“Il grande cielo” è il libro con cui il critico, editor e traduttore Alberto Rollo torna in libreria, e che non a caso ha per sottotitolo “Educazione sentimentale di un escursionista”: è la storia, a metà fra la biografia e la formazione, di un uomo di pianura e di metropoli che ha sempre guardato alla montagna per amor di valico, di salita, di cielo. Ed è la storia di come quell’uomo ha sempre sentito il camminare “in salita” come un’avventura che, senza trasformarsi in “specialità sportiva”, ha nutrito l’immaginazione e il sentimento – Su ilLibraio.it il capitolo “Uomini di libri”

La ricerca di un posto nel mondo per sopportare il grigio del quotidiano, la montagna come educazione alla vita e via di fuga, con il suo cielo pieno di nuvole, pieno di sogni: questo è Il grande cielo (Ponte alle Grazie, in collaborazione con il CAI) di Alberto Rollo, scrittore, critico ed editor milanese.

Operatore culturale e appassionato di musica, Rollo è anche il traduttore, fra gli altri, di Jonathan Coe, Steven Millhauser, Truman Capote e Henry James, e ha pubblicato Un’educazione milanese (Manni, 2016, finalista al Premio Strega 2017), L’ultimo turno di guardia (Manni, 2020, Premio internazionale L’Aquila, terna finalisti Premio Napoli) e Il miglior tempo (Einaudi Stile Libero, 2021).

Ora torna in libreria con un testo che, non a caso, ha per sottotitolo Educazione sentimentale di un escursionista: è la storia di un uomo di pianura e di metropoli che ha sempre guardato alla montagna per amor di valico, di salita, di cielo. È la storia di come quell’uomo ha sempre sentito il camminare “in salita” come un’avventura che, senza trasformarsi in “specialità sportiva”, ha nutrito l’immaginazione e il sentimento.

È anche un’avventura, quella del “guardare in su”, della conquista del cielo a cui siamo appoggiati più di quanto non siamo appoggiati sulla terra; di come le forme ci accompagnano in quel moto ascensionale, di prato in roccia, di bosco in pietraia, di malga in solitudine.

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Ed è, appunto, la storia di un’educazione sentimentale, ma insieme la storia di come quell’uomo ha imparato a leggere la montagna, non solo attraverso l’apprendimento del cammino ma anche attraverso il filtro della pittura, della musica, della memoria locale, dei racconti orali. Che cosa sia un sentiero, lo si sa quando se ne perdono le tracce. Alberto Rollo quell’uomo di pianura e di metropoli lo conosce bene, perché gli somiglia, e somiglia a quanti gli sono stati compagni in quell’avventura…

Copertina del libro Il grande cielo e foto del suo autore, Alberto Rollo

Alberto Rollo – foto di Claudio Sforza

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un capitolo del libro:

Uomini di libri

Ebbene sì, sono «uomo di libri», non ho mai fatto altro, né ho mai voluto fare altro: mi è sempre piaciuto stare dove nascono le opere dell’ingegno, l’ingegno dell’immaginazione e l’ingegno del pensiero. Mi è sempre piaciuto trovarmi agli incroci dove il destino delle idee va a cercare le parole e le parole creano spazi di cui non si fa fatica a riconoscere l’abilità.

Sono entrato in quel mondo quando il libro era solo carta stampata, ogni pagina veniva montata in caratteri di piombo, e sui caratteri di piombo passavano oleosi gli inchiostri, il tutto sotto lo sguardo di quella sorta di guida alpina che era il proto. Ho appeso a una parete di casa una sequenza di grandi caratteri (che ho cercato di ripulire, ma il legno è ancora impregnato di inchiostro) e non è un caso che poco distante sia appoggiato un superbo bastone di carpine.

Che il libro di carta sia un prodotto tecnologicamente perfetto non toglie spazio al futuro, e del futuro non ho paura, né di nuove modalità intese a esercitare la pratica della lettura (e resteremo a bocca aperta quando, come fosse l’uovo di Colombo, scopriremo che la trasmissione del sapere e dell’immaginazione avrà trovato una nuova configurazione non confinata, tolta la carta, alla mera imitazione della forma del libro). Detto questo, sono per l’appunto, «uomo di libri» – mi piace questa definizione così estranea alle strette dinamiche aziendali.

Alberto Rollo

I libri, o meglio quello che i libri contengono, hanno qualcosa degli ometti di pietra che segnano il percorso in quota. Hanno quella bellezza lì, hanno quella incerta stabilità che ci guida. Così mi piace immaginarli, ciascuno con il proprio spirito, ciascuno con la propria identità, messi lì ad attenderci per avere contezza della strada invisibile. Sono tutti utili. Tutti, anche quelli realizzati con quattro pietre. La similitudine non può andare oltre, ma l’attenzione e il tempo che mi rubano, talvolta, certe creazioni stilisticamente bizzarre, mi commuovono come mi scuotono gli snodi di un racconto, la malizia di un ardito giro di frase, la sorpresa di un sentimento che mai mi sarei aspettato dicibile con quelle parole, in quel punto dell’accadere.

Uomini di libri. Ne conosco più d’uno che ha scelto la montagna. Ma nessuno come lui.

«Non vivo sempre qui. Non faccio il montanaro» tiene a precisare. «Diciamo che stare qui mi serve, che qui mi preparo». Chiedere a cosa suonerebbe quasi sconveniente. Mi ha già detto molto più di quello che mi aspettavo. Sono venuto a trovarlo in questo stretto vallone che si spicca dalla già angusta e severa Valsesia.

Sediamo all’aperto su una panca di legno lunga come tutta la facciata della casa. Ne spio il profilo, credo di riconoscerlo, così affilato, grandi sopracciglia, calvizie appena accennata, capelli bianchi tagliati corti corti alla marine. Appare la moglie, come tale si presenta, con un foulard annodato sotto il mento. Mi pare che sorrida ma non ne sono sicuro. Lui non le dà spazio, né lei sembra volerlo. Ha portato fuori un vassoio con due bottiglie. «La birra va bene, se non ricordo male?» Ricorda benissimo e quindi dico di sì, anche se nel frattempo la birra è uscita dalle mie consuetudini.

Una massa bianchissima di nubi trascorre con indolenza sulle cime, dall’altro lato della valle.

È stato un grande «uomo di libri», ha seminato ometti di pietra sulla sua strada e così facendo ha trasformato la
sua nella nostra strada.

«Si sta bene, qui», e io acconsento. Si fa fatica a spiare oltre il poggio le cime che, prima di salire alla baita, graffiavano il cielo, in fondo in fondo.

Dice che da lì, che da lontano, il suo mestiere gli appare più visibile. Ogni tanto sogna di veder volare carte, fogli che non sarebbe mai stato possibile sottrarre al vento. Dice che, nel sogno, sente una specie di allegria, di festa. Niente va perduto. Si ritrova con uno delle migliaia di fogli fra le mani, legge e riconosce la pagina di un sussidiario. «Bella scena, eh. Si torna sempre lì, dove abbiamo cominciato».

Mi dice che sono pochi gli scrittori con cui ha ancora rapporti, e dice che è giusto così. «Facciamo un mestiere che ha a che fare con le ombre».

Si fa cupo. Il suo sguardo accigliato mi fa pensare a un professore del ginnasio che imputava alla improprietà del lessico una reductio morale: si stizziva di fronte alla povera replica del linguaggio televisivo, correggeva le banalità, le povertà di senso, e gli piaceva far sentire il giro di una frase come poteva cambiare se governato da un caldo dominio della sintassi. Gli piaceva l’espressione «carezzare un sogno», con cui colmava la piattezza dello «sperare», del «volere», dell’«augurarsi».

«Io non so» continua «se ho messo un punto, e del resto tutti i segni di interpunzione, il punto compreso, non rallentano nulla, non interrompono».

Faccio cenno di sì.

«Ah, siamo figli delle metafore, non possiamo farne a meno, ci piovono addosso, caro mio».

Ecco l’ha detto: «caro mio». Faceva parte del suo intercalare affettuoso, quando mi accadeva di frequentarlo a Milano.

Se penso alla imbarazzante invadenza dell’aggettivo «caro» speso da baristi, tassisti, commercianti, quel «mio» ne riaccende la proprietà confidenziale, l’implicita rassegnazione che formicola nell’epiteto.

Mi chiede cosa sto leggendo. Perché è così che va: fra uomini di libri si parla di libri, perché i libri sono i loro ometti di pietra. Ho con me Oblomov di Gončarov. Gli dico che non finisce mai, che è una lettura infinita. Non solo: gli dico che, una volta chiuso il volume, mi restano appesi alla memoria solo dettagli.

Sorride.

«I russi non ci danno pace» dice vagamente amaro, e poi arriva, a proposito di dettagli, all’episodio che lo riguarda, e che ha a che fare con il personaggio di Levin nell’Anna Karenina di Tolstoj. «Levin si prepara ad andare a chiedere formalmente la mano di Kitty. L’incontro avverrà la mattina dopo. È arrivato il momento così atteso. Ti ricordi? Ha preso una stanza in una locanda. La notte non dorme, aspetta che arrivi l’alba, e poi con un senso di pace e di fraternità riconosce il profumo del pane sfornato, e quel profumo lo dispone all’impresa con serenità. Quando ho voluto tornare su quel passo, sono andato cercando il buon profumo di forno e non l’ho trovato: di tutto quel pane c’è solo una riga. ‘E da una vetrina odorò del profumo di pane cotto e furono esposte le sàjki…’ Il guaio» insiste «è che la frase continua così: ‘Tutto questo insieme era così straordinariamente bello, che Levin si mise a ridere e a piangere dalla gioia’. Levin, caro mio, era così felice che fra poco Kitty si sarebbe impegnata ad amarlo per tutta la vita che tutto sapeva di buono. E per me era come se quel sentore di forno durasse tre pagine, o più, come se non avesse dovuto finire». Riprende fiato, mi versa della birra, gli trema la mano. «Quel che ci resta è quel che trasforma per sempre i nostri sensi e io ho continuato ad associare il profumo di pane appena sfornato al cuore che si gonfia, alle speranze che trovano una strada».

Foto di Alberto Rollo

Alberto Rollo (foto di Claudio Sforza)

Poi ritorna al mio Oblomov e ci diciamo che se l’avessimo voluto veramente felice l’avremmo dovuto lasciare dove era nato. Mi lancia un’occhiata e poi torna a muoversi insieme allo sciame dei suoi pensieri, e quello sciame è come se mi avesse contagiato prima di muoversi caoticamente nella sua testa. «Si resta dove si deve stare. Penso al brolo di Rigoni Stern e al suo Arboreto salvatico. Mi sarebbe piaciuto essere il suo editore» ammette.

Naturalmente l’ha conosciuto ma, come mi dice ora, ha sempre avuto una sorta di imbarazzo ad avvicinarlo, e insomma una vera conversazione con lui non l’ha mai avuta, e se ne rammarica.

Ora il profilo scavato, alla Max von Sydow, pare perdere severità, durezza. E anche il modo in cui mi parla attinge a un vocabolario, a una cadenza che non sono quelli di prima. La moglie è sparita, anzi in verità non si è neppure presentata, né lui si è preoccupato di presentarla. Me la immagino seduta su un divano o ad armeggiare in cucina. Sul vassoio che ci ha portato ci sono dei biscotti fatti in casa, palesemente incompatibili con la birra. Arriva anche una musica che tuttavia non resiste, come se qualcuno abbassasse il volume sino a farla scomparire.

«Ma tu» chiedo «ne pianti di alberi?»

«No, caro mio, troppo tardi, e non ho figli».

È allora che mi rendo conto della sua impalpabile eleganza: sono io che gliela attribuisco o è matericamente vera? Porta pantaloni di cotone verde chiaro, una camicia bianca, un golf azzurro gettato sulle spalle, ai piedi delle Superga d’annata.

Ora gli brillano gli occhi, mi chiede che cosa ho in mente.

Dico: «Io sto bene a Milano».

«Che cosa hai in mente?» ripete lui, placido, interlocutorio.

Si alza, lascia la panca e se ne va – in casa, immagino, ma passa troppo tempo e non lo vedo riapparire. Cosa può essere successo, mi chiedo. Lo chiamo dalla soglia. Silenzio. Non c’è nemmeno la moglie. Forse non devo preoccuparmi, ma è più forte di me. Giro intono alla bella costruzione in pietra e legno, noto i vasi di fiori agganciati alle finestre alte, due finestre per essere esatti. Forse è salito di sopra. Mi rendo conto che sino a quel momento non ho visto nulla, non ho visto come la baita è stata ritoccata con discrezione: le parti in legno chiaro si mescolano alle travature originali, molto scure. Come spesso accade nell’architettura di montagna, la baita è incassata nel pendio a prato. Il bosco comincia poco sopra ed è soprattutto di abete rosso. Ci sono altre piccole baite più a valle, dove i residenti governano il pascolo: capre, per lo più. Sono arrivato per un sentiero che sveltisce la salita, ma noto ora il tracciato di una strada bianca: auto non se ne vedono, solo un piccolo trattore poco più sotto. Non può essere andato che lì, mi dico, e scendo a investigare. Nessuno. Ed è allora che lui compare ai confini del bosco con un fascio di legna tra le braccia. «Senza questa ramaglia il fuoco fatica ad accendersi» dice quando sono a tiro di voce.

Le folte, lunghe sopracciglia mi sembrano sfoltite, la piega della bocca più morbida, il grigio chiaro degli occhi vira verso un azzurro pallido, sofferente, ottuso.

«A volte penso che non merito una donna così al mio fianco ». Non ribatto dicendo «Anch’io». La vita è andata così.

In pochi minuti è invecchiato, ha perso baldanza, contegno. Ha questi rami secchi tra le braccia e non sa che fare.

«Ti do una mano» dico, e lui: «Sei mai stato a Vetan?».

Non riesco a collocare. Suona certamente francese, ma contiene anche una sfumatura esotica: Vietnam, Birmania, persino Giappone.

«In linea d’aria non è molto lontano da qui. Per un certo periodo ci andò in vacanza Lalla Romano».

Ho letto i romanzi di Lalla Romano, mi ricordo il libro fotografico Ritorno a Ponte Stura, ho familiarizzato con la ruvida retorica delle sue montagne che sembrano aspettare di respirare quando per l’appunto si arriva a Demonte, dove la Romano è nata. Non lontano da quelle dell’amico Davide ‘Bramard’, che d’altro canto era stato ispiratore di questo trasferimento.

Ci sono stato sulle sue montagne, quelle della Romano ma anche quelle di Davide.

«Non sono mai stato a Vetan» dico, mescolando gli occhi scuri e profondi di Lalla Romano e il Vietnam di Vetan.

«Stava in un albergo con una grande terrazza di legno, da dove si contemplavano senza fatica i monti sull’altro versante della Valle d’Aosta. Non era più una ragazza. C’è una foto che la ritrae di spalle, bellissima. Pare concentrata sulla visione dell’altro versante».

La signora insciallata, seduta sulla sedia di vimini, aveva dinnanzi a sé, insieme alle cime della Val Grisenche, la gobba del ghiacciaio del Rutor.

«È impressionante, affiora come una nuca, come il dorso di una mano, come una nube, ed è là immobile, chissà ancora per quanto».

Dico che il Rutor lo conosco, ma dalla Belle Combe, da La Thuile.

«Ci si sale da La Thuile» dice, «ma per lei, e da lì, era solo visione, e una visione che la contentava come ti contenta un sogno che è lì lì per spegnere quello che ha da dirti. E infatti sembra dire ‘Da lì si passa’. Parlava così piano. Mi piace attribuirle quella frase anche se non ho idea se l’abbia detta veramente. Va da sé che se vai a Vetan non puoi avere dubbi: da lì si passa».

Mi accorgo che ha giocato una carta pericolosa, che lo espone a una simbologia troppo esibita. Da quando si è ritirato a vivere qui, si è imposto di non attribuire alla montagna valori che mal sopporta.

«Stare in montagna mette pace nei miei pensieri. Niente lacanismi, niente sofismi, niente rovesci di cultura per farle dire altro da quello che dice. E più si invecchia, più bisogna essere severi con sé stessi e con le nostre emozioni».

Si concede qualche battuta, Io intanto ritorno al Rutor come lo avevo avvicinato io, alla sua terribilità.

«Invecchiare è un fastidio permanente e non sai dove vai a finire».

Me lo dice perché abbiamo evocato l’immagine di una scrittrice anziana sorpresa dall’obiettivo in una arresa contemplazione.

La foto è appesa sopra la madia nella baita. Me la mostra dalla finestra.

«Si vede, no?»

Non capisco cosa mi sta chiedendo: se si vede la foto o altro. Entriamo e punta il dito sull’immagine: «Si vede. Si vede la gobba bianchissima del Rutor».

Che da lì si passa è evidente, ed è un varco che forse abbiamo già sognato molte volte, e che non fatico a intendere.

Si preoccupa di aver usurato una simbologia già di per sé tanto eloquente, la vuole svuotare subito e propone di passare ad altro.

«Sai» mi dice, «è da un po’ che mi trovo a misurare il tempo». Sbuffa. «Che scemenza». Forse aspetta che io lo incoraggi, o forse si sta solo concentrando. È una modalità che rammento dal periodo della sua piena attività professionale. Sospeso fra interlocutore e interiorità. Sospeso con garbo e piena coscienza dell’altro. Esita ancora, scuote il capo e poi continua: «Quando mi dico: manca un quarto d’ora prima di uscire di casa e non ho niente da fare, quando ho davanti un’attesa che non è piena d’altro che di attesa, quando mi do un obiettivo che si perde perché avrei bisogno di più tempo, ecco, è come se quel poco tempo, quel quarto d’ora, quella informe attesa fossero pura perdita, intermezzo senza musica, emorragia, materia che si smarrisce dentro una durata che so essere diventata così breve che la vedo, che la sento».

Si strofina i polpastrelli.

«C’è un’aria nel Rosenkavalier di Richard Strauss che lo dice bene, quando la Marescialla Marie-Therese, principessa di Werdenberg, davanti al suo giovane amante si ripete che il tempo è una strana cosa, ein sonderbar Ding: impercettibile fino a un attimo primo, di colpo ecco che lo sentiamo, eccolo intorno a noi, eccolo dentro di noi, dentro gli specchi, sui volti, nelle tempie. E allora si sveglia nel mezzo della notte e vorrebbe fermare tutti gli orologi. Io, allo stesso modo, ci sono momenti che lo sento affrettarsi inutile e consumare quel che resta di sé».

«Lo so» dico io. «Mi succede».

«Che tortura». Spia il cielo, aggiusta le mani incrociate in mani giunte, sembra concentrato su un pensiero. «A questo punto, mi piacerebbe fumare una sigaretta…»

«Da quanto non fumi?»

«Da quando ho tradito mia moglie».

Non mi sarei mai aspettato un’uscita di questo tenore e non so che faccia fare. Infine la fa lui la faccia, e già non somiglia più a quella dal profilo secco che avevo messo a fuoco: sembra quasi rotondetta, buffa. È di fatto l’uomo che si è lasciato prendere in castagna da sé stesso. Cerca in fondo alla tasca della giacca e ne trae una sigaretta. «E questa» ridacchia «non vuol dire che la stia ancora tradendo. Sono un vecchio signore».

(continua in libreria…)

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