Se è vero che quasi tutta la letteratura contemporanea cola dalla penna di Dostoevskij, il suo atto di fondazione è “Memorie del sottosuolo”, il libro in cui Dostoevskij diventa davvero Dostoevskij. Un’opera che non sembra nascere da una scelta, da un progetto, da una volontà ma uscire, ineluttabile, dalle circostanze che hanno mosso il suo autore, piegando al loro disegno prima lui, poi il suo testo e infine tutto ciò che seguirà. Qui l’autore di “Il giocatore”, “Delitto e castigo”, “I demoni” e “I fratelli Karamazov” scopre come una voce può essere un carcere: nei vicoli ciechi di quella coscienza infelice, chiunque abbia usato le parole per comprendere o comprendersi, ha dovuto perdersi, trovarsi, frantumarsi, delirare, sparire…
Fëdor Michajlovič Dostoevskij scoprì che una voce può essere un carcere – e il modo e il perché e il quando può diventarlo – nei mesi a cavallo tra il 1863 e il 1864, a quarantadue anni.
Prodotto di questa scoperta è Memorie del sottosuolo (riproposto da Quodlibet nella storica traduzione di Ettore Lo Gatto), libro di negazioni, di negazioni di negazioni, libro di paradossi, vertigini e abissi che volentieri sconfinano nei capricci teologici che mai più sazieranno il Dostoevskij maturo, tanto che oggi viene considerato il punto di svolta prima dei cosiddetti anni dei capolavori.
Le circostanze che conducono Fëdor Michajlovič Dostoevskij in questi territori scabri più che frutto del caso sembrano “astratte e premeditate”, come la sua Pietroburgo. Infatti, per quanto sia impossibile essere esperti di Dostoevskij, come ripete spesso Paolo Nori, che di cose russe se ne intende alquanto (sarebbe come dirsi esperti della vita o della morte, aggiunge, immancabilmente nel giusto), nessun libro quanto Memorie del sottosuolo è apparso anche ai suoi interpreti migliori come “un enigma in cui tutto è sinistramente chiaro” (o “una sorta di illuminazione mediante tenebre”, come scriveva Giorgio Manganelli) e come libro fatto di cose maturate lentamente, come risultasse più da una fermentazione che da una scelta deliberata o fosse venuto su come una muffa dalla vita, dalle idee, appunto dalle circostanze, dal modo in cui si addensano se modellate dalla forza di un cielo o di un inferno.
Dostoevskij: giovane talentuoso…
Il giovane Dostoevskij è uno scrittore estremamente talentuoso (dopo aver letto Povera gente quelli cui sottopose le bozze gli si attaccano al campanello in piena notte per salutare il nuovo Gogol’; il più importante critico letterario dell’epoca, Vissarion Grigor’evič Belinskij, gli chiede “ma ti rendi conto di quello che hai scritto?“). Ma è uno scrittore invischiato nei salotti, prodotto in cui si specchia la Scuola Naturale Russa allora in voga, e soprattutto conscio della sua bravura fino al ridicolo – cosa che non poteva se non suscitare le ironie di Turgenev.
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Come ogni scrittore giovane e talentuoso che si rispetti si lascia affascinare da idee radicali ed entra in contatto con i fourieristi del Circolo Petraševskij. Ogni venerdì qui si discutono idee invise allo zar Nicola I, quali, nelle parole di Nikolaj Spešnev, “il socialismo, l’ateismo, il terrorismo e tutto quello che di buono c’è al mondo”. Il 15 aprile del 1849 Dostoevskij legge per i membri del circolo la lettera del Vissarion furioso a Gogol’, lettera in cui Belinskij biasima al Gogol’ di Brani scelti dalla corrispondenza di stare dalla parte del regime feudale – del servaggio della gleba: “l’orribile spettacolo di un paese dove uomini fanno commercio di altri uomini” –, rimangiandosi Anime morte, che, per l’appunto, Gogol’ aveva bruciato.
…salvato dalla condanna a morte
Tradito da una spia italiana – un certo Antonelli – tra il 22 e 23 aprile Dostoevskij, nel clima di repressione che segue il ’48 europeo, proprio per quella lettura viene arrestato e condotto nella fortezza dei santi Pietro e Paolo. Lo interroga per otto mesi il generale Ivan Aleksandrovič Nabokov, prozio alla lontanissima di Vladimir, che infatti su Dostoevskij, forse per un residuo di partigianeria familiare, scriverà soltanto cose oscene. Nella fortezza, intanto, Dostoevskij combatte “grandi ratti”.
La vita, a questo punto, non è che un romanzo russo. Il 16 novembre 1849 viene condannato a morte a mezzo fucilazione. Ha 28 anni. Il 22 dicembre una ventina di membri del Circolo Petraševskij avanzando nella neve in abiti primaverili vengono condotti al patibolo in Piazza Semenovskij. Se ascoltiamo quanto viene messo in bocca al principe Myškin, se ascoltiamo quanto raccontato da due ragazze siberiane, morire per Dostoevskij è confondersi nel cielo del mattino coi raggi che sbattono sulla cupola della chiesa; ancor di più lo è scoprire che il tempo è cosa soggettiva, ritmo che espande e dilata. Con calcolata teatralità, all’ultimo secondo, la sua pena viene commutata ai lavori forzati e poi all’esilio. Al fratello scrive “la vita è dappertutto”. Da quei cinque minuti prima della fucilazione emerge un uomo uovo.
Gli anni successivi li passa con quattro chili di catene ai piedi nella katorga di Omsk, nella Siberia occidentale, sulle sponde del fiume Irtyš. I “disordini ai nervi” che aveva avuto fin da adolescente ora diventano storia di epilessia: prima di ogni crisi sembra che un uomo sia acquattato dentro di lui e, disperatamente, gridi; a lui, invece, pare di venire inghiottito dalla saldatura dei cieli.
A Omsk, impara a pestare e bruciare l’alabastro; mangia pane, minestra e cavoli; teme il maggior Krivstov, che chiamano “Otto Occhi”, un tipo così gratuitamente brutale da venire arrestato per come reggeva un bagno penale russo dell’Ottocento. Misura la solitudine. Gli altri forzati, poiché nobile, lo odiano, naturalmente. Godono nel ritrovarselo come fratello; lo avrebbero mangiato, se avessero potuto. Qualcuno più di altri: come Lomov, di cui si diceva che sarebbe stato in grado di uccidere chiunque, se gli avessero offerto della vodka o il suo Gazin, detenuto perché sgozzava bambini. Si affeziona, invece, a un paio di cani; il primo, Kul’tjapka, fece una brutta fine a causa del detenuto Neustroev, che i cani li scuoiava e faceva scarpe con la loro pelle; al secondo, Suango, dovette la vita quando per tre rubli, in ospedale, provarono ad avvelenarlo. Per una serie di circostanze, nella fortezza, l’ultimo anno smettono di chiamarlo con il suo nome e cominciano a riferirsi a Dostoevskij come al “Defunto”. Sembra quasi presentissero il suo appartenere a regioni sublunari, di là della vita, regioni dalle quali “l’uomo ha scoperto di sé, più di quello per cui era preparato”, come ha scritto una volta Vladimir Rasputin.
Dostoevskij, del resto, quando ne scrisse avrebbe chiamato la fortezza di Omsk la “Casa Morta”. Il mondo fuori è “favola irreale”, dentro vi regna “confusione, baccano, risate fragorose, imprecazioni, rumore di catene, fumo e fuliggine, teste rasate, volti segnati, vestiti a brandelli, tutto veniva maledetto, insultato”. Pur osservando solo chi ha versato sangue, gli ultimi tempi, con gioia, si rende spesso conto di come gli uomini siano uomini ovunque.
Scontati i lavori, viene trasferito a Semipalatinsk, oggi in Kazakhistan, impiegato come soldato semplice. Mezza città, mezzo villaggio, Semipalatinsk più che altro è un errore sorto nel mezzo della steppa. Forse per questo divenne “la città più bombardata del mondo”. Qui l’Unione Sovietica dal 1949 al 1989 per 456 volte testò ordigni nucleari, congiurando una maledizione che ha stornato quei picchi atroci nei grafici dei tumori tiroidei. A Semipalatinsk Dostoevskij, non si sa bene perché, a un certo punto alleva due bisce con del latte. Soprattutto si innamora di Marija Dmitrieva Isaeva, alla quale nel novembre del 1856 chiede di sposarlo. Al fratello scrive: “Nessuno, tranne questa donna, farà la mia felicità”. Saranno infelici. Durante la luna di miele Dostoevskij ebbe una gravissima crisi epilettica (qualcuno afferma avvenne proprio la prima notte di nozze). La moglie, prendendola forse come cattivo auspicio, da subito avrà orrore del corpo del marito.
Nel 1859 può fare rientro dalla Siberia. Intanto in Russia accadono secoli in un decennio: se nel ’49 l’avevano condannato a morte per schermaglie tra scrittori, critiche, certo, nei confronti del servaggio della gleba, nel 1861 su decisione dello Zar Alessandro II “l’esistente ordinamento della signoria delle anime” viene abolito. La Russia vuole rincorrere l’Occidente e raccogliere i frutti della modernità. Il problema, delicato e sanguinoso, è il come: c’è un modo per realizzare le speranze della modernità senza attraversare i suoi incubi?
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Il modo in cui avviene, infatti, lascia tutti scontenti: la libertà i contadini sono obbligati a pagarsela. La terra che hanno sempre lavorato va acquistata indebitandosi. I nobili perdono i loro privilegi; ne hanno orrore. Nascono dei proto kulaki. Crisi economica, enormi speculazioni finanziarie, malcontento, rivolte contadine sedate con ferocia, sviluppo di ideologie sovversive, assenza di prospettive, enormi dibattiti in giornali che spuntano come funghi. Il nichilismo russo produce profeti armati. Gente che vuole unire le forze coi “ladri in cappa e spada”, ovvero “magnifici fanatici, credenti senza Dio, eroi senza frasi”, come dirà Bakunin. Vent’anni dopo Ignatij Ioachimovič Grinevickij, “il micio”, fa esplodere lo zar e le sue riforme borghesi. Alexandr’ Uljanov proverà a ucciderne il figlio, lo zar Alessandro III, sei anni dopo, lo stesso giorno, celebrando una specie di festa macabra. Ne morirà lui: a nulla valsero le preghiere della madre che, dopo la condanna, lo supplicò di chiedere il perdono per commutare la pena; la cosa gli era impensabile. È il fratello di Vladimir Il’ič Ul’janov, noto come Lenin.
Intanto – e la pista è anarchica – Pietroburgo prende fuoco. Slavofili, europeisti, nazionalisti, mistici, materialisti, razionalisti nelle fiamme producono configurazioni impensate: la Russia entra nella modernità da quella porta che può condurre solo al 1917.
Il rifiuto della modernità europea
Dostoevskij, nel 1862, vuole vederla questa modernità: l’Europa. Va a Berlino, Dresda, Wiesbaden, Baden-Baden, Colonia, Parigi, Londra, Lucerna, Ginevra, Genova, Firenze, Milano, Venezia, Vienna. L’anno dopo, di nuovo, Parigi, si innamora di Apolinnarija “Polina” Suslova e ancor di più della roulette. Vede il modo del mondo. Lo detesta. Secondo Guido Carpi, tra i più importanti russisti italiani, nei confronti della civiltà europea-occidentale a questa altezza esprime un rifiuto “definitivo e senza appello”. Parigi gli sembra noiosa, i francesi un popolo nauseante. Dei valori della Rivoluzione Francese, sui quali si fondano giustificazione e gloria del capitalismo ottocentesco, coglie le ipocrisie.
Della liberté scrive che è tale solo quando si ha un milione: “Una persona senza un milione non è uno che fa tutto quel che vuole, è uno a cui fanno tutto quel che vogliono“. Ma il suo cruccio più profondo è la fraternité. Su cosa fondare la convivenza degli uomini?
Deluso dalle utopie socialiste che ne hanno scaldato la giovinezza, e ormai affascinato da concetti tra il mistico, il trascendente e il nazionalista, ma conscio che anche tra gli assassini ci siano uomini, gli interessa l’idea di uomo che la società occidentale produce, il progetto di che cosa sia una persona. Di fronte alle disparità atroci e ai contrasti laceranti delle città europee, si convince che la ragione, l’individualismo, l’idea dell’utile, il calcolo inconscio del proprio tornaconto, rendano ciò su cui si fonda qualsiasi idea di comunità, cioè la fratellanza (intesa in temini cristiani come dono di sé), logicamente impensabile. “L’Occidente”, pensa, “è divorato dalla lotta mortale fra il principio personale e la necessità di stabilire una convivenza, quale che sia”.
A Londra, di fronte al Palazzo di Cristallo dell’Esposizione Universale ha l’impressione che qualcosa si sia compiuto, realizzato e concluso. Lì si incontrano la Ragione, il Progresso, la Materia, l’Industria, l’Utilità, l’Interesse, l’intero pantheon dei valori della modernità occidentale. Dostoevskij se la vive sobriamente, ne parla come di una scena dell’Apocalisse. Forse perché affascinato dalle idee di Apollon Grigor’ev sul suolo, vuole cogliere il segreto del centro dell’Europa attraverso i suoi bassifondi. Una notte a Whitechapel, quartiere operaio, scopre qualcosa sul silenzio camminando tra gli esclusi dal banchetto dell’umanità, dediti interamente ad abolirsi la coscienza. Un’altra notte, a Haj Market, dà mezzo scellino a una bambina livida cui nessuno fa attenzione nel quartiere dei bordelli. Intanto Marija si ammala – tisi – e sragiona. Dostoevskij torna in Russia (i due vanno a Mosca, che ha un clima migliore) e assiste alla sua lenta agonia. Mentre i dottori dicono che in qualsiasi momento potrebbe morire, lei fa progetti grandiosi per il futuro; contagiata da quanto scoperto dal marito sul tempo carica gli orologi fino a spezzarli; scaccia diavoli dalla finestra con un fazzoletto; quando ha le forze per alzarsi si ferma davanti al ritratto del marito e inveisce agitando pugni al vento. “Forzato, forzato!”, urla. Mentre lei sputa sangue a Dostoevskij si contorce nella penna l’uomo del sottosuolo. “Sarà una cosa forte e sincera. Sarà la verità”, scrive al fratello. Il 15 aprile del 1864 Marija Isaeva muore, quindici anni esatti dopo la lettura di Belinskij, costata dieci anni. Sono ore sconfinate, in cui l’eternità stratifica nel tempo.
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Dostoevskij per Manganelli e Citati
Il giorno dopo Dostoevskij scrive un appunto in cui le cose della vita, le idee, le immagini, la ricerca letteraria cominciano a lievitare in qualcosa che ha il sapore di cose ultime, verità essenziali, di parole definitive. Molti lo considerano il primo documento della poetica del Dostoevskij maturo. “Maša è distesa sul tavolo. La rivedrò mai?” – scrive, citandola con il diminutivo, e poi subito dopo: “Amare l’uomo come se stessi è impossibile. Sulla terra la legge della personalità è di impaccio. L’io è di ostacolo”. Poi in dieci righe nette, una filosofia della storia, un principio metafisico, una politica (che per quanto infastidisca in un autore feticcio, che deve piacere in tutto, è reazionaria, nazionalista, misticheggiante) un certo modo di avere a che fare con le contraddizioni e scioglierne i fattori in un principio assoluto (Carpi parla di occasionalismo: Dostoevskij si libera della concatenazione causa-effetto tra i fenomeni, visti come pezzi di qualcosa di più vasto che si è rotto attraverso il tempo, e poi si mette a edificare ponti per l’assoluto).
Poter rivedere Maša è un itinerario concettuale e metafisico: Dostoevskij parte da un rifiuto dell’individualismo, della legge razionale che lo guida, da un rifiuto dunque dell’intera civiltà europea, a cui opporre un annullamento dell’io nel tutto, perché invece il “pieno sviluppo del proprio io, consiste nel distruggere questo io”. I due estremi opposti (l’io, il tutto) si distruggono a vicenda e, insieme, attraverso la loro distruzione, hanno il pieno sviluppo. Questo è il fine dell’uomo. Giunto alla pienezza del suo scopo, l’uomo supererebbe in qualche modo la sua esistenza terrena, scioglierebbe il senso che ha il tempo, annullandolo. Ma è impensabile che al conseguimento del tutto, alla fine del tempo, la vita sparisca, dunque, se ne deduce – la logica è onirica, ma serrata –: «c’è una vita futura». Rivedrà Maša.
Anni dopo, Giorgio Manganelli, parlando di cosa significhi Leggere i russi, scriverà, un po’ tra le righe, dell’evento di Tunguska del 1908, quando forse un meteorite o una cometa si schiantò a dieci km dalla superficie terrestre, in una remota regione della Siberia, provocando un’esplosione visibile a settecento km di distanza. “Una gigantesca teologia è esplosa“, scrive Manganelli, “e di questa teologia esplosa, questi diamanti e sassi arroventati, e selci che tagliano il corpo, di queste cose non fatte per mani d’uomo, i ‘russi’ hanno fatto una letteratura”. Non conta nulla il tempo, figuriamoci le date, e quindi Dostoevskij può esserne l’esempio principale. Il Defunto, l’uomo dalla Casa Morta, il Forzato mette mani e piedi in cose arcane, dà del tu a sottigliezze teologiche, annulla l’io, il tutto, il tempo, un’intera civiltà e i suoi presupposti, con lo sguardo dritto verso il cadavere della moglie, e guadagna un futuro dove incontrarla. E una letteratura. Una letteratura che è un fatto di geometria, composta interamente di linee verticali che, scrive Pietro Citati, “solo Dostoevskij ha afferrato”. Quel luogo dove una prostituta è sempre donna santa e credula, dove una ferita immedicabile è salvezza, dove l’invisibile è visibile, dove ogni devozione è profanazione, dove ogni terra desolata è promessa, dove tutto è permesso perché niente è permesso, dove ogni assassino parla con i modi del sermone, dove ogni felicità ha un che del dolore, dove il bene siede al tavolo del male e ogni cielo ha del grigio perché la luce partecipa della natura del buio. Quell’unico luogo dove è tranquillamente possibile che la scoperta sincera di una fede possa celare l’esplosione di un’intera teologia.
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Tutti i volumi di questa letteratura però sono testi ideologici, in un certo senso, secondo Joseph Frank. Memorie del sottosuolo non fa eccezione: l’intenzione esplicita di questa povest’, del biascicamento di quest’uomo superfluo, è di rispondere all’egoismo razionale di Che fare? di Černyševskij, sorta di bibbia del nichilismo russo fondata sull’idea che l’interessa personale coincida con il bene comune. Černyševskij sogna un uomo nuovo: un uomo razionale, un uomo economico, che perseguendo il proprio interesse, per una specie di legge di natura, determini, come la mano invisibile del mercato, il progresso, l’indipendenza, persino “i soli giganteschi della vita dell’avvenire”.
Un cortocircuito tra teoria e prassi
Dostoevskij, di fronte alla favola di quest’uomo interamente razionale, non può che volgersi al suo sottosuolo, come a Londra di fronte al Palazzo di Cristallo, ma, come dire, la cosa gli scappa tra le mani. David Foster Wallace scriverà che “in un certo senso Dostoevskij era danneggiato dalla sua stessa bravura”. Infatti, forse nel bagno penale, in Europa, o nella steppa, o davanti al corpo di Maša, ha già compreso che la vita non basta a comprendere la vita (dunque i suoi personaggi sono mossi da pulsioni che non comprendono e li segmentano internamente; la spaccatura “polifonica” dentro ogni io) e che neanche il pensiero basta al pensiero. Sono gli stessi anni in cui la filosofia sbatte contro i limiti interni della sua razionalità. Si è scritto che con Hegel la filosofia, includendo dialetticamente la contraddizione, muoia per apoteosi e dopo debba uscire da sé verso la storia, l’esistenza o la prassi. Comincia a delinearsi quel paradosso della razionalizzazione in base al quale quando il pensiero esplora le proprie condizioni di possibilità in un orizzonte immanente, giunge, per logica, a paradossi, a circoli ricorsivi e autoconfutativi, alla frammentazione e si incunea nel vicolo cieco di un orizzonte intrascendibile (si può uscire dalla storia, dal linguaggio, dalla metafisica, dalla coscienza, dal capitalismo, dal nichilismo? le domande del secolo successivo). Nello stesso modo in cui è difficile pensare a una convivenza senza Dio, concepire un pensiero senza trascendenze porta a qualcosa di concentrazionario, a un vicolo cieco della ragione. Anche il romanzo sbatte contro l’insufficienza di raccontare il mondo solo attraverso una storia e deve incorporare le idee nel suo tessuto (emerge, per esempio, il romanzo-saggio). La letteratura di Dostoevskij prova a uscire da questa doppia insufficienza con romanzi fatti di idee incarnate, di voci che sono carne in cui avviene un cortocircuito tra teoria e prassi.
Nato per criticare l’idea di Černyševskij di uomo razionale, l’uomo del sottosuolo per questo è una voce fatta interamente da una negazione della ragione. Dostoevskij avrebbe potuto ridere dei sogni di Vera Pavlova, avrebbe potuto cogliere le aporie di ogni determinismo, invece, l’amarezza verso le idee utopiche degli anni giovanili, la frattura nel tessuto del tempo di fronte al plotone di esecuzione, la familiarità con la teologia dell’assassino, quel senso di catastrofe da mondo prima della creazione, che contagia cielo, animali e natura (la neve qui è, per forza di cose, fradicia), l’uomo che gli grida dentro e quello che ascende nel cielo, la solitudine della steppa, la coazione inconscia della roulette, il vorticoso dibattito sulla modernità, il Palazzo di Cristallo, gli esclusi dal banchetto dell’umanità, Marija Isaeva che si espelle la mente tossendo, il corpo di Marija Isaeva steso sul tavolo esercitano una pressione così forte sulle intenzioni di Dostoevskij che il colpo fa un tale strazio del rapporto tra il narratore e il suo monologo interiore, tra l’uomo e il suo pensiero, che in quel momento si creano un prima e un dopo. Non siamo più nell’ambito della letteratura qui, dice a un certo momento quella voce spezzata, ma di una pena correzionale.
Lo scrittore che, da un pensiero finito, cava un infinito
Un conto è criticare la razionalità da un fuori, guardarla come un oggetto astratto, contarne le crepe, tutt’altra cosa è vederla da dentro, in un’idea incarnata in una voce. Sembra di assistere a un processo di decomposizione, di corruzione, a un topo che rosicchi un cervello da dentro un cranio, di sentire il rumore che fa una mente quando si spezza. Questo “inaudito essere astratto” non può conoscere un’identità stabile perché ogni conoscenza che produce su di sé diventa analisi infinita, senza pace né tregua, continua negazione di qualsiasi affermazione, “il puro rovescio dell’essere”, secondo Pietro Citati. Quei sassi arroventati e quelle selci, di cui parlava Manganelli, tagliano corpi che si fratturano insieme alle menti. Ogni causa rinvia a una causa più profonda e a una folla di concause in un circolo infinito che ha la struttura del labirinto. Ogni affermazione ha una negazione, ogni negazione ha una negazione, ogni negazione di una negazione ha una sua negazione: il processo è infinito. Non esiste quiete, se c’è una stasi è una stasi violenta, che tritura gli oggetti che contempla fino a renderli una poltiglia: il sì e il no, la verità e la menzogna, la realtà e il sogno, e soprattutto il bene e il male sono posizioni mobili. Unica cosa che resiste sono quelle pulsioni sotterranee che stanno al di qua di ogni logica: fra tutte il dominio, come se esercitarlo fosse l’unico modo di partecipare con crudeltà a un gioco della vita orfano del legame tra la Legge e il Bene. E, peggio, non c’è un fuori. Dostoevskij da un pensiero finito cava un infinito. L’orizzonte intrascendibile, quel limite insuperabile del pensiero diventa carne ed è un carcere che fa sembrare Omsk un aperitivo. Un carcere edificato dentro che ha il suono di una voce. Il pensiero – ogni pensiero – non rischiara, non illumina, non produce, non insegna, è sofferenza, ferita, offesa, limite, vicolo cieco, ghigna, beffa che dilata e strappa una coscienza ipertrofica. L’uomo del sottosuolo non può avere fratelli perché non si danno incontri se sei murato dentro, non è semplicemente un individualista, quest’uomo «nato morto» è l’unica cosa che abbia una qualche consistenza nel suo mondo. “Io sono solo, ed essi sono tutti”. Gli altri non sono che circostanze per affermarsi o per distruggersi. Nessuna mano conduce invisibile i suoi atti al sole dell’avvenire, qui una luce grigiastra non ha il genio di sciogliere le ombre.
E, va bene, ci sono libri che sono un balsamo e libri che sono uno schiaffo. Questo schiaffo, però, è un atto di fondazione. Da questa voce nasce Raskol’nikov, che verifica se egli sia un insetto o un Napoleone con un’accetta; nasce Marmeladov, che rotola nel fango per cercare un segno di quanto sia distante dal cielo; nasce Porfirij Petrovič, santo protettore di ogni detective come uomo finito; e Smerdjakov, Nastas’ja Filippovna, Dmitrij, Ivan e Aleksej Karamazov, Verchovenskij, e infine Stavrogin, buco nero e ragno, da cui non si cava nemmeno il nulla (“da me non è uscita che la negazione, anzi non è uscita nemmeno la negazione”).
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Ma non edifica soltanto l’insondabile vertigine dei libri di Dostoevskij. Per Nathalie Sarraute siamo di fronte al “precursore di quasi tutti gli scrittori europei del nostro tempo“, per Claudio Magris “la letteratura contemporanea ‘esce’ dall’humus delle Memorie del sottosuolo al pari dell’elsa senza lama che affiora dalla tomba smossa”. La logica interna di questa coscienza infelice, i suoi cunicoli sudici, i suoi vicoli ciechi e grotteschi saranno il terreno su cui chiunque abbia preso una penna in mano proverà a comprendere l’esistenza attraverso il mormorio della sua disperazione.
Senza questa voce che ti parla dentro proprio quando non la ascolti, proprio quando nemmeno la conosci, Nietzsche (che ne lesse, a Nizza, un’edizione assurda) non avrebbe perso il centro; allo scoppio della Prima guerra mondiale, nel pomeriggio, Kafka non sarebbe andato a scuola di nuoto; senza il suo ghigno non sarebbe pensabile la lingua di Beckett, la nenia di Gombrowicz; per non parlare del suono che fanno Joyce, Woolf. Walser, come Hölderlin prima di lui, non avrebbe rinunciato a quarant’anni del suo “sano intelletto”, senza questa voce sono pensabili Musil e “l’anarchia degli atomi”, Proust e “la vita infine scoperta e chiarita”, o più vistosamente Céline, che di quest’ultimo scriveva che, per lui, “trecento pagine per dirti che Tizio incula Tizio, è troppo”? Difficile. Persino Wittgenstein non si sarebbe masturbato in trincea pensando, disperato, a teoremi matematici, mentre Heidegger era preso nel dividere acqua da acqua. Su su, risalendo il secolo fino alla fine, Bernhard, odiando ogni parola, non avrebbe costruito una pagina pietrificata, una pagina vuota d’ossigeno, Bolaño non si sarebbe chiesto, con coraggio, in fondo a un pozzo, se il Male fosse casuale o causale e Wallace non avrebbe cercato di guardare dentro un’immobilità che è come il raccoglimento di una forza. Cito a caso, per difetto.
Si racconta che qualche giorno dopo la sua morte, Dostoevskij apparve in sogno alla seconda moglie, Anna – si amarono molto loro – e alla figlia prediletta Ljubov’, per dire loro che non voleva fosse turbato il suo sonno definitivo. Ciò di cui possiamo essere certi è che, purtroppo o per fortuna, nessuno lo ha ascoltato.
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Per approfondire
Si potrebbero spendere un paio di vite a leggere Dostoevskij, di Dostoevskij o su Dostoevskij. E non sarebbe tempo perso. Di seguito alcuni titoli, più che altro recenti e citati sopra, per chi volesse approfondire un po’.
Per chi fosse interessato alla vita di Dostoevskij, uno dei punti di ingresso più interessanti l’ha scritto Paolo Nori, si chiama Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor Dostojevskij (Mondadori, 2021). È un romanzo sulla vita di Dostoevskij, non una biografia. Va letto insieme a Vi avverto che vivo per l’ultima volta. Noi e Anna Achmatova (Mondadori, 2023), sempre di Nori, che forse non c’entra niente con Dostoevskij, ma è fondamentale sapere che Anna Achmatova ricevette, da un gulag, un plico di corteccia di betulla (piccolo, dice Nori, qualcosa come 8x6cm) con graffiati, scrive, i versi di Requiem, e questa è probabilmente l’immagine più bella del Novecento letterario. Nori, in generale, fa da sempre venire voglia di leggere i russi e ha dedicato molte fatiche alla causa; l’ultima è un podcast prodotto per Chora Media che si chiama A cosa servono i russi?
Se invece si sente l’esigenza di una monografia puntuale (e non di un romanzo), in italiano è molto bello il volume di Maria Candida Ghidini dal titolo Dostoevskij (Salerno Editrice, 2017). Un testo particolare, fatto di fonti di prima mano, è quello di Pavel Fokin, Un certo Dostoevskij. Biografia polifonica in lettere, diari e testimonianze (De Agostini, trad. di Giada Bertoli, Francesca Giordano e Verdiana Neglia, 2021). Se si mastica un po’ di inglese è obbligatorio fermarsi da Joseph Frank, Dostoevskij: a writer in his time: cinque volumi scritti in trent’anni, più di duemila di pagine, o, nella versione abridged, solo 984 (Princeton, 2012). David Foster Wallace lo ha recensito in un lungo saggio che ora si legge in Considera l’aragosta (Einaudi, trad. di Adelaide Cioni e Matteo Colombo, 2005).
Una fonte infinita di aneddoti su cose russe, nonostante il focus sugli zar, è I Romanov (1613-1918) di Simon Sebag Montefiore (Mondadori, trad. di Massimo Parizzi, Chiara Rizzo, 2021), che risponde a domande tipo: come si lancia un nano in una cerimonia?, come si bacia una testa mozzata?, eccetera.
Dostoevskij parla di Parigi, Londra e della civiltà occidentale in Note invernali per impressioni estive. Le pagine citate di Guido Carpi sono in Verso Raskol’nikov. Dostoevskij fra letteratura e politica 1856-1865 (Tipografia Editrice Pisana, 2008). Quelle di Giorgio Manganelli si trovano in Autoantologia (Quodlibet, 2015). Quelle di Pietro Citati ne Il male assoluto (Adelphi, 2013) e in Il silenzio e l’abisso (Mondadori, 2018). La frase di Bakunin sui nichilisti è tratta da una lettera a James Guillaume. Quella sui “soli giganteschi della vita dell’avvenire” è di una poesia di Majakovskij (Lettera aperta agli operai).
Per chi fosse interessato alla filosofia tra Otto e Novecento e i suoi sviluppi, sono di rara chiarezza tutti i lavori di Franca D’Agostini; alla filosofia di Dostoevskij è dedicato il volume di Sergio Givone Dostoevskij e la filosofia (il Mulino, 2009); Paolo Stellino ha affrontato, tra le altre cose, il rapporto tra Memorie del sottosuolo (circa) e Nietzsche in Nietzsche and Dostoevskij. On the Verge of Nihilism (Peter Lang, 2015). Magris scrive quelle parole in Danubio (Garzanti, 1986), e le conferma in Narrativa (Treccani, 2023), Sarraute nel saggio De Dostoevskij à Kafka. L’odio di Céline cola da una lettera a Jean Paulhan. Per chi è interessato ai drammi onanistici di Wittgenstein il testo di riferimento è il Diario Segreto (Laterza, 1987). Che Dostoevskij seppe comparire in sogno alla moglie e alla figlia Ljubov’ lo racconta tra gli altri Pietro Citati. Non poteva esserne certo, ma noi, come lui, ci crediamo.
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