Adolescente quattro anni dopo la promulgazione della legge Basaglia, Elba vive ancora in un manicomio, perché lì è nata e sua madre lì viene rinchiusa ancora incinta. Dopo il successo di romanzi come “Il treno dei bambini” e “Oliva Denaro”, Viola Ardone torna con “Grande meraviglia” e chiude la sua ideale trilogia del Novecento…

Al termine del Treno dei bambini (Einaudi Stile Libero, 2019), Amerigo, il protagonista del romanzo, dà compimento al suo viaggio a ritroso e torna per una volta dalla sua famiglia; al termine di Oliva Denaro (Einaudi Stile Libero, 2021), Oliva legge sul giornale dell’abrogazione degli articoli 544 e 587 del Codice penale avvenuta nel 1981; entrambi lasciano a Elba il testimone: Amerigo le assegna il compito di trovare (e poi ritrovare) la strada della famiglia, Oliva quello di fare i conti con la storia sociale e culturale italiana.

Grande meraviglia di Viola Ardone

Elba è la protagonista di Grande Meraviglia, in cui Viola Ardone quasi riprende le fila degli anni Ottanta lasciati in Oliva Denaro e si spinge in nuovi confini, per raccontare la storia di un’altra quindicenne: Elba. Adolescente quattro anni dopo la promulgazione della legge Basaglia, la ragazza vive ancora in un manicomio, il Fascione, perché lì è nata e sua madre lì viene rinchiusa ancora incinta.

La vita di Elba nasce al mezzomondo – o manicomio – e lì si forma: non conosce altra vita se non quella perché sua madre, ricoverata, la tiene con sé.

Grande Meraviglia inizia nel 1982 e poi subito prosegue su un altro binario temporale: quello del 2019 in cui troviamo Fausto Meraviglia invecchiato e depresso ed Elba che sembra non essere più parte della sua vita.

Nella prima parte del libro Elba prende la parola, raccontando con meticolosità il suo mondo, il mezzomondo, quello del manicomio Fascione: le persone che lo abitano con i loro nomi e soprannomi – Gilette, Nonna Sposina, la Nuova, Mastro Lindo, Lampadina, Riccioli d’Oro –  ciò che lo caratterizza – gli odori, lo sporco, la consistenza del cibo – e le cure che vengono riservate alle pazienti: queste ultime trovano un posto particolare, perché sono il fulcro di ogni altra azione intorno.

Elba mette le cose in chiaro in fretta, senza mezzi termini: lei non è pazza, ma vuole esserlo, per ricongiungersi con sua madre, per ritrovare quella connessione verbale e dunque emotiva che le legava un tempo. Elba gioca con le parole per descriverci il suo mondo, usa le rime, e si rivolge a noi mentre accoglie la nuova arrivata, ci dà un vocabolario logico e sensato che ci potrebbe permettere di entrare e di comprendere, ma a un patto: non fare mai l’errore di definirla alla stregua delle altre. Lei è stata dalle Suore a prendere la licenza media, dopotutto, ha visto un pezzo di mondo fuori e ha deciso con ferma volontà di tornare dentro. E niente in questa scelta deve sembrare assurda, anzi: deve darci il preciso presupposto al racconto.

Dice Elba: “Noi matte siamo piante con le radici in vista, le dico, tutto quello che è sotto si vede da fuori: se abbiamo fame ne abbiamo troppa, se non ne abbiamo non mangiamo più, se siamo contente cantiamo e balliamo, se siamo tristi è come se fossimo morte da un pezzo. Se abbiamo un sospetto è già diventato realtà, se abbiamo paura, la paura è una porta spalancata sul vuoto. Se abbiamo voglia di parlare, le parole diventano un fiume, come me in questo momento. E se non ne abbiamo più voglia, allora punto e basta”.

Elba racconta delle altre pazienti, e per somiglianza o differenza di se stessa, redige un Diario dei malanni di mente in cui annota ogni forma di insanità mentale con cui viene a contatto. Ognuna delle persone rinchiuse definisce un difetto che trova posto in quel luogo perché non ce l’ha fuori; la Legge Basaglia è di quattro anni prima ma lì non è ancora arrivata e nessuna sa che esiste, nessun infermiere si preoccupa di parlarne, nessun dottore sembra volerla applicare, finché arriva Fausto Meraviglia, un dottore “del nuovo corso” che propone cure alternative e punti di vista moderni.

Nella seconda parte del libro, che ci fa ritrovare il 31 dicembre 2019, è Fausto Meraviglia che racconta il “rimasuglio di vita tra le mani”: i suoi figli che non ha mai compreso, suo nipote che porta il suo nome e non riesce a chiamarlo nonno, e nessuno che lo ascolta, nessuno che gli chiede qualcosa: si rivolge a numeri verdi per trovare qualcuno con cui parlare, dialoga con gli assistenti virtuali, molto lontano dalla persona che nel 1982 era arrivata al mezzomondo, aveva preso il posto di Colavolpe, il direttore del manicomio, e non chiedeva aiuta a Lampadina per l’elettroshock.

Mentre ci danno i riferimenti del passato e del presente, Elba e Fausto li riannodano rimbalzandosi le ragioni; una parte non può esistere senza l’altra, nessun dottore ha la verità tra le mani, nessun essere umano può dirsi puramente sano, ma soprattutto: nessuna libertà è indolore. Ritroviamo Elba crescere come se fosse figlia di Fausto; Grande Meraviglia prosegue infatti con ancora due parti di storia: una a fine anni Ottanta, una di nuovo il 31 dicembre 2019 e lo fa arricchendo la storia con un coro di personaggi che si aggiungono e con altri scenari che si sostituiscono a quello del manicomio.

Il Fascione sembra appartenere a un tempo finito – come ogni luogo che cambia il futuro tentando di cambiare identità viene rinominato “Centro di salute mentale” – ma non siamo certi che sia così, né per Elba, né per Fausto, né per le donne che la ragazza aveva incontrato, che le sembrava conoscere profondamente e solo nominandole per difetto, ma che nella sua nuova vita di studentessa si rende conto di non aver del tutto compreso. Né infine per i figli di Fausto che da membri di un coro sullo sfondo si fanno sempre più vicini, più pieni e nel racconto tengono le fila delle ragioni di Fausto.

Dice Fausto: “Non è mancanza di memoria, ma di interesse. Invecchiare è un po’ come diventare poveri, signora, mi creda. Hai meno possibilità nella vita, meno gente che ti cerca, e arrivare a fine mese è ogni volta una scommessa. La dimenticanza, a pensarci bene, è un’ultima carezza della vita, lo sconto di pena previsto per chi ha vissuto troppo e ha più ricordi del necessario”.

Nella vita di Elba si passa dalla conoscenza meticolosa del mezzomondo al dubbio continuo del mondo, mentre per Fausto la conoscenza si sgretola e diventa inefficiente; con questa linea latente di racconto, Elba e Fausto saranno portati a decidere cosa fare del passato e nel caso di Elba comprendere come capire sua madre e le altre donne che ha conosciuto; si affida completamente a Fausto: studia, fa l’università, cede a una vita normale, ma di nascosto pretende conoscenza, comprensione. Non compila più il suo diario, ma cerca la ragione negli archivi, nelle carte ufficiali, nelle diagnosi e sui libri, seguendo il medesimo percorso di Fausto ma arrivando a conclusioni opposte, ritrovandosi infilata tra due muri molto stretti: da un lato il manicomio, dall’altro il mondo e lei che trova spifferi e spioncini che le raccontano sempre e solo una parte della storia.

Viola Ardone ci lascia in questo modo intuire cosa ha significato per la vita di molte persone il momento in cui un manicomio ha chiuso o si è andato semplicemente svuotando, mentre le cure si evolvevano aggiornandosi in nome di un bene superiore e più giusto, ma lasciandoci una considerazione sullo sfondo: ben prima di capire se in meglio o in peggio, quelle persone hanno affrontato un cambiamento enorme, hanno conosciuto i margini della libertà e scopertone le lacerazioni e per far spazio a un nuovo corso di cure c’è stato chi ci è rimasto nel mezzo per sempre.

Grande Meraviglia mette in luce un racconto di luoghi che modificano le persone –  i manicomi, le case, i fiumi e i mari – e di nomi che si fanno destino: Elba si chiama così per un grande fiume tedesco che finisce nel mare, Meraviglia è il cognome di Fausto che è il grande Meraviglia, un dottore del nuovo mondo che tenta di aggiustare e curare il vecchio ma che non sa dare mai seguito alla sorpresa e anzi incasella le vite dei suoi pazienti e della sua famiglia sfuggendo alle regole anti-Basaglia e trovandone di nuove. Lo stesso nome del manicomio, “Fascione”, riporta a qualcosa che circonda qualcosa d’altro, che tiene unito affinché niente possa sfuggire ricomporsi in modo diverso; infine, la grande meraviglia del titolo fluisce fino alla fine del racconto diventando una meraviglia grande, Elba che comprende cosa fare del “mezzo” in cui è intrappolata, tra un mondo e l’altro: è un gioco di parole, quello che Elba non esplicita ma sottintende sempre.

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