Dall’autore della saga bestseller “Blackwater”, Micheal McDowell (1950-1999), la riscoperta di un romanzo di vendetta in cui ogni personaggio è, a suo modo, il nemico di qualcun altro. Perché, quando è il male a confrontarsi con se stesso, resta un’unica certezza: la cattiveria che ne deriverà sarà, per l’effetto, moltiplicata…
Che, nel dissidio fra il bene e il male, a trionfare sia comunque il bene, questo ce lo insegna il lieto fine; quel che si verifica, invece, quando siano più mali a scontrarsi fra di loro, ciò non lascia spazio a dubbio alcuno: la cattiveria che ne deriva sarà, per l’effetto, moltiplicata.
Un’escalation di violenza, in altre parole: che si tratti di tensioni fra individui come pure delle guerre fra nazioni, ogni gesto di malvagità ne produce uno ulteriore di riflesso cosicché, per arrestarne il progredire, altro non rimane che confidare nel buonsenso.
E se ciò non accade? La carneficina è assicurata, come ci ricorda Michael McDowell nel suo classico da brivido Gli aghi d’oro (Neri Pozza, traduzione di Elena Cantoni).
Pubblicato dapprima nel 1980 e oggi riproposto in una veste ultra-social e piena di indizi – quella con la copertina dello spagnolo Pedro Oyarbide – il romanzo dell’autore della saga bestseller Blackwater ci trattiene da ogni tipo di ottimismo, raccontando di una faida fra famiglie in cui ogni personaggio è, a suo modo, il nemico di qualcun altro.
Già, perché nonostante si comprenda fin dal principio da che parte ci si debba schierare (nessuna), il pretesto della lotta di classe fra i benpensanti Stallworth e i lestofanti Shanks si rivela ben presto un’antipatia fra leviatani, talché fra i protagonisti non ve n’è uno che prevalga per bontà d’animo e/o per spirito di compassione.
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E che affonda le radici nella strumentalizzazione di un fatto di sangue: quando il corpo senza vita dell’avvocato Cyrus Butterfield viene ritrovato in Leroy Street con un ago da oppio conficcato nel petto, il giudice repubblicano James Stallworth non perde l’occasione per pianificare un’iniziativa elettorale che favorisca il genero Duncan nella candidatura alle assessoriali del 1883.
In particolare, è dalla bonifica “umana” del cosiddetto “Triangolo nero” – il luogo in cui si è consumato il delitto – che l’algido patriarca spera di ottenere il maggior numero di consensi; enclave abitativa per una moltitudine di povera gente ma pure quartiere fra i più malfamati di New York, il perimetro urbano governato dai democratici si impone alle notizie di cronaca anche grazie alla collusione dell’Herald Tribune, una testata giornalistica (di fantasia) che, interessata per motivi politici all’ascesa del movimento repubblicano, ne supporta la crociata anti-crimine con articoli di parte se non anche tendenziosi.
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Dei tanti, a finire nel mirino degli Stallworth è in particolare la cosca criminale Shanks, un presidio matriarcale che vede nella mammana Lena la capobanda di una numerosità di traffici illeciti (dagli aborti clandestini alla ricettazione, dalle rapine alla contraffazione); e proprio quando la furia giustizialista si abbatterà sulla cognata della donna – Maggie Kizer, una prostituta d’alto bordo che ha nascosto una relazione adulterina con un membro degli Stallworth – sarà quello il momento in cui la gangster affilerà davvero le sue armi, esibendo un arsenale di trucchetti che davvero nulla hanno a che invidiare a quelli utilizzati dalle più famose maschere dell’orrore (unghie di ottone e denti appuntiti compresi).
È nella seconda parte del romanzo, infatti, che la vena cinematografica dell’autore – il quale, prematuramente scomparso all’età di quarantanove anni, ha partecipato alla stesura di capolavori del calibro di Beetlejuice e di Nightmare Before Christmas – “esplode” in un vero e proprio bagno di sangue: non a caso un gotico-americano, la spirale di vendetta in cui muovono i due clan fa saltare sulla sedia come certe pellicole degli anni ’80, ricorrendo allo spavento senza mai deludere le aspettative (tipo quando al domicilio degli Stallworth vengono recapitate alcune partecipazioni a lutto, tutte listate con i loro stessi nomi).
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Sono queste pagine dall’estrema tensione narrativa; e mentre ci chiediamo non tanto chi, ma quando e come sarà il prossimo a cadere, assistiamo nel contempo alla disfatta dei due imperi, così differenti alle apparenze eppure tanto simili nell’ambizione (quella di un’egemonia senza scrupoli, prima di tutto). Eccezion fatta per la magnanima Helen Stallworth; forse unico personaggio con una coscienza morale all’interno del romanzo, la coraggiosa nipote si oppone all’ipocrisia dei consanguinei prendendosi cura degli sfortunati che abitano all’interno del Triangolo nero.
“Se ho una… reputazione”, risponde la giovane all’invettiva del nonno dopo essere stata scoperta fare visita agli ammalati assieme alla vedova Taunton, “è solo in virtù delle opere di carità che ho sempre svolto con amore, o così voglio sperare. Una reputazione”.
Della serie, la speranza è l’ultima a morire; Helen Stallworth, lei chissà.
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