La scrittrice Ilaria Gaspari ha riletto per ilLibraio.it “Tre uomini in barca (per non parlar del cane)” di Jerome K. Jerome, romanzo (del 1889) che da bambina l’aiutò a superare una precoce ipocondria… E, come ci racconta, è rimasta colpita dal fatto che il libro abbia “esorbitato dal suo destino previsto, quello di guida turistica, espandendosi a dismisura, riempiendosi di racconti, aneddoti, riflessioni filosofiche…”

A nove anni ero sicura di avere la lebbra. Fu con niente di meno che questa immagine grandiosa e raccapricciante, che inaugurai la mia lunga e amichevole relazione con l’ipocondria. La ferrea convinzione di essere affetta proprio da lebbra era stata un risultato collaterale di una lezione sulla vita di Francesco d’Assisi: alzando la mano avevo chiesto, chissà perché, quali fossero i sintomi della malattia che il santo osò sfidare.

Ma per fortuna, per un caso forse pilotato dalla saggezza dei miei genitori che mi regalarono proprio allora Tre uomini in barca (per tacer del cane), mi imbattei in una cura efficace, se non per il malanno che ero convinta di aver contratto, per il più generale atteggiamento di malata immaginaria a cui, piuttosto precocemente, la mia immaginazione imbizzarrita mi aveva trascinata: il mio primo incontro con l’ipocondria coincise con il momento in cui, per la prima volta, scoprii lo humour inglese. E lo humour inglese, per l’ipocondria, rimane secondo me un’ottima terapia.

Tre uomini in barca è, per l’appunto, la storia di un ipocondriaco: ricordo il senso di delizia con cui, bambina neofita dei tortuosi tormenti dell’ipocondria, mi tuffai nelle prime pagine trovandoci esattamente quello che il vero ipocondriaco desidera: simpatia e distrazione. Il protagonista, Jerome detto J. (come l’autore, che nel chiasmo fra nome e cognome già ricava un effetto umoristico lieve e indefinibile fin dalla copertina) è convinto di soffrire di una quantità di malattie, di cui avverte distintamente tutti i sintomi dopo averne letto le descrizioni – incauto! – nelle voci di un’enciclopedia medica. J. è assolutamente certo di essere vittima di tutti i malanni elencati nel volume, con la sola, realistica eccezione del ginocchio della lavandaia. Arrivata alla fine del primo capitolo, alla mia lebbra non ci pensavo più.

A rileggerlo oggi, Tre uomini in barca resta un libro delizioso, una scampagnata nell’ozio più puro e più paradossale, proprio come la gita in barca che J., insieme a due amici scapoloni e ipocondriaci quanto lui, Harris – fine conoscitore di bettole e terrificante interprete di canzoni da operetta – e George il pigro, intraprende al fine di distrarsi dal preteso sovraccarico di lavoro che lo rende preda di ogni genere di malinconie. Partono insieme al fox terrier Montmorency, di aspetto angelico ma d’indole subdolamente dispettosa, e a una quantità spropositata di provviste che saranno protagoniste della memorabile ricetta dello stufato alla irlandese, leggendario piatto per la cui preparazione i tre amici, con il tipico entusiasmo di chi ha una fame tremenda e, nella dispensa, ingredienti scelti con metodo rapsodico, gettano in pentola qualsiasi cosa ottenendo una pietanza indescrivibile e molto nutriente.

Il viaggio lungo il fiume, che Jerome K. Jerome raccontò in realtà ispirandosi alla sua luna di miele in barca sul Tamigi, e sostituendo la figura della moglie, Ettie, con quelle dei due amici scapestrati per accentuare la comicità della situazione,  è il pretesto per il dispiegarsi di una serie infinita di divagazioni, di storie esilaranti incastonate le une nelle altre. Rileggendolo oggi, scopro che inizialmente il libro era stato pensato come una sorta di guida di viaggio, che illustrasse le bellezze dell’Inghilterra rurale e la storia delle cittadine lungo il Tamigi; scopro, anche, che la maggior parte delle locande descritte nel romanzo esistono ancora, e ancora oggi sono in attività, anche se probabilmente sarebbe sconsigliabile, adesso, bagnarsi nel fiume o addirittura cercare, come fanno i tre amici – con scarso successo anche loro – di fare il bucato nelle sue acque limacciose. Ma quello che mi colpisce, a rileggere oggi questo piccolo romanzo esilarante, è proprio il fatto che abbia esorbitato dal suo destino previsto, quello di guida turistica, espandendosi a dismisura, riempiendosi di racconti, aneddoti, riflessioni filosofiche in cui tutti si possono riconoscere; un destino comune a un libro ben più monumentale, e altrettanto, però, capace di far sentire immediatamente meglio il suo lettore: i Saggi di Montaigne, che nacquero come raccolta di massime e si trasformarono nel libro più grande che forse sia stato mai scritto su quel che significa essere uomini.

A Tre uomini in barca è toccata, ironicamente, e su scala ridotta, una sorte simile; l’umorismo ha travolto l’esposizione da guida turistica allargandola a un caleidoscopio di avventure che raccontano la vita nell’Inghilterra di fine Ottocento, ma fanno ridere anche oggi – con qualche incursione spassosissima nella storia ufficiale, come nel capitolo in cui l’autore, dopo aver letto su decine di libri e lapidi che questa o quella incantevole cittadina rurale sia stata teatro degli incontri fra Enrico VIII e Anna Bolena, si immagina lo sconforto dei paesani cinquecenteschi, esasperati dal fatto di incontrare ovunque la coppia di piccioncini.

Ma ci sono mille piccole storie divertenti, nel libro; storie di viaggi con formaggi mefitici, di cui è impossibile liberarsi tanto che, alla fin fine, il loro proprietario sarà costretto a seppellirli in una nota località della costa inglese, che grazie alla straordinaria puzza di quelle forme di cacio si guadagnerà la fama di stazione climatica rinomata per la cura delle malattie polmonari; storie di famiglia, come quella dello zio Podger che per appendere un quadro getta il trambusto su una schiera di zie e nipoti; leggende di pesca e di vanagloria, si inseguono fra le pagine, raccontate con un’ironia leggera che non cerca mai l’effetto spettacolare, l’esagerazione, il paradosso eccessivo ma solo un tranquillo, sornione distacco dal coinvolgimento più viscerale con la realtà, senza però perderla di vista; quel minimo scarto che permette di distrarsi dai propri malanni e di vedere quanto la realtà faccia ridere.

L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, classe ’86, si è diplomata in Filosofia alla Scuola Normale di Pisa e ha debuttato nel romanzo con Etica dell’Acquario (Voland).
Qui i suoi articoli per ilLibraio.it.

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