Coniugi, compagni di vita, grandi amori: “Mariti” è un’antologia di racconti che vede protagoniste autrici come  Dacia Maraini, Simona Sparaco, Alice Basso, Tiziana Ferrario e Nicoletta Sipos. Un libro nato per portare qualche aiuto alle donne che, con o senza marito, ancora devono lottare per veder realizzato anche il desiderio più scontato. Su ilLibraio.it la prima parte del racconto di Bianca Pitzorno

Gemelli identici

di Bianca Pitzorno

Quando avevamo pochi mesi nostra madre, presentandoci ai parenti che ancora non ci conoscevano, cercava di togliersi d’imbarazzo con una frase che le sembrava spiritosa: «Ecco il nostro piccolo zoo».

Quando gli eravamo stati presentati, dietro il vetro della nursery dell’ospedale, nostro padre invece aveva esclamato una frase irripetibile (che però ci era stata ripetuta moltissime volte da nostro nonno). Al tempo della gravidanza di nostra madre non c’era ancora l’abitudine delle ecografie; l’ostetrico aveva messo sull’avviso lei e nostro padre parlando genericamente di gemelli. «Mi sembra di sentir battere più di un cuore» aveva detto. Non aveva avuto il coraggio, anche perché non ne era certo al cento per cento, di dire che eravamo in tre. Forse in quattro. Poteva solo escludere che fossimo in cinque.

«Stia tranquilla signora, questa è l’ultima» disse rassicurante l’ostetrica a nostra nonna quando mi vide sgusciar fuori, dopo i miei due fratelli. «Temevo peggio.»

«Temevo peggio» divenne così una frase ricorrente del nostro lessico familiare quando succedeva qualcosa di sgradevole che però non volevamo ammettere come disastrosa.

Devo riconoscere, a lode dei nostri genitori, che di quella nascita anomala si fecero presto una ragione. E d’altronde erano tempi in cui c’era abbondanza di bambinaie e domestiche a basso costo, l’allattamento artificiale non era considerato una vergogna, mio padre guadagnava abbastanza da permettersi una casa grande e confortevole, e le altre famiglie, comprese quelle dei nostri parenti, trovavano normale mettere al mondo quattro o cinque figli, qualcuna persino sette o otto.

Nel nostro caso l’inconveniente era che bisognava occuparsi di tre lattanti contemporaneamente e fare in modo che non ne arrivassero subito degli altri, perlomeno non prima di qualche anno. Non so se i nostri genitori sapessero come fare al riguardo, o se fu un caso; di fatto fratelli o sorelle minori non ne arrivarono neppure dopo un ragionevole intervallo. Eravamo una normale famiglia con tre bambini, uno al di sotto della media.

Quelli che non sembravano normali ai parenti erano i nostri nomi, un capriccio di mia madre a cui nessuno aveva osato opporsi dopo le fatiche della gravidanza e del parto plurimi. Io, l’ultima nata, che ero guizzata fuori veloce e senza problemi, venni chiamata Delfina. Il primo a nascere, che si era fatto strada lentamente come uscendo da un lungo letargo e si era subito addormentato tra le braccia dell’infermiera, venne chiamato Orso. Il secondo, che invece appena mise fuori la faccia spalancò la bocca ed emise un forte ruggito simile a quello del regale felino della Metro Goldwyn Mayer, si meritò con questo anomalo comportamento il nome di Leone.

Per nostra fortuna in quei tempi i gemelli a scuola venivano tassativamente messi in classi diverse e questo ci evitò gli scherzi, le prese in giro e le solite battute cretine. Crescemmo seguendo ognuno le proprie inclinazioni e il proprio carattere, che non erano simili. Fisicamente invece somigliavamo molto, come se fossimo omozigoti, anche se il libro di scienze diceva che essendo io di sesso diverso non potevamo esserlo. Unica differenza tra noi il colore degli occhi: io li ho azzurri, Orso neri e Leone di un castano dorato che in qualche momento sembra addirittura giallo. I capelli invece li abbiamo tutti e tre nerissimi.

Non ci piaceva essere l’uno la copia dell’altro e cercavamo di distinguerci almeno con la pettinatura oltre che con l’abbigliamento. Io non indossavo mai i pantaloni e mi lasciai crescere i capelli fino alla vita: li arricciavo tutte le notti con i bigodini e li portavo sciolti. Quando ebbi diciott’anni me li decolorai. Orso se li faceva tagliare cortissimi, come un militare. Leone coltivò con orgoglio la folta criniera: la lasciava crescere sul collo e la nutriva quotidianamente e abbondantemente con brillantina Linetti, tanto che la domestica tutte le mattine gli doveva cambiare la federa. Per evitare che nel sonno le ciocche prendessero una cattiva piega aveva l’abitudine di indossare ogni notte la retina.

Quando raccontai questi dettagli alla compagna con cui dividevo la stanza al pensionato universitario, lei si divertì molto, soprattutto per la retina. «Me li devi presentare i tuoi fratelli. Se ti assomigliano come dici, devono essere uno schianto» dichiarò subito dopo.

«Caspita, che bella che sei!» aveva esclamato il primo giorno, quando mi aveva incontrato. «Non so se sia una fortuna o uno svantaggio. Mi porterai via tutti i corteggiatori. E però non sopporterei di vedermi tutti i giorni nel letto a fianco una faccia sgradevole…» Era molto sincera, ma non aveva il senso del ridicolo. Tanto che non aveva fatto una piega quando le avevo detto i nostri nomi. Io invece non ero riuscita a trattenere una risata sentendo che lei si chiamava Colomba. Quando secondo il suo desiderio le avessi fatto incontrare i miei fratelli, altro che «il nostro piccolo zoo»!

Ma non è che la gente al proprio nome ci stia poi a pensare tanto. A tutto ci si abitua, e al nome prima di ogni altra cosa.

Alla prima vacanza invitai Colomba a casa nostra per qualche giorno. Anche lei è molto bella e ancora di più lo era allora, e fece un’ottima impressione ai miei familiari. I gemelli ne furono conquistati: non riuscivano a toglierle gli occhi di dosso, facevano a gara per attirare la sua attenzione, per riempirla di complimenti e di cortesie. Lei poveretta non sapeva come comportarsi. Era evidente che le piacevano entrambi e che non voleva farli soffrire esprimendo una preferenza.

La notte, quando fummo sole nella mia camera, mi confessò di essere molto confusa. Non le era mai capitato di non saper scegliere. «Se fossi una sultana e potessi avere un harem, me li prenderei entrambi» disse arrossendo. Ai gemelli quella soluzione ovviamente non sarebbe piaciuta. Ciascuno di loro voleva Colomba tutta per sé ed era furiosamente geloso del rivale.

Non starò a raccontare nei particolari come si svolsero i fatti. Le storie d’amore più o meno si assomigliano tutte. Anche quelle in cui c’è un secondo pretendente che bisogna allontanare senza fare troppi danni. Oltretutto in quello stesso periodo io avevo conosciuto Gabriele, me n’ero innamorata, anche se non in modo così furioso (l’ho già detto che di carattere noi gemelli siamo molto diversi), lo avevo presentato ai miei, avevo aspettato da fidanzata che entrambi ci laureassimo, e lo avevo sposato.

Non avevo molto tempo e molta attenzione da dedicare alla lotta tra Orso e Leone per aggiudicarsi la preferenza di Colomba. Lotta che durò diversi anni. Lei sembrava provocarli dedicandosi ora all’uno, ora all’altro, ma alla fine si decise. Le piacevano entrambi, ma Leone le faceva un po’ di paura con quel carattere furioso e la tendenza a gridare e usare le mani. Da Orso si sentiva protetta, trattata con rispetto. Orso aveva un lavoro tranquillo e persino romantico: coltivava fiori in una grande serra di sua proprietà e curava per conto del Municipio il verde cittadino. Leone era un ottimo chimico, ma non era capace di tenersi un lavoro, cambiava ditta in continuazione, scompariva per mesi e al ritorno raccontava di viaggi avventurosi e spericolati. Non c’è da meravigliarsi se alla fine Colomba, che amava la tranquillità, scelse Orso e per non ripensarci volle che si sposassero immediatamente.

Leone reagì con uno dei suoi più furiosi attacchi di rabbia. Prese a pugni il fratello, scaraventò fuori dalla finestra il cagnolino di Colomba (che fortunatamente atterrò sul marciapiede senza farsi male), insultò i nostri genitori colpevoli a suo dire di avere tramato alle sue spalle, fece la valigia e uscì di casa sbattendo la porta. «Dove vai?» gli gridò dietro nostra madre. «All’inferno. E spero che ci andiate anche voi. Tutti quanti!» fu la risposta.

Di fatto Leone se ne andò in Nuova Zelanda. Ogni tanto spediva a nostra madre una cartolina per dirle che era vivo. Non sapevamo se si era fatto una famiglia, se aveva moglie e figli, che lavoro faceva. Quando nostra madre morì pochi mesi dopo nostro padre, le cartoline smisero di arrivare.

Per i gemelli è dura venire separati così bruscamente e totalmente. Ma Orso e io finimmo per abituarci. I nostri matrimoni andavano a gonfie vele. Abitavamo nello stesso edificio, in due appartamenti ereditati dai nostri genitori. Ce n’era anche un terzo, che apparteneva a Leone, ma naturalmente era vuoto.

Gabriele andò a lavorare nella ditta di mio fratello, Colomba e io ci mettemmo insieme e aprimmo una boutique che ottenne subito un discreto successo. I nostri sei figli (tre per una, i suoi maschi, le mie femmine) nacquero saggiamente ad anni alterni in modo che non ci fu mai bisogno di chiudere il negozio o di affidarlo a mani estranee.

In quel tempo mi ritenevo la donna più fortunata del mondo e lo stesso diceva di essere Colomba. Eravamo pienamente soddisfatte della nostra amicizia, del nostro lavoro, dei nostri figli e soprattutto dei nostri mariti.

Passavamo le feste e i momenti liberi sempre insieme; un’unica grande famiglia felice.

Ma non è bene per gli uomini (e le donne) mortali crogiolarsi troppo nella felicità, coltivare l’orgoglio e guardare dall’alto in basso la gente normale tormentata da piccoli e grandi problemi quotidiani. Gli dei, come è noto, accecano coloro che vogliono perdere. E quando il caos ci travolse eravamo totalmente impreparati…

(continua in libreria…)

 

© 2019 – Mondadori Libri S.p.A., Milano

Pubblicato su licenza di Mondadori Libri SpA per il marchio Piemme

mariti

L’ANTOLOGIA DI RACCONTI – Coniugi, compagni di vita, grandi amori: Mariti, la nuova raccolta delle autrici di Cuori di pietra e Il bicchiere mezzo pieno (sempre pubblicata da Piemme) propone tante storie e tante scritture diverse per raccontare, in un caleidoscopio di personaggi e avventure, le sfaccettature del rapporto a due. Un network di donne che si impegna a favore di altre donne, perché le parole diventino azioni e, in questo caso, buone azioni. Parlare di un argomento caro e noto a tutte, i mariti, per divertire, commuovere, far riflettere chi legge e per portare ancora qualche aiuto alle donne che, con o senza marito, ancora devono lottare per veder realizzato anche il desiderio più scontato.

Dalla fuga romanzesca di Agatha Christie a una moglie seriale che viene ripetutamente abbandonata, dalla visione matrimoniale di Cleopatra alla passione di Frida Kahlo, dalla donna che visse due matrimoni opposti con il desiderio di fuggire da entrambi alla possibilità di trovare la felicità dove non ci saremmo mai aspettati, ventisette nuove storie ironiche, drammatiche, reali o di finzione per raccontare amore e disamore.

Un libro scritto da donne per le donne. I diritti d’autore di questa antologia di racconti saranno interamente devoluti al nuovo centro di formazione aperto a Varanasi (India) dalla non profit Indiana Samparc e dalla Fondazione Italiana Belladona, per contribuire a creare un primo laboratorio di informatica. Il centro offre alle bambine l’istruzione necessaria per acquistare un’autonomia ed evitare così la piaga dei matrimoni precoci, che espongono bambine di 10-12 anni a violenza domestica e abusi sessuali.

Oltre a Bianca Pitzorno, nell’antologia (con la prefazione di Sveva Casati Modignani) trovano spazio Paola Barbato, Alice Basso, Danila Bonito, Daniela Brancati, Annarita Briganti, Luisa Ciuni, Maria Corbi, Donatella Diamanti, Tiziana Ferrario, Barbara Garlaschelli, Laura Laurenzi, Dacia Maraini, Patrizia Sardo Marras, Elena Mora, Valeria Palumbo, Maria Rita Parsi, Anna Premoli, Roselina Salemi, Nicoletta Sipos, Simona Sparaco, Neliana Tersigni, Rosa Teruzzi, Annamaria Testa, Silvia Vaccarezza e Nicoletta Vallorani.

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