“Nessun obiettivo di nido-famiglia-talamo, per noi: l’unico télos è lo stare insieme, tenersi per mano mentre le tempeste infuriano”. Un nuovo modo di amare. Ne parla su ilLibraio.it lo scrittore “millennial” Andrea Donaera, che torna in libreria con “Lei che non tocca mai terra”, e che riflette: “Noi di questa generazione stiamo ripensando questo sentimento di cui tanto si è sempre parlato”

Ivan Aleksandrovič Gončarov che, nel descrivere il tormentoso amore tra Oblomov e Ol’ga, al termine di un’ennesima rottura tra i due riporta che, al suo celebre personaggio, “il mondo gli sembrava bellissimo”.

Slavoj Žižek che delinea la vera ragione dell’Orfeo che si volta verso Euridice: “l’uomo-poeta” voleva perdere per sempre “la donna-amore” per poter giacere beato in un magma di disperazione – ottenendo così una perpetua scorta di carburante libidico e poter scrivere in eterno i suoi versi.

Cesare Pavese che, ne La luna e i falò, tratta di un’adolescenza scomparsa e del diventare adulti come di un dialogo serrato con i defunti – lui che, poco tempo dopo, morirà (anche d’amore).

Canzoni in cui si dicono frasi come “Reality cuts deep: would you bleed with me?” (My Selene, dei Sonata Arctica).

Film dove l’amore e la bellezza si consustanziano nel guardare rapiti una busta di plastica sospinta dal vento (American Beauty, di Sam Mendes).

Quadri in cui due figure quasi gommose – una candida, una nerissima – si stringono osservando una foresta che sembra fatta di fantasmi e non di alberi (Lovers, di Edvard Munch).

Questi sono alcuni degli elementi artistici e letterari che sono andati a costituire l’immaginario amoroso di uno come me. Di uno che viene definito “millennial” e che, a trent’anni, si rende conto di molte cose: di non poter vivere situazioni simili a quelle dei romanzi (in qualche modo apprezzati) di Sandro Veronesi o Francesco Piccolo, ad esempio, e che le giovinezze ritratte da Donatella Di Pietrantonio gli risultano lontanissime (di secoli, millenni). Un trentenne che vede il mondo non più solo tramite il filtro tragico delle guerre mondiali, ma attraverso quello spietato delle crisi economiche, culturali, sanitarie dagli anni Zero in poi.

Come me, le persone nate dopo la seconda metà degli anni Ottanta vivono una realtà molto diversa da quella di chi li ha preceduti ed esperiscono i sentimenti, soprattutto l’amore, in modi quasi inconcepibili fino a pochi decenni fa – in un’ottica produttiva e non riproduttiva, come insegna Jennifer Guerra ne Il capitale amoroso.

Si fa sempre più rarefatto l’orizzonte di una vita che tende a un’acme sociale e personale, dove l’amore sia uno dei tasselli in grado di garantire agli individui il perfezionamento delle proprie esistenze.

Nessun obiettivo di nido-famiglia-talamo, per noi: l’unico télos è lo stare insieme, tenersi per mano mentre le tempeste infuriano, che così magari un po’ ci si salva (e non nell’ottica mazzantiniana del Nessuno si salva da solo, ma in quella di chi si ritrova a fare di tutto per tenersi a galla, tra affitti sempiterni di monolocali, redditi precari e discontinui, notti al pc per distrarsi dal vuoto).

Se dal futuro di una persona si elide la certezza di un reddito, le possibilità di un’esistenza dignitosa, la pensione – se insomma dal domani si elimina ogni progetto per un dopodomani – beh, com’è possibile amarsi nello stesso modo in cui lo facevano i nostri genitori e nonni? Meglio forse estetizzarlo, questo amore, renderlo anche forzosamente materiale traumatico: come un Oblomov che, amato, fa di tutto per non essere amato; come un Orfeo che immagina un colpo di tosse di Euridice e si volta per perderla; meglio costruirsi mentalmente un foglio di dolore su cui scrivere a qualcuno che capisca – che, non potendo risolvere quella disperazione, almeno la capisca. Meglio fare come un Pavese che muore d’amore e, poco prima di farlo, non scrive di quello ma del paese e dell’adolescenza, del vivere bello di prima, di un prima che forse non c’era, che forse è inventato, ma che almeno era libero.

Tutto ciò può apparire come un grumo di pensieri soggettivi, dotati di scarso potenziale argomentativo. Eppure io, uno di quelli che chiamano millennial – uno di quei millennial che ogni tanto scrive libri ma che, specialmente, legge i libri degli altri – credo che anche altri si stiano accorgendo di questo nuovo modo di amare: tutte e tutti noi di questa generazione stiamo ripensando questo sentimento di cui tanto si è sempre parlato.

Ecco dunque perché un anno e mezzo fa, quando ho iniziato a stendere le prime idee su un nuovo romanzo, avevo soprattutto un’urgenza: provare a parlare d’amore. L’ho voluto fare con la lingua mentale di un personaggio (a cui ho scelto di dare il mio nome) che di tutta questa vita non riesce a capirci molto ed è preda di forze che lo spintonano; un personaggio che cerca di essere persona e che vede nell’amore (solo?) un espediente per le sue azioni e i suoi desideri. La verità è che Andrea, in Lei che non tocca mai terra, non sa vivere e cerca un amore che arrivi ad insegnarglielo (per rubare i versi al poeta Elio Pagliarani): non cerca l’amore per completare la sua vita, ma cerca una vita in cui l’amore possa avere spazio. E questo processo, se guardato in prospettiva, forse può riguardare molte persone. Specialmente chi, come me, non può più amare per costruire e quindi ama “soltanto” per trovare un rifugio – fino al giorno in cui il mondo si decostruirà, scoppierà, sparirà.

Copertina del libro Lei che non tocca mai terra

L’AUTORE E IL LIBROAndrea Donaera è nato a Maglie (1989), nel Salento, e vive a Bologna. È laureato in Scienze della Comunicazione presso l’Università del Salento, dov’è stato tra i fondatori del Centro di ricerca “Pens: Poesia Contemporanea Nuove Scritture”. I sui testi sono apparsi su blog e riviste, tra cui Nuovi Argomenti, minima&moralia, Nazione Indiana, Il primo amore. Dal 2017 Donaera – che nasce come poeta – è il direttore artistico del festival letterario Poiè di Gallipoli. Il suo esordio narrativo è stato Io sono la bestia, edito da NN nel 2019.

Ora torna in libreria con il romanzo Lei che non tocca mai terra (NN), storia di Miriam, che è in coma dopo un incidente, e di Andrea, che è innamorato di lei e ora le siede accanto e le parla, tutti i giorni. I loro dialoghi cadenzano i ricordi di Miriam e le giornate di Andrea, che tenta di ricomporre un proprio mondo dopo il suicidio del padre.

Intorno a loro gli altri personaggi di questa tragedia gotica: Papa Nanni, il venerato santone esorcista che istruisce Andrea sull’uso del tamburello e che è convinto che Miriam sia indiavolata; Mara, la madre della ragazza, che soffre ancora per la morte di una sorella amatissima (a sua volta chiamata Miriam); Lucio, il padre di Miriam e fratello di Nanni, che è il sindaco del paese, Gallipoli; e infine Gabry, la migliore amica della ragazza, che da Bologna le manda lunghi messaggi per riportarla in vita. Tra veglia e sonno, una storia d’amore e di legami familiari, cruda e crudele, reale e magica, dove la ragione perde forza e viene sostituita da un inconscio potente, che si incarna nei luoghi, nei sacerdoti della superstizione e nei suoi nemici, fino all’atteso risveglio…

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