Giuseppe Conte, scrittore e poeta, è uno straordinario narratore di miti, e lo conferma la lettura de “Il mito greco e la manutenzione dell’anima”

Giuseppe Conte è uno straordinario narratore di miti, al punto perfetto d’incontro fra la sua poesia e i suoi romanzi, che ne sono naturalmente innervati ma che, com’è ovvio, hanno ciascuno ragioni diverse, grammatiche distinte, autonomie e identità loro propri.

Narrare i miti, come fa in questo Il mito greco e la manutenzione dell’anima (Giunti), implica una scrittura specifica, in cui il poeta e il romanziere  – come già in altri testi consimili, penso soprattutto a Terre del mito – sembrano ricongiungersi in una dimensione nuova.

Il mito greco e la manutenzione dell’anima

La sua lunga militanza, perché di questo si tratta, infine, per un mondo più libero, per un diverso rapporto con la natura e con l’amore, per una forma di resistenza umana, in nome della letteratura e della poesia, alla tecnica e alla nostra società, che definisce materialistica, povera, cieca, trova una felicità particolare quando, poniamo, ci racconta di Eros e Psiche e del loro amore impossibile, della loro carnalità che impone il buio e vieta a lei di gettare lo sguardo su di lui; di Eros che l’ha portate nel suo castello misterioso e ne ha fatto, attraverso l’amore, qualcosa di diverso e sconosciuto, destinato a dissolversi in una nebbia, in un’alba, in  mattino.

Allo stesso titolo, come in un’elegia, Conte insegue le estati e i tormenti di Adone, follemente amato da Afrodite “per la prima volta innamorata davvero”, ucciso per gelosia da Ares in veste di cinghiale, riportato in vita da uno Zeus commosso, forse sedotto, dalle lacrime della dea e da quell’amore totalizzante, richiamato infine dall’Ade almeno per i mesi della primavera. E nel mito sembra risuonare con una musica diversa la sua poesia, poniamo quella struggente di Fioriture e rifioriture. Adone è anche uno dei primi essere umani divinizzati che risorgono, nella nostra storia di miti, riti e religioni, uno dei momenti (impliciti) in cui Conte tesse i fili tra la grecità arcaica e le religioni monoteistiche, non per darne un’interpretazione filologica ma diremmo appassionata: perché i miti li interroga, ma soprattutto li vive.

Non condanna né contesta né razionalizza, considerato che al vaglio della ragione, non proprio lo strumento ideale per affrontarle, le favole diventano inerti, talvolta persino irritanti: al contrario, le fa semplicemente proprie, le lascia risuonare in sé grazie a quel “dono ermeneutico” di cui parlava James Hillman, ovvero “la capacità di immaginare in modo mitologico” che, sosteneva il grande psicoanalista-filosofo, è un’arte “simile” a quella del poeta. Il suo non è un catalogo di miti, di schede, di ricostruzioni – come ce ne sono tanti – che tengono conto minuzioso della volatilità mitica. Le antiche storie non sono mai univoche e coerenti, hanno infinite variazioni, ma ruotano ovviamente intorno a un nocciolo potente e diremmo irradiante.

È questo l’argomento vero del libro, che i noccioli raggruppa e ordina per temi, anzi per figure: Figure del mito per ventiquattro movimenti umani è infatti il titolo della parte centrale e più corposa. I “movimenti umani” sono le passioni, i sogni, la forza e la debolezza dell’anima, secondo la definizione che ne dette Dante nella Commedia. E l’anima da “manutenere”, termine in sé ambiguo e di non univoca definizione, è qui a intendersi nel senso che le dette Hillman, per certi versi il punto di partenza dal quale Conte un poco, alla fine, sembra discostarsi muovendosi verso i temi della propria poetica. L’anima per lui è il luogo di convergenza tra corpo e spirito – in una sorta di struttura trinitaria.

Viene alla mente, ricordo dei nostri studi liceali, la “animula vagula blandula”, quella “hospes comesque corporis” perduta in luoghi incolori, ardui e spogli. Si trattava però, nei brevi versi dell’imperatore Adriano, dei luoghi della morte. In Conte, l’anima è altrettanto bisognosa di conforto, ma nella vita della soffocante contemporaneità. È minacciata, e viva. “Manutenerla” vuol dire riscoprirla, liberarla, persino aggiustarla rimediando alle offese e alle rotture, e questo si può fare cominciando a capire, ciascuno di noi, qual è il mito dominante della nostra vita, in che mito stiamo vivendo (pur senza esserne consapevoli): perché i miti non sono vangeli, non contemplano distinzioni etiche tra bene e male; semmai si equilibrano, si scontrano, si compongono. Apollo deve venire a patti con Afrodite per non chiudersi in una torre di solitudine, Hermes non può abbandonarsi alla sola leggerezza, e magari al commercio, Prometeo non può distruggere il mondo; Narciso deve essere temperato dall’energia oscura dell’amore, per non farci cadere nel solipsismo (la narrazione del suo mito è uno dei momenti più avvincenti, peraltro, del libro).

“Se sai riconoscere i miti che stai vivendo, è già oltre il pericolo di tracollare”: quei miti, dice Conte alla “cara lettrice” e al “caro lettore”, le figure del mito greco, “che tu lo sappia o no”, si muovono “sulla scena della tua anima”.

L’ultima sezione, considerato il passo del viaggio nel mito, è quasi di necessità un libro d’ore, il vademecum per una manutenzione quotidiana delineato sui tempi della giornata, dal mattino alla notte. Non si tratta di preghiere ma di aforismi, talvolta ironici, quasi un lungo mantra, che va dal severo “Fai i conti coi tuoi desideri. Non reprimerli mai. Impara a governarli sempre” al delizioso: “Beato il paese che non ha bisogno di antieroi”.

Al quale aggiungeremmo di controcanto, e affettuosamente, un nostro codicillo che è tuttavia implicito nel discorso appassionato, anarchico e in fondo laico di Conte, e nella sua stessa lettura dei greci: beato anche, e forse più, il paese che non ha bisogno di testi sacri.

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