“L’abito maschile corto contrapposto al vestito femminile lungo, l’impercettibile differenza tra l’uomo che si confronta con il lavoro e la donna con l’apparato decorativo”, scrive Georges Vigarello, storico e sociologo francese, che ha dedicato il suo ultimo saggio, “L’abito femminile. Una storia culturale” proprio alla storia degli indumenti da donna, dal Medioevo a oggi. E infatti, gli abiti indossati dalle donne vanno ben oltre alla moda: rappresentano la cultura e lo status della figura femminile nei secoli. E ancora oggi, sono ben più che “vestiti” – L’approfondimento

Gli abiti sono più di un artificio per ripararci dal freddo e l’abbigliamento femminile, soprattutto, è una rappresentazione nei secoli dello status stesso della donna.

“L’abito maschile corto contrapposto al vestito femminile lungo, l’impercettibile differenza tra l’uomo che si confronta con il lavoro e la donna con l’apparato decorativo”, scrive Georges Vigarello, storico e sociologo francese, che ha dedicato il suo ultimo saggio, L’abito femminile. Una storia culturale (Einaudi, traduzione di Anna Delfina Costanzo), proprio alla storia degli indumenti da donna, dal Medioevo a oggi.

Abbigliamento femminile

In un viaggio che porta il lettore dagli abiti ispirati alla perfezione geometrica del Rinascimento fino alla libertà delle forme che hanno caratterizzato la moda degli anni Venti, Vigarello racconta l’abito attraverso dipinti, immagini, fotografie, manifesti pubblicitari, ma anche tramite le parole di autori e intellettuali dell’epoca per rappresentare il valore culturale e sociale dell’abbigliamento femminile.

Se nell’abito “la donna non può essere ‘al naturale’. Le forme non possono riflettere l’anatomia”: è perché vi è una scissione culturale della figura femminile da quella maschile, che “orienta le une verso l’estetica e gli altri verso la funzionalità”.

abbigliamento femminile

Georges Vigarello

Un’estetica che non è facile da raggiungere, e che proprio dal Rinascimento richiede “un disagio o addirittura possibili sofferenze, per poterla meglio affermare”. Pensiamo a corsetti, sottogonne, crinoline e altri artifici per snellire e rimpicciolire il punto vita o per ampliare la gonna, in modo da rendere la figura femminile simile a due triangoli specchiati, che incontrano i loro vertici nel minuscolo punto vita.

Un trend che si riflette nella ricerca della magrezza, necessaria per poter sfoggiare una vita minuscola, ma che è anche “un’esigenza culturale: giocare con l’immagine del femminile, ricordare la fragilità di una donna il cui ruolo non potrebbe assumere né responsabilità, né esprimersi in lavori di fatica. La minutezza sarebbe una garanzia di delicatezza, un requisito tradizionale tradotto qui con maggiori strumenti e solide convinzioni”.

abbigliamento femminile

Un tema ancora oggi dibattuto, quello dell’ossessione per la magrezza, e letto come uno strumento tramite cui soggiogare le donne da alcune intellettuali, come ad esempio Naomi Wolf, che negli anni Novanta ne Il mito della bellezza (Mondadori, traduzione di M. Castino Bado) scrive: “Una cultura fissata con la magrezza femminile non rappresenta un’ossessione per la bellezza femminile, bensì per l’obbedienza femminile. La dieta è il più potente sedativo politico della storia delle donne: una popolazione placidamente folle è più facile da gestire”.

Vigarello con lucidità mette anche a confronto momenti di libertà intellettuale, come l’epoca dei lumi, e lo scarso interesse dimostrato dai rivoluzionari e dagli intellettuali per la figura femminile: “La parità tra uomini e donne affermata dagli enciclopedisti cela una profonda discrepanza nei comportamenti: l’uomo resta il protagonista dell’iniziativa. La donna quella in posizione arretrata: nell’universo domestico e del piacere”.

In quel periodo, però, avviene un piccolo ma importante mutamento sociale e culturale che Georges Vigarello sottolinea: alcune, pochissime donne, hanno accesso alla cultura e iniziano a porsi, e a porre, domande. Come Mary Wollstonecraft,che chiede: “Chi ha reso l’uomo giudice unico, se la donna condivide con lui il dono e la ragione?”.

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Mary Wollstonecraft

Vigarello prosegue il racconto dello sviluppo dell’abito femminile dando spazio ad alcuni movimenti nati dalle donne, come il bloomerismo, promosso da “Amelia Bloomer, una cittadina di Boston” che, “riprendendo il tema della parità di accesso a tutte le professioni da parte delle donne, propone una trasformazione del costume: ‘Gonna corta che non ostacoli il camminare, mutandoni lunghi per salvaguardare il pudore’”.

E continua spiegando come anche grazie alla nascita di nuovi posti di lavoro adatti alle donne, la figura femminile diventi più dinamica e nel Novecento sia la donna stessa a richiedere una riforma dell’abito: “Per la prima volta non è più l’artificio che costringe l’anatomia, ma l’anatomia che vincola l’artificio”.

Infine arriva ai giorni nostri, quando la moda ormai è alla portata di tutti e la società dei consumi ci permette di acquistare tanti abiti quanti desideriamo, sicuramente più di quanti ne abbiamo bisogno. Vestiti che ci fanno sentire noi stesse e che riescono a rappresentare la nostra personalità.

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Come hanno raccontato anche Sheila Heti, Hedi Julavits, Leanne Shapton e altre 639 donne nel libro Women in Clothes (Deckle Edge), che indaga il rapporto che abbiamo con i nostri vestiti. Perché “persino le scelte più basilari in ambito di abbigliamento ci danno sicurezza, dimostrano la relazione tra il nostro modo di apparire e la nostra interiorità, esprimono i nostri valori e ideali, ci legano ai nostri amici, o fungono da armature o travestimenti. Sono strumenti che usiamo per reinventarci e trasformare il modo in cui siamo viste dall’esterno”.

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