Dopo il successo di “Le mamme ribelli non hanno paura”, Giada Sundas torna con un nuovo libro, “Mamme coraggiose per figli ribelli”, in libreria dal 24 maggio. Su ilLibraio.it il capitolo “Ricordati di santificare il prosecco”

Dopo il successo di Le mamme ribelli non hanno paura, Giada Sundas, mamma amatissima sui social (e collaboratrice de ilLibraio.it: qui tutti i suoi articoli, ndr), torna con un nuovo libro, Mamme coraggiose per figli ribelli, in cui parla, a modo suo, del mestiere più difficile del mondo: fare la madre. Con la sua inconfondibile vena ironica, l’autrice esorta a mettere da parte la ricerca della perfezione e lasciare che sia il tempo trascorso con i nostri figli l’unico manuale di cui fidarsi per vivere appieno e regalare l’amore più puro che esista.

Giada è mamma di Mya, una vivace bambina di tre anni. Da quando l’ha abbracciata per la prima volta, la sua vita si è trasformata in un’altalena di momenti indimenticabili e crisi impreviste che nemmeno il più illustre manuale del genitore provetto insegna ad arginare. E se superato il primo anno di pappe, strilli indecifrabili e rigurgiti imprevisti si crede che il peggio sia passato, ci si sbaglia di grosso. Nessuno lo sa meglio di Giada. Ora che sua figlia cresce un poco ogni giorno, le sfide quotidiane si moltiplicano. Perché è dai due anni in poi che inizia la vera ribellione dei figli, una tacita dichiarazione di guerra alle madri e alla loro pazienza infinita. Ninna nanne e pannolini sono niente in confronto alle storie della buonanotte che sembrano non finire mai, ai “perché” che entrano in testa come tormentoni estivi o ai “no” che diventano mantra e unica risposta a tutte le domande. Per non parlare poi delle gite in piscina, vere e proprie discese agli inferi, dove bisogna inseguire i figli con la crema solare o improvvisarsi bagnini per impedire loro di bere tutta l’acqua delle vasche.

Giada si è presto resta conto che in questi casi non c’è da allarmarsi se non si ha la soluzione giusta a portata di mano. Perché quando si tratta di fare la madre non esistono rigide istruzioni o consigli insindacabili. Ci vuole solo coraggio a volontà. Il coraggio di accettare che ci sono giornate in cui tutto fila liscio come l’olio e giornate in cui non si vede l’ora di spegnere la luce per non sentire più strilli insopportabili. Di affrontare ogni cosa un passo alla volta, seguendo il proprio istinto di madre e anche sbagliando. Perché l’imperfezione è l’unica regola universalmente valida. Proprio quell’imperfezione che scalda il cuore quando un figlio si avvicina e si lascia sfuggire un “ti voglio bene anch’io” e fa sorridere di fronte alle sue ribellioni quotidiane, dalla maglietta indossata volutamente al contrario alla modalità muso lungo per sempre ai capricci dal tempismo perfetto passando per il gelato spalmato sulla maglietta, il mal di pancia da indigestione di caramelle e quella favola preferita ormai raccontata migliaia di volte…

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

RICORDATI DI SANTIFICARE IL PROSECCO

Quando ero bambina pensavo che l’obiettivo di una donna adulta fosse possedere tutti gli accessori di Barbie. Mi sembrava una prospettiva felice quella di una vita con il Maggiolone, il cavallo e la villa a Malibu con l’ascensore e una cucina che non avrei mai usato perché mi sarei nutrita di barrette Pesoforma e acqua detox. Barbie era perfetta e aveva una vita perfetta insieme al suo fidanzato senza pene e la loro bambina venuta al mondo in circostanze inspiegabili.

Io a ventiquattro anni ho una Smart, un coniglio nano di nome Raimondo e un appartamento che affaccia su un campanile, con una cucina che non ho mai usato perché mi nutro di piadine. Su alcuni aspetti della mia fanta-vita devo ancora lavorare, però ho una bellissima bambina come quella di Barbie e un fidanzato con lo scroto.

La maternità ha prosciugato quasi tutta la mia forza vitale. Nel primo anno in particolare, sono state più le volte in cui avrei voluto scappare che quelle in cui mi sono sentita appagata dalla vita. Sono sopravvissuta trascinandomi verso un futuro che ho immaginato meno faticoso, più autonomo e con i sonni ristoratori d’altri tempi. Lo percepivo come un periodo di transizione,

sapevo che il meglio doveva ancora venire, che la prospettiva era buona, che sarebbe stato tutto più facile quando la bambina fosse cresciuta: la mia vita perfetta avrebbe di certo ingranato quando mia figlia avrebbe raggiunto l’età di quella di Barbie.

Poi è successo. Il tempo è passato e mia figlia ha compiuto due anni. Due anni che ho vissuto e che ricordo giorno per giorno, due anni trascorsi con lentezza inesorabile – altro che «sembra ieri che è nata»: sembra ieri per quelli che non l’hanno partorita e allevata in modo esclusivo e senza pause. Io ero esausta, ma intravedevo sprazzi di luce in questo traguardo. Le fasi di crescita dei bambini ti spingono sempre verso l’ignoto, sai quello che lasci ma non quello che trovi e, quasi sempre, quando immagini che la fase successiva sarà meglio, ti trovi poi a rimpiangere quella precedente. Addentratami nel mondo dei duenni ho guadagnato il sonno regolare e continuativo, il pensionamento del passeggino e pasti autonomi prevalentemente recapitati in bocca con minime dispersioni. Non avendo letto con cura le note a piè di pagina, però, mi sono ritrovata anche con un sacco di «no» e di «perché», e tanta rabbia infondata. Improvvisamente mia figlia si era mutata in un essere irascibile, pieno di frustrazione, e due terzi della giornata trascorrevano tra pianti e crisi isteriche. Era come muoversi in un campo minato: una parola o un’azione sbagliata innescavano un’esplosione di rabbia e una valanga di altre a seguire. Non rideva mai, neanche quando facevo gli gnocchi.

I motivi di isterismo erano molti: il cibo non finito che, al termine del pasto, veniva buttato, salvo poi divenire oggetto di smanie una volta nel secchio dell’immondizia; l’interruttore della luce schiacciato da qualcuno di non autorizzato: per esempio, quello delle scale spettava alla mamma e quello del salotto al papà e, se qualcuno si sentiva così audace da accendere una luce non sua, si scatenava una guerra; un bacio dato senza autorizzazione poteva addirittura essere pericoloso: bisognava poi staccarglielo dalla guancia e rimetterselo in bocca.

Le domande o le proposte non venivano neanche pronunciate fino alla fine: già a metà frase ricevevano un secco «no» in risposta. Anche solo quando la chiamavo da una stanza all’altra.

«Myaaa…»

«No!»

«Ma non ho detto niente ancora.»

«No!»

«Volevo darti un biscot…»

«N-Sì!»

Poi ci siamo inoltrati senza freni nella fase dei «perché », sparati a raffica e senza ascoltare le risposte.

«Mamma perché Rudolph ha il naso luminoso?»

«Non lo so Mya, forse suo padre era un lampione.»

«E perché?»

«Perché è nato così.»

«E perché?»

«Perché nessuno nasce uguale a un altro, siamo tutti diver…»

«E perché?»

«Ma mi stai ascolt…»

«Perché Topolino non ha la maglia?»

«Ma che c’entra adesso Topolino? Non lo so, forse ha caldo.»

«E perché?»

bambino bambini figli

Così all’infinito fino a quando la pazienza mi accompagnava, quando invece ne ero a corto, utilizzavo il metodo di mia nonna. Il metodo «perché sì» nelle giornate buone mi risparmiava anche quarantacinque minuti di «perché» consecutivi.

Avevo sentito a lungo parlare dei famigerati terrible two, ma non avevo mai capito bene che cosa fossero. Sono una strana incognita, fanno parte di quella categoria di cose che non comprendi mai fino in fondo, come i podcast o i ribes. Una volta finitaci dentro con tutte le scarpe mi è stato chiaro: i terrible two sono quella fase nella crescita del bambino che ti fa scoppiare a ridere in faccia alle mamme dei neonati che ti dicono di non vedere l’ora che i loro bambini crescano come il tuo e, allo stesso tempo, che fanno scoppiare a ridere le madri di bambini più grandi del tuo quando dici loro la stessa cosa.

(continua in libreria…)

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