Dopo il successo di “Lo faccio per me. Essere madri senza il mito del sacrificio”, torna in libreria Stefania Andreoli con “Perfetti o felici”, un libro che indaga cosa voglia dire diventare adulti in una società liquida, senza certezze né punti di riferimento. Partendo dalle storie di chi si rivolge a lei ogni giorno, la psicoterapeuta (molto apprezzata anche sui social) volge lo sguardo verso le nuove generazioni in cerca di aiuto per capire come trovare il proprio posto nel mondo – Su ilLibraio.it proponiamo un estratto

Che cosa significa essere adulti oggi? E come diventarlo? Viviamo nell’epoca della crisi dei modelli e delle certezze. Abbiamo perso i nostri punti cardinali e, di conseguenza, abbiamo smarrito la nostra identità adulta. E se da un lato è bene mettere in discussione il sistema, dall’altro il rischio è di restare disorientati e smarriti.

Per questo la psicoterapeuta Stefania Andreoli (in copertina nella foto di Cristiano Zabeo, ndr), autrice di numerosi libri come Mamma ho l’ansia, Papà fatti sentire e Mio figlio è normale? e del bestseller Lo faccio per me. Essere madri senza il mito del sacrificio (tutti editi da BUR), ha deciso di volgere il suo sguardo verso la generazione dei venti-trentenni e dei trenta-quarantenni in cerca di aiuto per capire come trovare il proprio posto in un mondo che sembra aver perso ogni slancio verso il futuro.

Del resto Andreoli, che è molto seguita e apprezzata anche su Instagram, lavora ormai da anni con gli adolescenti, le famiglie e la scuola occupandosi di prevenzione, formazione, orientamento e clinica. Nel suo nuovo libro Perfetti o felici (BUR) parte dalle storie di chi si rivolge a lei ogni giorno, mostrando a tutti noi cosa voglia dire diventare adulti in una società liquida, in cui i giovani sono sempre più distanti dai loro genitori e dalle generazioni che li precedono.

Perché, in un momento in cui le accuse reciproche prevalgono sul dialogo e la richiesta di omologarsi a un irraggiungibile ideale di perfezione vince sul guardarsi davvero, potrebbero essere proprio i giovani adulti, e i nuovi modelli di cui sono portatori in quanto figli del loro tempo, a indicare la soluzione rivoluzionaria capace di aiutare tutti a essere più in ascolto di se stessi e degli altri e, finalmente, anche più felici.

Andreoli_PerfettiOFelici

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it un estratto:

credit: Mondadori Libri S.p.A. Milano

… e i giovani adulti?

Prima di cedergli il legittimo posto di protagonisti, ho sentito il bisogno di percorrere la lunga strada che si srotola dietro di loro. Tra chi mi conosce bene, c’è chi mi prende bonariamente in giro per la mia esigenza di cominciare ogni riflessione dall’inizio («Non serve sempre partire da Adamo ed Eva!», capita mi si dica quando mi si rivolge una domanda e la mia risposta la prende troppo alla lontana). Ci saranno di sicuro altri modi, ma questo è il mio. E quando tengo a qualcosa, lo esprimo raccontandone una storia ricca di dettagli e di particolari, affinché i personaggi possano accomodarsi dentro a un contesto arredato. Analogamente, questo libro parla dei giovani adulti, ai giovani adulti, al posto dei giovani adulti. E io che mi sono assunta la responsabilità di fare da portavoce, che conto e spero di spendere nel migliore dei modi di cui sarò capace, so provarci solo così.

Gentile dottoressa Andreoli,
Le scrivo questa email per dirLe che quando il Suo libro sui giovani adulti sarà pronto, sarò una delle prime persone a preordinarlo. Le allego un audio. Se mai lo ascolterà, non credo Le svelerà contenuti sconosciuti, anzi. Non è per questo motivo che l’ho registrato: desidero invece che Lei disponga di tutte le conferme utili a farLe sapere che il libro che sta scrivendo servirà a dare voce e visibilità a noi giovani adulti, ma la cosa ancora più importante secondo me è il fatto che la voce interposta sarà la Sua, quella di un’adulta che appartiene alla generazione che fa più fatica a capirci.
Grazie per il Suo lavoro e per come lo fa, non vedo l’ora che esca il Suo libro.
Martina Q.

Audio allegato:

Dottoressa, mi chiamo Martina, ho ventidue anni e mi sento bloccata. Sento che la vita mi sfugge dalle mani e l’aspetto più sconfortante è che io mi guardo intorno e penso che tutti stiano andando avanti, tranne me. Eppure non capisco come sia possibile che questo lo pensiamo così in tanti. E che ci sentiamo così soli. Con i miei genitori c’è un’assenza di comunicazione, oppure, quando ce l’abbiamo, mi sembra totalmente sbagliata: il nostro rapporto è proprio sbagliato. Si tratta di un modo di relazionarsi che è iniziato male e poi è stato coltivato peggio: non ci parliamo. Ma non si tratta di quell’assenza di dialogo tipica delle famiglie in cui ci sono figli adolescenti. Al contrario, è quel non parlarsi tipico della mancanza di relazione. Non c’è oppositività: c’è il vuoto. Non c’è scontro perché non c’è nulla da attaccare. Nel mio caso, ci sono un padre molto severo e una madre apprensiva e ansiosa. Lei ha avuto una brutta storia di violenza che ha riferito a me, a mio fratello e a mia sorella senza proteggercene fin da quando eravamo piccoli. Al di là dei dettagli sulla mia vita personale, vorrei che però questo audio avesse un carattere più universale: vorrei che le mie parole arrivassero a tutti gli altri, ai giovani, alle persone come me. Persone che hanno a che fare con un non successo. Persone che non si allineano ai canoni sociali imposti da voi, che siete gli adulti e che dettate legge circa come dovremmo vivere – così credete – senza che abbiate per primi vissuto nemmeno lontanamente la complessità del nostro tempo, delle nostre difficoltà, delle nostre vite. Vorrei rivendicare la nostra sofferenza, che non credo venga veramente capita. Su Instagram di recente un giornalista ha pubblicato delle stories. Un’utente gli aveva scritto che provava molto sconforto e fosse scoraggiata all’idea di mettere al mondo una nuova vita. Con questa frase, cercava un confronto. Ora, non definirei il giornalista in questione un boomer (… sa, Doc, uno di quelli che dice che si stava meglio quando si stava peggio!), eppure credo non avesse colto l’intenzione di questa persona di rivolgere la sua domanda, tant’è che le ha risposto andando via veloce e dicendole che in passato la Storia ha già visto epoche buie come questa. La cosa mi ha fatto riflettere: lui si riferiva alla Seconda guerra mondiale, quando avevi il morto come vicino di casa. Parlava poi del fatto che al netto delle crisi che l’umanità ha già attraversato, a suo parere questa ha l’unica peculiarità di essere la prima nella quale si perde totalmente il senso di fiducia e di speranza. Mi ha fatta pensare, perché ho dovuto ammettere di avere tendenzialmente una visione del mondo catastrofica, apocalittica, dove il futuro è assente. Credo che a mia volta farei parte di quel gruppo sempre più nutrito di persone che sarebbe disposto a rinunciare ad avere figli, non tanto per il momento storico, quanto per un fattore ambientale e climatico. Piuttosto ne adotterei uno, anche se ovviamente non so di cosa parlo. Un giorno stavo andando dal mio terapeuta, stavo ascoltando il radiogiornale. Nel giro di un minuto e mezzo sono passate le seguenti tre notizie: pandemia, guerra e crisi climatica. E lì ho pensato: Cazzo. Non siamo forse i primi nella storia ad avere a che fare con tutto questo contemporaneamente, e per la prima volta senza che siano minacce, ma fatti concreti? Il momento è pesante. Lo è per noi, lo è per chi verrà dopo di noi e lo studierà sui libri di storia – e noi sappiamo che l’uomo non sempre è così che impara. Insomma, non ho una visione rosea del futuro.

Per tornare allo scopo principale di questo messaggio audio, vorrei che queste mie parole si propagassero. Ultimamente mi è capitato di pensare che un giorno, da grande (… o meglio: da più grande), vorrei avere un posto mio. Vorrei aprire un centro dove poter parlare e normalizzare tutto ciò che nel presente e nel futuro prossimo continuerà a essere giudicato e criticato, anziché accolto. Siamo esseri umani intelligenti. Anzi: se siamo esseri umani, allora siamo dotati di intelligenza. Questa intelligenza andrebbe applicata. Grazie per l’attenzione.

Chi conosce un po’ i miei lavori forse ha già intercettato le difficoltà che collego alla scrittura – posto che non ho mai incontrato nessuno che scriva senza maledirlo, senza fare fatica, senza volerlo avere già fatto anziché farlo. Quelli che dicono il contrario sono persuasa che mentano.

Potrei dunque dare l’impressione di stare rieditando la versione moderna di Pierino e il Lupo: io che dico sempre che scrivere mi manda in crisi, ma poi in tutti i casi lo faccio, a volte non mi riesce neppure troppo male, i libri si vendono, io scrivo di nuovo, mi lamento più della volta precedente… riconosco che potrei venire a noia, non essere presa sul serio, rischiare di banalizzare il disagio, far venire voglia di dirmi: «Cosa lo fai a fare se la vivi così male, allora non farlo».

Tuttavia, difendo il mio gemito come Martina difende il suo: questa volta la mia è un altro tipo di fatica.

D’accordo: le scadenze, la stanchezza di fine anno, io che avrei avuto mesi e mesi a disposizione ma mi metto all’opera quando mi restano solo dei giorni, le mie figlie che mi dicono: «Mamma, ma cosa possiamo dire del tempo per la famiglia?», la minore che una domenica mattina mi ha detto: «Mamma, ho un’idea: oggi non scrivi e andiamo a fare i regali di Natale e la merenda con la cioccolata calda», la grande che ogni dieci minuti mi chiede a che pagina sono e ci tiene più di me… Ma stavolta non è solo questo. Stavolta non si tratta di una fatica logistica (nel frattempo Agnese mi ha appena chiesto: «Mamma, a che punto bello sei?». E io: «Ho appena scritto che me lo chiedi ogni dieci minuti!»).

Dicevamo: la mia fatica, stavolta, è quella che mi racconta anche lei, Martina. So bene di essere investita di un mandato, ho per le mani una bomba e mi sento responsabilizzata a piazzarla nel posto giusto, perché faccia parlare di una forte esplosione ma senza morti né feriti – ché sarebbe gravissimo perdere il dialogo tra le generazioni, limitarsi a puntare il dito, scordare che parliamo di persone, ignorare che un giorno potrebbero a loro volta essere genitori, ignorare che siano già genitori.

Martina però ha ragione: sento addosso l’onere di fare da ambasciatrice, con tutta la fatica connessa al fatto che sposo senza riserve la causa dei giovani adulti, ma senza esserlo. Sono una straniera nella loro patria, sto imparando la loro lingua ma non è la mia lingua madre, provo a tradurli per restituire loro tridimensionalità e offrire a noi adulti una spiegazione… ma stare nel mezzo è scomodo. Sento i gomiti di chi mi sta seduto sia a destra che a sinistra poggiati sui braccioli della mia poltrona, mi pungolano, mi impongono di trovare ogni cinque minuti la mia posizione. Mi sento stretta tra il raccontare dei giovani tanto a loro quanto a noi. Capisco di capire la loro lingua, ma non sempre so parlarla.

Io penso che in effetti Martina abbia ragione e questi siano tempi bui, bassi, depressi tanto dal punto di vista culturale quanto da quello politico e affettivo.

Non mi interessa individuare epoche migliori o peggiori di questa, non intendo stabilire dei primati, perché un primato c’è e si afferma da sé: sono i tempi che stiamo vivendo noi.

Sono tempi in cui i giovani adulti non vengono capiti, se non vengono proprio ignorati. Tempi in cui sarebbe ora invece di riconoscerli come la risorsa cui chiedere se per favore possano un po’ pensarci loro, ché qui si mette male, noi siamo messi male, e loro invece potrebbero avere una soluzione.

Potrebbero essere una soluzione.

 

(continua in libreria…)

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Fotografia header: Stefania Andreoli nella foto di Cristiano Zabeo

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