Che lo si voglia o no, le emozioni originano nel nostro cervello, hanno una base materiale, ben scritta nei neuroni e nelle loro aggrovigliate connessioni. L’optogenetica è l’ultima nata tra le avveniristiche tecnologie biomolecolari. Tra i pionieri di questa tecnica c’è Karl Deisseroth, in libreria con un saggio suggestivo, “Proiezioni”

Topi telecomandati

Si fa così: si prende un gene da un’alga, lo si inserisce in un virus e poi si porta quel virus a contatto con un punto preciso del cervello, cioè con un gruppo di cellule nervose situato in un luogo specifico di quella immensa massa gelatinosa che sta dentro al cranio e che governa le azioni degli animali e ne determina i sentimenti. A quel punto il gene che abbiamo preso dall’alga viene inserito dal virus nella lunga sequenza del DNA dei neuroni di quel luogo del cervello.

Ho scritto “si fa così”, come fosse una cosa da niente, ma in effetti è un’operazione che ha del miracoloso e che oggi si può fare solo perché la genetica è diventata una scienza incredibilmente sofisticata, che può contare su tecnologie che sarebbero state giudicate semplicemente impensabili solo pochi anni fa. “Ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”, diceva Arthur Clarke.

Per vederci più chiaro, a quel gene dell’alga si associa anche una proteina luminescente, cioè una sostanza che quando viene colpita da luce ultravioletta emette una bella luce gialla sgargiante. Quindi si lascia che la natura faccia il suo corso: nell’umido intrico biochimico del macchinario cellulare di quei neuroni, il DNA verrà naturalmente “tradotto” in RNA e questo verrà poi “letto” dai ribosomi, i quali sulla base delle istruzioni che hanno ricevuto produrranno specifiche proteine che verranno rilasciate nel citoplasma e si diffonderanno nella cellula. Tra queste proteine ci sarà ora anche quella dell’alga e quella luminescente aggiuntiva, che segnala la sua presenza. La prima farà una certa cosa (causerà un certo effetto, che ora vedremo), la seconda ci segnalerà dove quella certa cosa sta accadendo.

Questa la tecnica. Ma perché fare tutto questo? Il fatto è che il cervello è una matassa inestricabile, un complicatissimo intrico di cavi che si collegano ad altri cavi milioni e milioni di volte, come il quadro elettrico generale di un grosso impianto industriale, solo molto, molto più complesso. Ogni cellula del cervello è collegata con altre migliaia di cellule e possiede un prolungamento – l’assone – che la mette in comunicazione con zone anche lontanissime di quel groviglio. Se il citoplasma di una di queste cellule (e solo di quella) contiene una proteina luminescente, illuminando con luce ultravioletta vedremo letteralmente accendersi un neurone nella massa grigia e scopriremo così da dove parte e dove arriva; lo vedremo risaltare, lui solo, nel groviglio generale. Le cellule “infettate” dal virus ci mostreranno così dove vanno a finire, con chi comunicano. E qui entra in campo la proteina dell’alga.

Si chiama rodopsina e reagisce anch’essa alla luce. All’alga serve per posizionarsi in modo ottimale rispetto alla luce del sole; d’altra parte è un’alga, vive di fotosintesi, e sapere dov’è il sole per lei è di vitale importanza. Quando la rodopsina viene colpita dalla luce apre certi canali della membrana cellulare permettendo il passaggio di certi ioni e determinando così una corrente elettrica che mette in movimento l’organismo. Questo nell’alga. Ma nel neurone, dove ora si trova innaturalmente, se viene colpita dalla luce scatena una serie di reazioni che hanno come effetto quello di far “scaricare” l’impulso elettrico: in pratica si mette in moto a comando, con la luce, un singolo neurone. Come il martelletto del neurologo che colpendo la rotula fa scattare a comando i muscoli della gamba.

A questo punto possiamo inserire nel cervello (di topo) delle sottilissime fibre ottiche; quando accendiamo la luce quel neurone si metterà in attività, quando la spegniamo si silenzierà. Siamo in grado di telecomandare un topo con una manopola e di vedere l’effetto di ogni neurone sul suo comportamento.

Tutto questo va sotto il nome di optogenetica, l’ultima nata tra le avveniristiche tecnologie biomolecolari. Tra i pionieri di questa tecnica c’è Karl Deisseroth, autore di Proiezioni (saggio in libreria per Bollati Boringhieri, ndr).

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Questa è la fase “fredda” della ricerca, quella squisitamente tecnologica. La fase “calda”, invece, parla di emozioni. Sì, perché tutto questo apparato tecnologico serve per provare a rispondere alle domande eterne dell’umanità: cos’è la tristezza? perché piangiamo? dove origina la paura? e l’euforia? e l’innamoramento? Che lo si voglia o no, le emozioni originano nel nostro cervello, hanno una base materiale, ben scritta nei neuroni e nelle loro aggrovigliate connessioni.

Grazie all’optogenetica, un passo alla volta, nucleo celebrale dopo nucleo cerebrale, accendendo e spegnendo alternativamente l’immenso quadro elettrico generale dei nostri sentimenti, stiamo facendo luce (!), piano piano, su alcune delle nostre emozioni, sulle loro origini e il loro significato evolutivo.

È una ricerca paziente, certo non definitiva, in continuo divenire; ma alcune delle nostre emozioni stanno pian piano svelando i loro segreti, e tutto ciò non toglie nulla (perché la conoscenza non toglie mai niente, semmai aggiunge) al loro eterno fascino.

*L’autore è direttore editoriale di Bollati Boringhieri

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