Simonetta Tassinari, insegnante di Storia e Filosofia nei licei e autrice, su ilLibraio.it racconta come i filosofi del passato possono insegnare a studenti, insegnanti e genitori come affrontare al meglio il rientro a scuola dopo “la più lunga interruzione in tempo di pace che si ricordi”

Il suono della campanella di scuola – un po’ come le madeleines per Proust – solleva immediatamente in ciascuno di noi il sipario dell’infanzia, dell’adolescenza e della prima gioventù. Ci accompagna dalle elementari al liceo, ci rimarca il tempo, ha il viso degli amici, dei collaboratori scolastici, dei professori; è associato all’immancabile emozione di ogni entrata mattutina, ricca sempre di aspettative, di speranze e di paure, e a quella specie di liberazione dell’uscita, quando ognuno, pur se proiettato verso il resto della giornata, sa di aver fatto ciò che gli toccava fare, ciò che stava bene fare, che era giusto fare.

La campanella è l’orologio ufficiale, per buona parte dell’anno, di oltre nove milioni di persone tra alunni e docenti soltanto in Italia, e il suo silenzio, durante il lockdown, ha parlato come solo può parlare il silenzio, con accenti più sottilmente drammatici e allusivi di qualunque espressione verbale o di tavole rotonde di esperti che si interrogavano su quel che avrebbe comportato la chiusura delle scuole in termini di apprendimento, socializzazione e serenità personale.

Ma adesso la campanella sta di nuovo per suonare, dopo sei mesi: la più lunga interruzione in tempo di pace che si ricordi, qualcosa che si racconterà, sulla quale si discuterà ancora a lungo, un evento atteso, auspicato e desiderato non solo dal mondo scolastico e da chi gli gravita attorno, ma da tutti: perché senza la scuola non c’è vivere civile, anzi non c’è nessuna civiltà, e la conquista di una «nuova» normalità non può che passare da qui, dal ritorno nel proprio «luogo naturale», come direbbe Aristotele, dei bambini e dei ragazzi: nelle aule, nei banchi, nei cortili.

Le insicurezze ingenerate nell’animo di scolari e studenti dalla ripartenza di tanti milioni di persone (i dubbi sull’uso dei mezzi pubblici, le modalità con le quali si trascorreranno le ore di lezione e, naturalmente, il potenziale rischio di una crescita dei contagi) sarebbero affrontati dai filosofi nel modo loro più congeniale: attraverso un “riordino” dei pensieri e una riflessione.

La filosofia innanzitutto ci ricorda che di sicuro nella vita non c’è niente, dalla riuscita di un compito in classe fino a quella di una torta al cioccolato, così come fondamentalmente insicuro è ogni nostro giorno. L’incertezza, però, è in fondo il nostro salvagente, la nostra più brillante chance per tirare fuori e dare il meglio di noi, l’antidoto perfetto alla noia e alla ripetitività. Senza incertezza non saremmo invogliati ad alcuna azione: lo stimolo del giocatore e dello scommettitore, è che non sanno se vinceranno, per questo insistono.

Per di più, l’immortale “panta rhéi”, ovvero il “tutto scorre” di Eraclito, ci tira un po’ per le orecchie suggerendoci che non soltanto di sicuro nella vita non c’è niente, ma neanche di immutabile, sebbene accettarlo non sia così semplice. Specialmente se la nostra vita mediamente ci soddisfa, ed essendoci le nostre abitudini così care (benché Rousseau, sempre anticonformista, scriva che la migliore abitudine da prendere è quella di non contrarne nessuna), ci sentiamo disorientati e quasi orfani di una parte di noi stessi, a qualunque età, se le nostre abitudini mutano magari d’un tratto, allorché un equilibrio precedente si infrange e si stenta a crearne un altro.

Prendiamo per l’appunto la scuola, che troveremo un po’ diversa, divisa in blocchi, con uscite separate, bagni separati, igienizzanti un po’ ovunque, davanti alle macchinette automatiche e all’ingresso dei bagni, distanziamento, con regole precise sul dove e come indossare la mascherina (al banco, se fermi e convenientemente distanti, no, se ci si alza sì, e si capisce che i professori che, come me, amano fare lezione passeggiando tra i banchi, dovranno adeguarsi…).

E allora? Perché mai questo dovrebbe spaventarci? La normalità stessa “scorre” ed è in divenire, così come la vita di ognuno di noi: quanti capovolgimenti, quanti cambiamenti abbiamo già osservato nella nostra singola esperienza, quali repentini cambi di fronte, quante novità, quante sorprese ci hanno già ribaltato completamente l’orizzonte di aspettative? L’incessante mutamento è il modo di essere del mondo, l’unico: se così non fosse nessuno di noi neppure ci sarebbe , e sulla terra si aggirerebbero ancora i dinosauri…

Tuttavia, se il cambiamento è una legge universale sulla quale niente conta il nostro volere, e se è inevitabile che nel ciclo delle vicende umane si presentino fasi più complesse di altre, il come vivere il cambiamento sta in noi. Se lo vivremo con angoscia e preoccupazione, se ci ostineremo a «volere» quel che, almeno al momento, non è più, se preferissimo un «mi piego ma non mi spezzo e vado avanti come prima», non daremmo unicamente prova di mancanza di elasticità e di lungimiranza, ma andremmo contro i nostri stessi interessi, saremmo fuori dal tempo e dal consorzio umano.

Senza trascurare un dettaglio importante: una razionale e sensata accettazione del cambiamento ci consente un’ evoluzione personale non da poco. Nessuno sa bene di che cosa è capace di fare, se prima non lo fa: non ha senso scommettere d’anticipo che il “nuovo” sarà giocoforza peggiore del “vecchio”, che apprezzavamo. Perchè non dovrebbe piacerci anche il “nuovo”? I limiti negli spostamenti, una ricreazione ridotta, percorsi obbligati per recarsi al bagno, la necessità di lavarsi le mani più spesso, l’abbandono dell’abitudine – questa, sì, davvero da condannare, al di là di Rousseau – di bere in quattro o in cinque dalla stessa borraccia (“Ragazzi, chi mi dà un sorso d’acqua?”, “Tieni, ne è rimasta un po’ dopo che ci abbiamo bevuto tutti noi della fila”), potranno davvero farci perdere il gusto – sì, perché tutti noi che la viviamo ogni giorno proviamo un gran gusto, ad andare a scuola – di ritrovarci insieme, di imparare insieme, di conversare non più solo attraverso lo schermo di un computer? Certo che no!

Se supereremo la fase dell’adattamento- in sostanza un atteggiamento passivo, che implica uno sforzo, un adeguarsi controvoglia – a favore di una trasformazione che è dinamica, attiva e partecipata – al rientro a scuola e, in generale, in questa delicata fase storica, sarà ancora più forte la consapevolezza che chiunque di noi è attore e non spettatore, e che occorre che ognuno faccia la sua parte per adeguare i propri comportamenti al bene collettivo. E a quel punto avvertiremo un brivido, ma non di paura, bensì di eccitazione, anche perché la stessa cosa cambia a seconda dell’idea che ce ne facciamo – altra grande lezione dei filosofi. Sicché trasformarci tutti in bambini, ragazzi e ragazze, e maestri e professori del 2020, ci darà il vantaggio che l’essere figli attivi e consapevoli del proprio tempo concede, e ci schiuderà lo scrigno che contiene il segreto per guardare al futuro con ottimismo.

L’AUTRICE – Simonetta Tassinari, romagnola di nascita, molisana d’adozione, insegna Storia e Filosofia nei licei (qui i suoi articoli per ilLibraio.it). Da sempre si interessa, approfondendone gli studi, alla Psicologia relazionale, alla Psicologia dell’età evolutiva e al Counseling filosofico. È stata tutor universitario del TFA, per la formazione degli insegnanti, e docente di laboratorio di didattica della Filosofia presso l’Università del Molise. Ha tenuto corsi di Logica per docenti, pubblicato saggi di argomento filosofico (per Einaudi scuola), romanzi (per Giunti, Meridiano Zero e Corbaccio, che ha proposto La casa di tutte le guerre) e il saggio “brillante” La sorella di Schopenhauer era una escort, sull’insegnamento della filosofia nelle scuole (Corbaccio, 2016). È autrice di sceneggiati radiofonici per la Rai. Occupandosi di filosofia per bambini e adolescenti, organizza caffè filosofici e tiene conferenze in scuole, biblioteche e istituzioni culturali in tutta Italia. Per Feltrinelli Urra ha pubblicato Il filosofo che c’è in te. I superpoteri della filosofia nella vita quotidiana (2019) e S.O.S. Filosofia.

simonetta tassinari

Ora torna in libreria con Il filosofo influencer: il pensiero è la nostra caratteristica più preziosa, quella che ci connota. Eppure, subissati dagli infiniti influencer della nostra vita – social e no, famiglia, amici, partner e le Giurie invisibili che sanno sempre “come si fa” e “quel che va fatto” –, è difficile mantenere il baricentro e pensare realmente in modo autonomo, originale e creativo, dando il meglio di noi. Perciò ci accade di provare un senso di estraniamento e di frustrazione: perché il pensiero inibito inibisce l’azione, il pensiero timido ci rende timidi, il pensiero incompiuto ci rende incompiuti.

“Perdiamo tre quarti di noi stessi per diventare simili agli altri,” scrive Schopenhauer. Ma il rimedio c’è. Immaginiamo di entrare in una delle scuole filosofiche dell’antichità, nelle quali l’obiettivo non era formare i discepoli, bensì trasformarli in persone migliori. Troveremmo subito lo stoico Epitteto, il quale ci direbbe che per diventare l’influencer di noi stessi occorre una “magia” filosofica. Come quella della bacchetta magica di Ermete, che trasformava ogni cosa in oro, ogni svantaggio in un vantaggio. Il primo effetto sarebbe convertire la nostra insoddisfazione nella volontà di rimuovere i “paraocchi”, esterni e interni, che ci impediscono la lucidità e la libertà di pensiero, e poi via via, attraverso l’esercizio, di allenare il pensiero critico. Avvalendoci dell’arma del dubbio, dell’arte di ascoltare e di porre domande, di interrogarci e di scolpirci come “una statua”, direbbe Plotino, giorno dopo giorno ci abitueremo a pensare out of the box e risulteremo, anche per questo, più autorevoli per noi stessi e per gli altri.

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