettere insieme David Bowie, Brian Ferry e Marc Bolan inventando qualcosa di completamente diverso, mentre la chitarra di Bernard Butler prende tanto da Johnny Marr degli Smiths quanto dalle potenti bordate che arrivano da Seattle.

Il 22 febbraio del 1993 esce Animal Nitrate. I Radiohead hanno pubblicato Creep da qualche mese e le influenze che arrivano dagli Stati Uniti stano emergendo dalle canzoni che passano sulla BBC, su Top of the Pops e finiscono nelle classifiche di gradimento del NME. In questo contesto Bernard Butler prende il riff di Smells Like Teen Spirit e decide di giocarci per scrivere qualcosa di nuovo: ne rovescia gli accordi, fa in modo che la compressione nervosa che diventa esplosione termonucleare si liberi del nichilismo per abbracciare una diversa tensione. Non è solo una questione di stile, o meglio lo è nel momento in cui intendiamo per ‘stile’ qualcosa in cui non rientra solo la questione tecnica, ma anche la questione culturale, di contesto, storica. Il modo in cui due chitarristi suonano la stessa cosa può produrre risultati estremamente diversi, proprio perché non esiste mai la possibilità di far vibrare l’aria due volte nello stesso modo. E la rabbia dietro a quel riff americano è diversa da quella che si traduce nel lavoro certosino del chitarrista inglese che aggiunge alla gabbia di quei quattro accordi arpeggi e assoli[5].

Perché un conto sono le influenze, ed è indubbio che quello che adesso, a distanza di trent’anni, chiamiamo Brit Pop sia nato grazie alla rivoluzione indie degli Stati Uniti, ma è altrettanto vero che con quel materiale devi davvero sapere cosa farci. Che siano due produttori americani che passavano di lì perché non si è mai profeti in patria[6], che sia la grandissima influenza di un giro di chitarra capace di aprire un mondo, nella musica pop l’influenza non genera angoscia, ma estasi, per dirla con lo scrittore nonché grande appassionato di musica Jonathan Lethem che, in un suo saggio del 2011 chiamato proprio L’estasi dell’influenza, racconta come quel che ci ispira, oltre ad aprire vere e proprie finestre sul mondo, sia in grado di ‘perturbare’ e distorcere l’elemento che si sta affrontando, arrivando a costruire l’esperienza invece vista come naturale[7]. In questo l’antidoto è appunto vedere l’influenza come qualcosa di positivo, generativo e in grado di far progredire il discorso stilistico proprio perché capace di mutare gli oggetti non solo in modo diretto, ma sporcandoli con tutti gli elementi contestuali a contorno. Forse la musica pop, con buona pace di Adorno, è l’opera aperta per definizione[8]. E scrivo questo perché il Brit Pop farà delle influenze – non solo musicali – un vero e proprio punto d’onore (a partire dal recupero delle icone della gloriosa Inghilterra swinging degli anni Sessanta) diventando la colonna sonora di un cambiamento epocale che c’entra con questo libro molto più di quanto si possa pensare.

Animal Nitrate è un momento di rottura iconografico anche in ragione del video che l’accompagna[9], un perfetto esempio del momento di transizione che l’Inghilterra stava preparandosi a vivere e soprattutto non si poneva come narrazione contro qualcosa, ma come parte di un grande cambiamento ormai accettato come se fosse la decisa matrice del futuro. Nel video si aprono le porte di un ascensore su un tipico scenario londinese. Il cielo è grigio, così come è grigia anche l’architettura dei tipici edifici popolari (il loro social housing) che fino a un certo punto dovevano garantire una sorta di equità sociale, permettendo anche a chi non veniva da famiglie benestanti di vivere a Londra ‘per davvero’[10]. Il corridoio aperto su un giardino spoglio è sporco e vi ristagna tantissima umidità, a giudicare dal numero di pozzanghere che bisogna evitare. Dall’ascensore esce Brett Anderson, vestito di nero, con un chiodo di pelle troppo corto e decisamente troppo attillato aperto sul petto nudo. Il taglio di capelli è asimmetrico, a un primo sguardo non è chiaro se si tratti di un uomo o di una donna. Il primo giro del riff finisce e, quando attaccano anche basso e batteria, la macchina da presa si lancia in panoramiche a schiaffo e piani sequenza velocizzati che finiscono in un appartamento completamente rivestito di tende rosse: una Red room alla Twin Peaks (celebre serie tv ideata e diretta da David Lynch uscita solo pochi anni prima) in cui suonano gli Suede sgargianti, glamour, bellissimi ma al tempo stesso sottilmente disturbanti. Bernard Butler ha una camicia viola sbottonata e suona come se ne andasse della propria vita, il batterista Simon Gilbert sembra uscito dai Sex Pistols, con i capelli rossi sparati alla John Lydon e il bassista Mat Osman indossa una camicia paisley e si ripara dietro il ciuffo. Brett Anderson guarda in camera e irride lo spettatore. Ci sta credendo e al tempo stesso non ci sta credendo, rockstar postmoderna che si autorealizza prima ancora di esserlo perché è tutto nell’attitudine, nello stile e nel carisma. Ma c’è anche qualcos’altro che non quadra. La luce è intermittente, e ci sono altre persone. Un uomo con la testa di maiale e una vecchia ballerina in bikini. Brett Anderson bacia l’uomo con la testa di maiale e simula scene di sesso tutto il tempo. Mostra il suo corpo a favore di macchina da presa e lo fa non tanto per farsi guardare, ma per attivare il desiderio a partire da una sua decisione. Proprio come chi ha appreso la lezione di Bowie prima e di Morrissey poi. Anche l’anziana ballerina si mostra allo sguardo di Brett, i due si desiderano creando un triangolo erotico che mette insieme quella categoria che Mark Fisher avrebbe poi etichettato come weird[11].

Il riferimento a Lynch e a Fisher qui non dovrebbe sorprendere. L’elemento di rottura, infatti, non è tanto nella straordinarietà della storia raccontata, quanto nel suo esatto opposto: sta succedendo in un appartamento delle case popolari, la Red room è la porta accanto, gli strani esseri sono tuoi vicini di casa. David Lynch ha passato buona parte della sua ricerca stilistica a raccontare gli elementi distonici nella narrazione del sogno americano e in questo video si avvertono, oltre a Twin Peaks, echi di Velluto blu (1986), entrambi incentrati sul rapporto tra le pulsioni, i desideri, il sesso e la violenza che sconvolge la vita di un tranquillo sobborgo come ce sono miliardi.

NOTE:

[1] Anche nel dibattito inglese la parola ‘indie’ prima di essere un indicatore alla moda voleva dire un modo di produrre e fruire la musica fuori dai soliti circuiti, con una tradizione di etichette, gruppi, persone di riferimento molto riconoscibili e capaci di creare movimenti di tensione culturale in luoghi periferici come potevano essere Manchester, Glasgow, Edimburgo. L’indie inglese ha quasi sempre trovato il modo di farsi apprezzare dalla discografia ufficiale grazie a contratti di distribuzione e accordi di vario genere. Tuttavia non esisteva un grande dibattito attorno alla parola ‘indie’ in sé, forse perché l’Inghilterra nonostante tutto si è sempre concentrata sulla musica. E tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, la storia della musica indie inglese è stata raccontata da etichette che coraggiosamente rompevano barriere tra i generi, permettevano di sperimentare, o anche pubblicavano musica di nicchia con uno spirito nostalgico ma sintonizzato nel contemporaneo. I nomi più importanti di questa storia sono Geoff Travis, vale a dire il ‘signor Rough Trade’ (che tra le altre cose ha pubblicato gli Smiths), Tony Wilson, geniale creatore della Factory, etichetta il cui nome è legato ai Joy Division e ai New Order, e Alan McGee, il fondatore della Creation Records, etichetta dei Primal Scream, dei Teenage Fanclub, dei Ride, degli Swervedriver, dei My Bloody Valentine, ma soprattutto degli Oasis. Altre etichette fondamentali per parlare di indie nel Regno Unito sono la Sarah Records e la Postcard.

[2] Sono ancora lontani i tempi delle reunion e il momento in cui David Fincher decide di mettere una canzone dall’irresistibile giro di chitarra acustica e conseguente esplosione elettrica che parla di perdita di coscienza e sdoppiamento della personalità, Where Is My Mind dei Pixies, alla fine di uno dei suoi tre – almeno – capolavori come film chiusa del millennio, Fight Club. Quindi anche i Pixies non è che ai tempi sono conosciutissimi.

[3] Mac Randall (trad. Gabriele Masini), Exit Music. La storia dei Radiohead, Arcana, Roma 2005.

[4] Per quanto riguarda le incredibili lotte tra operai minatori e polizia durante gli anni di Thatcher, uno dei testi di riferimento fuori dalla saggistica, i film e i documentari, resta David Peace (trad. Marco Pensant), GB84, il Saggiatore, Milano 2020.

[5] Giusto per essere più circostanziato specifico che gli accordi intorno a cui gira Animal nitrate non sono gli stessi di Smells Like Teen Spirit; il brano degli Suede gira intorno a Si minore, La, Sol, Mi minore, quello dei Nirvana si regge sui celebri (almeno per chi ha iniziato a suonare la chitarra nei Novanta) Fa minore, Si bemolle minore, La minore e Re minore.

[6] A onor del vero, Paul Q. Kolderie e Sean Slade non sono mai riusciti ad assurgere al rango di profeti tout court, di aedi del suono, di custodi dei segreti dell’indie rock come nella percezione comune degli appassionati di musica sono i vari Steve Albini, Butch Vig (apri tutto!), Jack Endino o John Agnello. Il loro lavoro, però, è stato fondamentale ed è rimasto apprezzato da tantissimi cultori della materia che si sono fatti le orecchie sui dischi dei Pixies, dei Dinosaur Jr., dei Lemonheads e dei Buffalo Tom. Nota personale: nel 2007 ero un ascoltatore di musica oltranzista e ascoltavo solo indie rock americano e inglese prodotto tra la metà degli anni Ottanta e quella degli anni Novanta e suonavo in una band che, per motivi non meglio precisati, si è trovata a disporre di un piccolo budget per scegliere da chi far mixare il proprio disco. In uno slancio di sicumera e hybris ho detto ai miei sodali: “Ma che cazzo ce ne frega, scriviamo a Paul Kolderie”. La cosa divertente non è solo che lo sventurato rispose, ma mixò anche il nostro disco, effettivamente, proponendoci una cifra ai tempi risibile e molto inferiore di quella che alcuni tecnici del suono italiani ci avevano chiesto. Era pur sempre il 2007 e a me, che un tizio che aveva messo le mani sulle chitarre dei Dinosaur Jr. potesse usare quelle stesse mani sulle mie (ai tempi il fatto che sostanzialmente aveva inventato i Radiohead non era un motivo di interesse), sembrava un sogno. Lì capii che molto spesso gli americani fanno un ragionamento che a noi sembra assurdo: dimmi che budget hai e ti dirò chi sei. Il disco mixato da Paul Kolderie, per inciso, non uscì mai e noi ci sciogliemmo poco dopo. Chi lo ha ascoltato però conferma che le chitarre suonavano benissimo.

[7] Jonathan Lethem (trad. Gianni Pannofino), L’estasi dell’influenza, Bompiani, Milano 2013.

[8] È piuttosto nota la tesi per cui Theodor W. Adorno (filosofo di riferimento della Scuola di Francoforte, tradizione filosofica marxista impegnata in un esercizio di critica della società presente per analizzarne le contraddizioni), indicava nella musica pop una degenerazione artistica schiava del nuovo totalitarismo capitalista. Quando invece faccio riferimento all’Opera Aperta, mi riferisco alle tesi di Umberto Eco (e altre persone con lui) che, nel 1962, indica la possibilità della cultura popolare di essere ibridata, replicata, frammentata e rimediata staccandosi dal principio di autorialità tradizionale e aprendosi, quindi, a interpretazioni e significati potenzialmente infiniti. Theodore W. Adorno (a cura di Marco Santoro), Sulla popular music, Armando Editore, Roma 2004; Umberto Eco, Opera Aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, La Nave di Teseo, Milano, 2023

[9] Forse a questo punto una precisazione è doverosa: se mi concentro così tanto sui video è proprio perché in quegli anni MTV era una vera e propria superpotenza e la promozione attraverso clip non solo non era una cosa scontata, ma era capace di cambiare il destino di una band.

[10] Il complesso residenziale in cui è ambientato il video di Animal Nitrate è a Lisson Grove, piena Westminster. Tecnicamente il centro di Londra.

[11] Fisher definisce ‘weird’ “ciò che è fuori posto […], che apporta al familiare qualcosa che normalmente si trova al di fuori di esso”. E spesso, sostiene, lo riscontriamo quando “ci troviamo in presenza del nuovo”. Mark Fisher (trad. Vincenzo Perna), The Weird and the Eerie. Lo strano e l’inquietante nel mondo contemporaneo, minimum fax, Roma 2018, pp. 10-13.

(continua in libreria…)

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