“C’è gusto, nell’andarsene via. Il gusto del possibile, dell’ignoto, dell’incertezza. Di quella vita precaria che un po’ ci consuma, un po’ ci entusiasma. Forse siamo una generazione senza radici; forse le nostre radici sono solo allentate, e ci richiameranno a sé più in là. Oppure saremo noi a metterne di nuove, altrove, o a non metterle mai, per tutta la vita”. Su ilLibraio.it, una riflessione sul dolore di abbandonare il proprio luogo d’origine per ritrovare se stessi: “A volte, penso, chi se ne va non lo fa perché deve, ma perché vuole – anche se all’inizio non lo sa”

Ho lasciato casa senza chiedermi se sarebbe stato per sempre, con la docile rassegnazione di una persona di vent’anni che nasce al Sud e cresce con la parabola dell’andarsene via – “tutti al Nord vanno”, predicavano gli adulti, come se il Nord fosse una malattia che alla fine arriva e ti prende.

Il Nord, come da copione, ha infettato anche me: sono partita per Torino sette anni fa, incosciente come solo chi pensa di avere tutto il tempo per tornare può essere. La città mi ha riservato un’accoglienza poco felice – freddo, nebbia, silenzio. Percepivo diffidenza e astio. Perfino l’aria era tagliente. Il mio monolocale di trentatré metri quadri era una tana e un fosso insieme. Mi sentivo sola, e sola non ci volevo stare. Alla prima occasione, tornavo indietro. Mi precipitavo sul Frecciarossa e abbracciavo ben volentieri la croce di cinque ore e mezza di viaggio per rifugiarmi a casa, nel mio paese, tra le mie persone, al riparo da quello che Giovanni Pascoli ne La mia sera definisce un “cupo tumulto”: dopo “l’aspra bufera” del vivere in città, trova conforto tra i suoni familiari delle “allegre ranelle” e i singhiozzi monotoni del ruscello. Tanto è forte l’attaccamento al nido, che in Nebbia arriva perfino a implorare la nebbia di celargli le cose lontane: per non desiderarle, non vuole vederle (“Ch’io veda il cipresso / là, solo, / qui, solo quest’orto, cui presso / sonnecchia il mio cane”). Ripiegato su se stesso, Pascoli rifugge le cose del mondo e cerca con ostinazione di ricostruire ciò che è stato e che non può più essere.

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Anche io cercavo di tornare indietro, di ripristinare la sensazione di essere nel mio posto. Fallivo ogni volta, perché niente era più come l’avevo lasciato. Il paese, le persone, casa mia – quel vaso è sempre stato lì? Dove avete preso queste calamite? Da quando papà non si siede più a capotavola?

Lo dice bene Ilaria Gaspari ne La vita segreta delle emozioni (Einaudi): “Dentro di noi, segretamente, sappiamo che il passato è una terra straniera: lì valgono altre leggi, e il tempo ritrovato, se mai lo ritroviamo, non somiglierà al tempo che è stato”. Alla nostalgia, in breve, non c’è cura, ma all’epoca non lo sapevo, e devolvevo tutte le mie energie al deprimente tentativo di vivere in due luoghi insieme, di stare nel nuovo senza abbandonare il vecchio, un po’ lì un po’ qui, un po’ figlia di famiglia un po’ studentessa fuori sede, un po’ provinciale un po’ cittadina.

Ci ha pensato Milano a porre fine all’agonia. “Ci vado per lavoro”: così dicevo, cercando di sparire nello storico flusso migratorio che da decenni si muove dalle cittadine di provincia del Sud per preferirgli le grandi città del Nord, negando la mia parte di responsabilità, sostenendo che la mia non fosse una scelta ma una costrizione, non volendo ammettere che lontana da casa, lontana dal nido, in una terra che non avrebbe potuto essere più diversa da quella che mi ha generata, io, al contrario di Pascoli, ci stavo bene.

“[…] io non respiro qui. Voglio stare dove succedono le cose, e qui non succede niente, non imparo niente”, dice Claudia, la protagonista di Spatriati (di Marco Desiati, edito da Einaudi) insieme a Francesco. Sono entrambi nati a Martina Franca, in Puglia, ed entrambi l’hanno lasciata, chi prima (lei), chi dopo (lui). Milano, poi Londra, poi Berlino: specchi di una generazione sradicata, quelli che lo stesso Desiati definisce “gli incerti, gli irregolari, gli inclassificabili […] o forse, nel caso che ci riguarda, i liberati”.

Liberata mi ci sono sentita anche io, a un certo punto, quando ho visto quello che per anni non ho voluto vedere, e cioè che se davvero avessi voluto restare, sarei rimasta. Le giustificazioni razionali al mio allontanarmi – “qui non c’è quello che voglio studiare, qui non si trova lavoro” – non esauriscono la scelta di andare via. Perché a volte, penso, chi se ne va non lo fa perché deve, ma perché vuole – anche se all’inizio non lo sa.

Proprio come la Claudia di Desiati, che cerca una via di fuga con una furia incontenibile. Come Arturo Gerace che lascia Procida, l’isola che l’ha generato, cullato e protetto al pari di un grembo materno, e che continuerà a esistere quando lui l’avrà lasciata: “Non la si può uccidere, essa è un drago invulnerabile che sempre rinasce, con la sua fanciullezza meravigliosa”. Ma perfino per lui arriva l’ora di prendere il largo, e di scoprire chi è lontano da lì – “avanzando lungo il mare in quel grande mantello, mi sentivo già una specie di masnadiero, senza casa, né patria”.

Spatriati, sradicati, irrequieti, alla ricerca continua di un’emancipazione dalle origini, guidati dall’ambizione di evolvere e di esplorare la propria identità, di perdersi e ritrovarsi lontani dalle strutture sociali del paese, in una trasformazione costante che, prima o poi, ci riporta al punto di partenza.

C’è gusto, nell’andarsene via. Il gusto del possibile, dell’ignoto, dell’incertezza. Di quella vita precaria che un po’ ci consuma, un po’ ci entusiasma. Forse siamo una generazione senza radici; forse le nostre radici sono solo allentate, e ci richiameranno a sé più in là. Oppure saremo noi a metterne di nuove, altrove, o a non metterle mai, per tutta la vita.

Ma anche a chi ha deciso liberamente di andarsene è lecito provare il dolore del ritorno, tanto più intenso perché incurabile; ogni volta saremo chiamati a fare i conti con gli infiniti scenari possibili del “E se fossi rimasto?”, e ogni volta ci stupiremo nell’accorgerci di come tutto è cambiato, pur restando lo stesso. Ci cercheremo nel luogo in cui siamo nati e non ci troveremo perché, come scrive Gaspari, “sarà un tempo nuovo, come nuovi siamo noi nel momento in cui arriviamo a capire, finalmente, che vivere vuol dire rinnovarsi di continuo”.

Non è questo che sognavo da bambina

L’AUTRICE – Sara Canfailla lavora nella comunicazione ed è collaboratrice de ilLibraio.it. È co-autrice, con Jolanda Di Virgilio, del romanzo d’esordio Non è questo che sognavo da bambina (Garzanti).

Al centro del libro, ambientato in un’agenzia di comunicazione milanese (e in cui la città, i suoi locali, i suoi quartieri sono co-protagonisti), si racconta cosa significa diventare adulti oggi: le relazioni finite prima di cominciare, il senso di impotenza di fronte a un sistema lavorativo precario e ingiusto, la frustrazione di vivere in una città difficile, dove dicono che ci sia posto per tutti dimenticandosi di dire che, in quel posto, ci si sente molto soli.

L’APPUNTAMENTO CON LIBLIVE SULLA PAGINA FACEBOOK DE ILLIBRAIO.ITIl 6 settembre, alle ore 18, Sara Canfailla e Jolanda Di Virgilio presentano il loro romanzo Non è questo che sognavo da bambina con Teresa Ciabatti e Ilaria Gaspari

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