“Le regole dell’attore, per me, sono state anche le regole dello scrittore…”. Enrico Ianniello, al debutto per Feltrinelli con “La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin”, racconta a IlLibraio.it la sua prima volta da romanziere

Io mi chiamo Enrico Ianniello e sono un attore. Questo è il mio mestiere, quello che ho studiato – alla Bottega Teatrale di Vittorio Gassman prima, in scena per più di dieci anni con Toni Servillo, poi – ed è la materia che frequento quotidianamente. Ho tradotto per il teatro, ho diretto per il teatro, ho diretto un teatro. Teatro, teatro, teatro. E poi il cinema e la televisione. Adesso, un romanzo. Oh, oh. Stooop! Un attimo. Un che? Un romanzo? Romanzo proprio? Cioè – citando il grande attore/autore Leo De Berardinis, “Dostojevskij era scrittore, e mó tu pure sì scrittore?!?” Bella domanda, ma questo lo lascio decidere a voi. Succede che mi hanno chiesto di elencare le dieci cose che scopre un attore quando scrive un romanzo; ma io – ad esser sincero – ne ho scoperta una sola, e ve la diró alla fine. (Avete visto che trucchetto da scrittore consumato?) I più intuitivi, però, forse la capiranno prima di arrivarci.

Enrico Ianniello

Enrico Ianniello

Le dieci scoperte dell’attore Ianniello alla prima prova da romanziere:

1) È un lavoro pesante
Faticoso, noioso, povero; richiede pervicacia, concentrazione, solitudine e sguardo sugli altri, oltre che un approfondimento continuo. Il “momento di gloria”, quando c’é, occupa solo una piccolissima parte di questo lungo, costante, ineludibile impegno. Per il resto, bah, una bella fatica. Bella sí, ma fatica vera. Per citare mio fratello: “Ma non ti bruciano ‘e cervelle?”

2) Bisogna alternare sempre la scena e il tavolino
Rimanere troppo su una di queste due componenti (esibizione e riflessione) è rischioso! Si può cadere nella guitteria di bassa lega – rincorrere cioè esclusivamente il gusto del pubblico piegandosi solo al suo volere senza osare, senza proporre mai nulla di diverso – o, nel caso contrario, nella torre d’avorio espressiva: questo è il mio mondo intellettuale; chi lo capisce è fortunato (preparato) sennó peggio per lui. Ci arriverà. Questa seconda ipotesi è pure percorribile, ma devi veramente essere certo della novità e della bontà di ciò che conservi nella torre! Ti devi chiamare, per dire, Samuel Beckett.

3) È necessario decidere la propria relazione con lo spazio

Come entra in scena il tuo personaggio? Come si muove? Riempie lo spazio intorno a sé o lo rifugge in cerca di una tana, come uno scarafaggio? Seppure optasse per questa seconda ipotesi, “riempirebbe” lo spazio, espressivamente, con la sua “vuotezza”? Perché, nel caso contrato, sarebbe solo anonimo, scialbo, invisibile. E questo non va bene, se la sua invisibilità non inchioda lo sguardo degli spettatori. Deicidi in che spazio ti muovi, e come lo fai!

4) La voce
Stesso discorso del punto 3, ma legato all’aspetto più peculiare, più caratterizzante di quest’arte: la voce. Come parli? Con quale voce? La tua? Forse però la tua voce – sic et simpliciter – è poco. È “solo” la voce della tua persona. Come parla, invece, il tuo personaggio? Quando si innervosisce “schiaccia” le corde vocali? O “instridulisce” (che parolina inventata, eh?) Quando si innamora, che voce ha? E quando parla in pubblico? E quando fa l’amore?

5) La parola
Il punto 4 parlava dello strumento, ora parliamo dello spartito. Che note suona meglio il tuo personaggio? È più giusto per Mozart o per Ligeti? Ha uno spirito beethoveniano? Oppure è un mandolino, intriso di napoletanità? E – in questo caso – come suonerebbe Wagner? Il mandolino che suona Wagner!? Scusate, la metafora mi ha preso la mano. Ma una Cavalcata delle Valchirie suonata da un’orchestra di posteggiatori di Forcella avrebbe evitato alcune delle peggiori tragedie dell’umanità, mi sa.

6) Tecnica e sensibilità
Bisogna assolutamente impastarle! E sfruttare la tecnica ” to deliver” come dicono gli attori inglesi, per consegnare la sensibilità – attraverso il testo – agli spettatori. Guai fare solo dimostrazioni di pura tecnica; così ci si avvicina al lavoro dei contabili, si va verso un dominio della razionalità nel luogo deputato del mistero (!) e si rischia la pedanteria, la glacialità delle cifre, l’esibizione fine a se stessa. E non siamo, allo stesso tempo, nel posto in cui far esclusivamente sfoggio della propria smisurata sensibilità, col rischio di presentarsi al pubblico ricoperti dei propri muchi e placenta, come un neonato.
Vabbè, dai, ho deciso di dirvi la scoperta che ho fatto prima di arrivare al punto dieci, mi sa che ormai ci eravate già arrivati da soli. Le regole dell’attore, per me, sono state anche le regole dello scrittore. Questo, ho scoperto. Mi si dirà che sono regole generali dell’espressione artistica, che andrebbero bene anche per un pittore o un pianista. E infatti io sono d’accordo con chi dovesse dirmi questo. Ora, tornando all’elenco, potrei tediarvi con altre venti o trenta di queste riflessioni, perché il mio lavoro lo amo. Ma non abbiate paura: il senso dello spettacolo mi salverà dal rischio del punto seguente:

7) Il descrittivismo inesausto
Questa calzante definizione di Maria Pia Pozzato inquadra, in letteratura, quella scrittura che si attarda nel descrivere incessantemente, continuamente, fino all’ultima crepa del portone per poi passare alla plastica rigata delle sedie e, da lì, alle increspature della foglia che solo io – autore – vedo e descrivo con tale precisione poetica. Ecco: attenzione a questo fenomeno, attore! Se godi tanto del modo in cui ti rigiri quel fazzoletto tra le mani, quel modo strano e curioso che proprio tu hai inventato! – magari copiando e potenziando un gesto dopo averlo visto in piazza – beh, quell’invenzione teatrale sta diventando la tua gabbia. Noi spettatori allora ti osserveremo attraverso le sbarre, ma il tuo “to deliver” ne sarà irrimediabilmente danneggiato.

8) Ritmo!
Ecco la medicina, se hai contratto la malattia del punto precedente. Non vuol dire andar di corsa, ma sapere da dove parti e dove vuoi arrivare e andar dritto sulla strada del tuo racconto. Userò un’altra espressione inglese, solo per fare un po’ il figo: straightforwardness. Come la freccia: all’ingresso in scena l’hai scoccata, adesso imitala; vai dritto al bersaglio.

9) Verità e finzione
Argomentino da niente, proprio per mettersi nella condizione di dire qualche stronzata. Come eviterò – spero – il rischio? Con una citazione. Alla fine di una bellissima edizione dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di qualche anno fa, Carlo Cecchi faceva scendere in scena una gabbietta con un finto pappagallo che ripeteva, con la sua voce gracchiante, la domanda campale: Verità? Finzione? Verita? Finzione? Verita? Finzione? La risposta non c’è. O forse non ci sarà mai nell’univocità di uno dei due addendi, ma solo nel loro risultato, nella loro somma. Nel loro costante inseguirsi e trasfondersi, questo mi piace pensare.

10) Gli applausi sono ancora spettacolo
Avete presente quegli attori che arrivano in proscenio con la faccia serissima, come dicendo “ahó, ve l’ho ammollata, eh?”, oppure stravolti, come chi ha attraversato la Manica a nuoto e con una gamba sola e una narice tappata, e tu povero spettatoruccio, non potrai mai capire lo sforzo inumano che ciò è costato? L’attore che, unendo tecnica e sensibilità, voce e corpo, spazio e interiorità, ha invece attraversato soltanto – si fa per dire – la soglia di un mistero insieme al pubblico, e ne è tornato dopo essere sparito dietro il sipario che si richiude, dopo essersi asciugato il sudore, ecco, quell’attore prende gli applausi come piace a me, ringraziando chi ha contribuito almeno per metà alla riuscita di quello spettacolo: il pubblico. Volete un esempio? Per rimanere in questa sinestesia sbilenca che ha informato i dieci punti, vi citerò un direttore d’orchestra: andate a guardare come prendeva gli applausi Claudio Abbado. Sembrava dire con gli occhi, al pubblico e all’orchestra: grazie di avermi fatto capire qualcosa in più, stasera. Eppure la Manica, a nuoto, l’aveva attraversata lui.

© Enrico Ianniello 2015

Feltrinelli

 

IL ROMANZO: Ianniello è al debutto nel romanzo con “una storia in bilico tra la fiaba e un realismo magico e comico”. Il protagonista del libro,  Isidoro Sifflotin, nasce nella casetta di Mattinella, che sta su da trecento anni e “non crollerà mai”: il prodigioso guagliunciello  affina una dote miracolosa, ricevuta non si sa come da Quirino – il padre strabico, poetico e comunista – e da Stella, la mamma pastaia. Qual è questa dote? La più semplice: Isidoro sa fischiare, e fischia in modo prodigioso. Con il suo inseparabile merlo indiano Alì dagli sbaffi gialli, e l’aiuto di una combriccola stralunata, crea una lingua nuova, con tanto di Fischiabolario, e un messaggio rivoluzionario comincia magicamente a diffondersi. Proprio quando il progetto di un’umanità felice e libera dal bisogno sta per prendere forma, succede qualcosa che mette sottosopra l’esistenza di Isidoro. “Tutto quello che cresce si separa”: con addosso questo insegnamento di mamma Stella, Isidoro, ormai ragazzo, scopre Napoli e si imbatte, senza neanche rendersene davvero conto, in un altro linguaggio prodigioso e muto: quello dell’amore (dalla scheda).

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