“Di cosa stiamo parlando?” raccoglie i commenti di linguisti, scrittori e poeti a proposito di alcuni tic della comunicazione quotidiana, offrendo dei microsaggi antropologici tra neologismi, anglicismi e tormentoni vari… – Su ilLibraio.it il capitolo scritto da Nadia Terranova, dal titolo “L’esercizio dell’infanzia”

Da sempre la conversazione quotidiana è caratterizzata da modi di dire che, volta a volta, esprimono lo spirito del tempo. Solo alcuni di essi sopravvivono darwinianamente e si riadattano alle nuove epoche: come il sempreverde “fico” o “figo”, inalterato dagli anni ’60 ad oggi. Nulla di cui scandalizzarsi. Non bisogna farsi censori del lessico e, se qualcuno dice “un attimino”, pazienza. Però, mai come oggi, nella nostra società che ha rilanciato anche attraverso i social network la chiacchiera, quelle interiezioni hanno generato un inquinamento verbale che hanno soprattutto la funzione di riempire il vuoto.

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Di cosa stiamo parlando? Le frasi e i tic della lingua quotidiana (Enrico Damiani Editore, a cura di Filippo La Porta) è un libro molto attuale, e raccoglie testi di autori come Teresa Ciabatti, Giuseppe Culicchia, Valeria Della Valle, Piero Dorfles, Vincenzo Ostuni, Antonio Pascale, Giuseppe Scaraffia, Simonetta Sciandivasci, Nadia Terranova e Edoardo Zuccato.

Il volume presenta i commenti di linguisti, scrittori e poeti a proposito di alcuni tic della comunicazione quotidiana, offrendo dei microsaggi antropologici tra neologismi, anglicismi e tormentoni vari.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

L’esercizio dellinfanzia
(lossessione delle ossessioni degli altri)

di Nadia Terranova

La mia ossessione è, come tutte le ossessioni, solipsistica e fatta per metà di dolori e per metà di appagamenti: il mio automatismo è smontare ogni fastidio manifestato da altri verso un tic linguistico, una locuzione, un lemma considerato orrendo o inflazionato, volgare o ingenuo (di solito volgare perché ingenuo), un modo di dire che per snobismo bisognerebbe tenere alieno per sentirsi più dotti, più istruiti, più italiani, non così fessi da adoperare termini frusti o paroline del popolo. Di fronte a tanto sbuffare, io di solito non dico nulla; se l’interlocutore smanioso di denuncia cerca il mio consenso allora sorrido, ma solo un poco, perché se la serata graziosa, c’è ancora del vino con cui finire il bicchiere, le chiacchiere tutto sommato stanno andando bene non vedo perché dovrei guastare l’aria buona capovolgendola fino a essere o apparire io l’antipatica o snob, quella che non ha capito (la cosa che mi disturberebbe meno è passare per un’appartenente al popolino, però non posso mai essere sicura che accadrebbe proprio quello).

La verità è che quest’insofferenza, la mia intendo, diventa di rado insofferenza per l’interlocutore, non ho quasi mai insofferenza per le persone ma mi capita di averne per l’umana insofferenza (la mia non fa eccezione), che avverto nitida come la mancanza di qualcosa. Dove c’è insofferenza linguistica, in particolare, vedo soprattutto latitanza di fantasia. Comunque anche Leopardi diceva le parolacce, recita il libro di un linguista, Giuseppe Antonelli: quel titolo parla di altro però lo prendo in prestito perché se la letteratura prende in carico le parolacce figurarsi se non può farlo con le paroline, o le parole orrende; del resto quello che fa il poeta non è “inventare una lingua” ma semmai illuminare di senso nuovo quella in cui si trova a scrivere.

Prendiamo le #paroleorrende: l’hashtag vive su Twitter e Facebook, e da anni utenti di entrambi i social network fanno a gara per aggiungerne di nuove. Io però quando leggo “ciaone” non penso “che schifo, che oscenità”, penso a Gianni Rodari, penso a indire una gara rodariana dentro una terza elementare, penso a scatenare bambini a scrivere e poi eleggere il miglior limerick apocrifo. Io parteciperei con questo:

Ciaone, disse un piccolo uomo di Piombino, a cui avevano insegnato a dire ciaino, e dopo la sua prima disobbedienza si accorse di non poter più fare senza, quel piccolo uomo di Piombino.

La mia ossessione è l’esercizio silenzioso all’apertura della gabbia dove altri hanno chiuso parole verso cui bisognerebbe nutrire un complesso di superiorità. La mia è un’ossessione adulta che si nutre delle certezze dell’infanzia, ovvero dell’età in cui il complesso di superiorità lo si ha meritatamente, perché gli adulti con le loro regole inventate ti sembrano — e sono — soltanto complicati e cretini. Per un bambino il cui ideale libro di testo è la Grammatica della fantasia, “insalatona” non è la trovata di un menù per turisti sopra la lavagnetta di un ristorante, semmai il modo in cui Alice potrebbe descrivere gli ortaggi dopo aver bevuto la pozione che l’ha fatta rimpicciolire, nel paese delle meraviglie. I “bacissimi” non sono il saluto carico di amore affettato alla fine di un sms, ma antichi bachi da seta cinesi travestiti da supereroi, potenti ma distrattissimi, visto che hanno perso un’acca. Passiamo a parole più adulte analizzate con prospettiva più adulta (cioè di bambini a cui è capitato di dover crescere): “tedeschizzare”, da qualcuno indicata fra le #paroleorrende, per me non vede l’ora di trasformarsi indossando un trattino e una k, “tedeskizzare”, un’ossessiva dichiarazione d’amore del giornalista sul posto di lavoro, ovvero ti vedo scritto su tutti i desk. Ma probabilmente “deskizzare” è anch’essa nelle #paroleorrende, e anche la citazione occulta di prima, che viene da una canzone (orrore!) di Jovanotti. Le #paroleorrende sono ostacoli pronti a far cadere chiunque si senta così raffinato da denunciarne una: non lo sa, ma ne ha di sicuro usata un’altra nel tweet o nel post precedente, nessuno è immune, parafrasando Pietro Nenni ci sarà sempre un orrendo meno orrendo che ti epura. Ma la letteratura ha spalle abbastanza robuste da rischiare tutto, figurarsi l’orrore; la letteratura non è perfezione ma tentativo, falliremo ancora, falliremo meglio.

Più difficili delle parole sono i proverbi, le sentenzucce, le frasi fatte, i luoghi comuni e i parassiti del parlare: e quelli, come si ribaltano? Bruno Munari ci ha costruito su una pagina di Verbale scritto (Corraini), intitolata Nenia natalizia, che comincia così:

A caval donato non si guarda in bocca
A boccal donato non si dona guardia
A guardar di lato non si boccian doni
A donar guardiano non si beve cavol
A cavar gualdrappe non si bacian bocche…

Quando ho letto quella pagina di Munari ero già cresciuta e mi ha ricordato le favole che mio nonno, avvocato, mi raccontava, anzi le dettava alla segretaria affinché le battesse a macchina per inviarmele dentro una busta col francobollo (le custodisco tutte): la lingua era munariana, la protagonista, una bambina (ma guarda!) di nome Nadia, era ghiotta di “nigrata di grafola”, ovvero granita di fragola. Non so se mio nonno conoscesse Bruno Munari, di certo era un uomo adulto molto stimato per il suo lavoro e le sue idee politiche; ma era anche un bambino imprigionato nei ruoli di marito, padre, professionista, intellettuale. Scalpitava, scherzava, spingeva verso il nonsense anche con i delinquenti con cui gli capitava di dover lavorare, essendo penalista, e nelle lunghe ore allo studio doveva annoiarsi tantissimo, fino a inventare capovolgimenti dell’ovvio e sopportabili spazi di surreale.

Del resto, avverte Munari:

Conservare lo spirito dell’infanzia dentro di sé per tutta la vita vuol dire conservare
la curiosità di conoscere
il piacere di capire
la voglia di comunicare.

E’ ancora Munari, a consigliare di non temere ciò che in quel momento, per costume dilagante o per una forma di distacco, ci appare orrendo:

Niente passa tanto di moda come la moda.
L’uovo ha una forma perfetta benché sia fatto col culo.

Un altro scrittore per ragazzi, Sauro Marianelli, in un libro che da bambina ho molto amato, Animali e parole (Editori Riuniti), mette a confronto due storie diverse. Nella prima, un passante chiede a un altro: “Scusi, non ha mica l’orologio?”, e subito dopo: “Perché il fornaio fa il pane?”. Nella seconda, un signore ferma un treno in corsa all’altezza di un passaggio a livello, e con fare trafelato e disperato chiede al macchinista: “Scusi, non sa mica che ore sono?”.

E’ questa dunque la frase, la domanda, che stupisce due volte: nel primo caso perché non viene posta, nel secondo perché lo è. Nell’allenamento silenzioso che mi riporta al godimento linguistico dell’infanzia, è una prova a cui bisogna sempre sottoporre le espressioni fruste, per rigirarle e guardarle di fianco e di traverso: cambiarle di contesto, lasciarle brillare per la loro presenza o assenza. Mi sembra, di fronte al fastidio, un’attività più vicina all’esercizio della narrazione, e a quello della poesia.

L’APPUNTAMENTO – Il libro sarà presentato a Bookcity – Milano il 19 novembre, alle 16.30, alla biblioteca del Mudec (oltre al curatore ci saranno due degli autori, Dorfles e Zuccato).

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