Nel saggio “Il tirocinio della democrazia – Una genealogia per la scuola del presente” Vanessa Roghi ricorda che la democrazia è un tirocinio costante che prevede un allargamento dei soggetti di diritto, sia a scuola che fuori. Conoscere la nostra Costituzione, infatti, non basta a fare di una persona una persona educata alla democrazia… – Su ilLibraio.it il capitolo “Didattica e democrazia: Mario Lodi”

2 giugno 1946: un referendum stabilisce che l’Italia sarà una Repubblica e non una Monarchia. Ma non è un colpo di bacchetta magica che in un giorno, un mese o un anno, consente di trasformare un Paese unito da appena ottant’anni, governato da notabili e dove hanno votato, se hanno votato, solo gli uomini, in una vera democrazia.

Un “binomio fantastico” è lo scontro di due parole che all’apparenza non c’entrano niente tra di loro. Come scuola e democrazia all’alba di quel 2 giugno. Ci vorranno l’impegno teorico e pratico di uomini e donne appassionati per trasformare queste due parole in un binomio di fatto, per rendere la scuola un luogo davvero democratico.

Il tirocinio della democrazia Una genealogia per la scuola del presente

A partire dalla necessità, oggi, di tornare a parlare di scuola democratica, a fronte del sempre nuovo e maggiore sostegno che da qualche anno gli oppositori di questo progetto hanno trovato e trovano fra insegnanti, genitori e istituzioni, Il tirocinio della democrazia (Il Margine) è il tentativo di Vanessa Roghi di guardare all’operato di questi uomini e di queste donne straordinari nella prospettiva dell’educazione democratica.

Il breve saggio è un excursus che ripercorre le vite, le parole e i valori dei grandi nomi dell’educazione, da Don Milani – nel centenario dalla nascita – a Gianni Rodari, Ada Gobetti, Mario Lodi e Loris Malaguzzi, e in cui l’autrice, storica, recupera le prime origini del concetto di “scuola democratica”.

Una scuola, innanzitutto, che elimina gli ostacoli; che dà spazio e incoraggia la creatività di ogni singolo bambino o bambina; che si prende cura dell’infanzia senza costi. Scuola che educa alla partecipazione e al pensiero critico. Ma educare al pensiero critico, alla partecipazione, alla democrazia non è solo un pensiero, è prassi costante, è un tirocinio che prevede un allargamento dei soggetti di diritto, sia a scuola (alunni e alunne) sia fuori (famiglie), in uno sforzo relazionale continuo.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un capitolo:

Didattica e democrazia: Mario Lodi

Da subito, a chi si trova a lavorare nella scuola e prende sul serio questo «fatto nuovo» che è la democrazia, non appare chiaro come questo principio si possa concretizzare in scuole che sul territorio hanno caratteristiche così diverse da far pensare a Paesi diversi (e per molti ancora oggi è così). Scuole da ricostruire, scuole rimediate in edifici non adatti, scuole di campagna e scuole di città, multi-classe e classi maschili o femminili. Scuole ricche e scuole povere, scuole con insegnanti democratici e scuole con vecchi arnesi passati dal fascismo alla Repubblica sen- za alcuna soluzione di continuità, per cui, tolto il ritratto del duce dal muro, continuano a comportarsi come si sono sempre comportati, in modo autoritario. Come si può fare? Questi insegnanti che si pongono questa domanda, come adeguare il proprio modo di insegnare alla novità della democrazia, si chiedono anche se la cittadinanza democratica deve riguardare tutti, anche i bambini. O i bambini sono meno cittadini degli adulti. I loro sono diritti minori?
Insomma, la democrazia finisce davanti all’uscio della scuola? In classe la democrazia esiste o si può sospendere lo stato di diritto e fare come se non importasse? L’11 ottobre del 1951 Mario Lodi, maestro, scrive:

Se la scuola non deve soltanto istruire, ma anche e soprattutto educare, formando cioè il cittadino capace di inserirsi nella società col diritto di esporre le proprie idee e col dovere di ascoltare le opinioni degli altri, questa scuola fondata sull’autorità del maestro e la sottomissione dello scolaro non assolve al suo compito perché è staccata dalla vita (Lodi, 1963, pp. 9-10).

E ancora:

io sono diventato maestro nell’anno in cui è stata promulgata la Costituzione che dice all’articolo 21 che tutti i cittadini hanno il diritto di esprimere il loro pensiero. Il mio problema di giovane maestro buttato allo sbaraglio era proprio questo. I bambini sono o non sono cittadini? E se lo sono hanno diritto ad avere un pensiero ad esporlo? Oppure sono adulti in miniatura da indottrinare? (Meda, 1999, p. 115).

Mario Lodi non è solo a pensarla così. Insieme a lui ci sono maestri, maestre e professori e professoresse che vanno nella stessa direzione: i princìpi non vanno insegnati, vanno vissuti all’interno della scuola.

La storia di Mario Lodi corre in parallelo a quella di tanti insegnanti che con lui cercano una risposta concreta a queste domande. Sembrano trovarla nel rinnovamento della didattica. Ritornando al pensiero di John Dewey è più semplice imparare facendo. Senza dubbio è più faticoso insegnare, «facendo fare». E questo, senza dubbio, è il primo punto da tenere in considerazione: il fatto che con Lodi e i suoi compagni di strada si compie una vera e propria rivoluzione copernicana. Muta il corpo celeste intorno a cui ruota il sistema dell’istruzione: al centro della galassia, infatti, non c’è più l’insegnamento ma l’apprendimento. E, si badi bene, non ho scritto: il bambino (o la bambina). Ho scritto l’apprendimento.

Quando Lodi inizia a insegnare, infatti, molte sono le riflessioni sul cosiddetto puerocentrismo. Le tecniche attive che mettono al centro il bambino vanno di gran moda, e anche nei programmi ministeriali della scuola elementare del 1955 l’attivismo pedagogico viene proposto come necessario corollario dell’insegnamento.

Il problema, secondo Lodi, è che intorno a questo attivismo non c’è un’idea democratica di società: il bambino deve essere messo al centro del progetto educativo come individuo, non come individuo al centro di una comunità.

La differenza è sostanziale, come scrive Ciari:

Tutti nel mondo della pedagogia e della scuola, sembrano esser d’accordo sull’esigenza di «partire dal fanciullo», di prendere atto dei suoi bisogni di base e dei suoi interessi, delle forze che si muovono in lui. Questa esigenza è agli occhi di tutti così ovvia e scontata che appare superfluo e tedioso metterla di nuovo in evidenza. La cosa, invece, non è poi tanto ovvia. L’accordo è nella enunciazione verbale e non nel profondo delle convinzioni. In verità purtroppo (parlo per la prima classe e le mie considerazioni valgono naturalmente anche per le successive) non si parte affatto dal fanciullo; il maestro, in vista del primo giorno di scuola, ha già pronto, se è diligente, tutto un programma di esercitazioni; ha in testa il suo «metodo» per l’apprendimento della lingua, globale o no, con tutti i suoi passaggi; ha pronti i cartelloni, magari le bustine col materiale più minuto. Dal primo istante in cui il fanciullo varca la soglia dell’aula il meccanismo, più o meno razionale, si mette in moto. Come vedremo, anche nei casi migliori il ragazzo diventa subito schiavo del «procedimento»; la sua vera personalità, la sua esperienza di vita, è rimasta fuori, e probabilmente, se non entra in principio nella scuola, non vi entrerà più (Ciari, 1961, p. 13).

Questa distinzione Mario Lodi ce l’ha chiarissima, e a maggior ragione dovrebbe essere ancora più chiara oggi. Abbiamo un secolo di pedagogia che ci dice che così facendo l’apprendimento funziona meglio.

Ma non c’è tempo, dirà qualcuno. Mario Lodi la didattica l’ha cambiata in una scuola che terminava alle 12:30 e in ogni classe aveva più di trenta bambini.

Eh, ma lui era Mario Lodi.

Mario Lodi stesso ha passato gran parte della sua vita di adulto a dire che non c’era niente di impossibile in quello che faceva lui, che il suo lavoro poteva essere riprodotto ovunque ci fosse un maestro, una maestra, ma anche un professore o una professoressa, di buona volontà.

C’è un insegnante delle scuole medie che, dopo aver letto C’è speranza se questo accade al Vho, decide di partecipare a uno stage estivo dove vede Lodi all’opera per la prima volta: si chiama Gioacchino e racconta di come per giorni interi il gruppo rimanga attaccato a un muro di campagna, a osservare tutto ciò che i sensi percepiscono, a misurare, a discutere, a mettere in rapporto i vari elementi osservati, a formulare ipotesi di spiegazione e a metterle in discussione, a disegnare. Lodi dà consigli su come «vedere» il muro, non «fa lezione» sollecita uno sguardo partecipativo. Poi, a poco a poco, la capacità di entrare in relazione con quello che si vede, rielaborarlo, si fa metodica, e condivisa da tutti i corsisti. E la tecnica didattica appare chiara. Osservare, ragionare insieme, descrivere, senza l’obbligo dell’oggettività, partecipando a quello che si vede ma anche cercando di ricavarne una regola, da verificare. I bruchi diventano farfalle, gli uccelli fanno le uova, da un seme nasce una pianta. Tutto questo può essere fatto ovunque, anche in «un angolino del vasto universo», come scrive uno dei compagni di questa avventura, Bruno Ciari. E non serve essere Lodi per farlo. È il «metodo della ricerca»: il sorgere del problema, la formulazione di ipotesi, la raccolta, l’interpretazione dei dati, la sintesi, la verifica delle ipotesi e l’eventuale formazione di nuove ipotesi. Un’indicazione di Antonio Gramsci (1916) di cui fare tesoro: «l’insegnamento in tal modo diventa un atto di liberazione, esso ha il fascino di tutte le cose vitali». Così Lodi fa ricerca quando scrive Cipì con i suoi bambini (osservare il prato d’inverno e la vita degli uccelli), e fa ricerca quando disegna la mappa di Vho, negli anni in cui raccoglie il materiale che diventerà Il paese sbagliato.

Lodi tuttavia non si accontenta della descrizione e ci mette una cosa in più in questa ricerca, ed è il lavoro sulla creatività infantile: Cipì diventa una fiaba, Il paese sbagliato un progetto per un paese da costruire più bello e più giusto.

Oggi tutto questo è ancora possibile? Sì. Il perché è lui stesso a spiegarlo. Scriverà:

Ai miei tempi abbiamo introdotto nella scuola l’uso di tecniche allora innovative: il ciclostile per stampare il giornalino della classe, il litografo per stampare disegni e manifesti, il mosaico e la pittura per rappresentare il mondo figurato e dipingere i grandi quadri di gruppo. Oggi ci sono nuovi strumenti dalle grandi potenzialità: il computer per i testi, la videocamera, le macchine fotografiche digitali, internet per trovare informazioni e molto altro ancora. L’importante, come sempre, è l’uso che si fa di questi strumenti a qualificare la scuola e il progetto educativo che la ispira. La scuola di oggi può essere anche più capace di adattarsi al mondo che la circonda. Può essere un male se la scuola dovesse essere subalterna ai valori imperanti dell’egoismo individualista e della mancanza di rispetto del prossimo. Può essere un bene se riesce a mettere a disposizione di tutti strumenti per comunicare, capire, esprimersi, crescere e per costruire una società sinceramente democratica (Lodi, 2002, p. v).

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