Sul confine tra l’identità dell’autore e quella del personaggio che dice io si gioca non tanto un’idea di letteratura, ma il nostro stesso rapporto con la letteratura, la domanda inevasa su ciò che stiamo facendo, che stiamo provando, che stiamo vivendo quando ci immergiamo in un libro. A 100 anni dalla morte di Marcel Proust, su ilLibraio.it la riflessione di Mario Baudino, a partire da “Proust senza tempo” di Alessandro Piperno e dai libri sull’autore della “Recherche” (che conosceva il valore della propria opera, e ci credeva fino in fondo, giocando col lettore un po’ come il gatto col topo…) firmati da Giuseppe Scaraffia e Daria Galateria

“Accusatemi pure di melensaggine – scrive Alessandro Piperno in Proust senza tempo (Mondadori) -, ma scordatevi che alla mia età mi privi del piacere romantico di sovrapporre il destino di Proust a quello del suo alter ego. Sordo come sono a qualsiasi confessione religiosa, ho bisogno di credere che la vita si specchi benignamente nell’arte. E ne ho bisogno soprattutto quando mi sento di pessimo umore”.

Da critico-lettore che sa parlare soprattutto di sé, specchiandosi nell’autore, centra così un nodo si direbbe fondamentale per tutti noi lettori (magari non critici di professione né di elezione) della Recherche. Perché, al di là del lungo dibattitto sulla distinzione tra io che scrive e io che vive, tanto cara a Marcel Proust al punto da trasformare com’è noto il suo saggio contro Sainte-Beuve nel monumento narrativo del tempo perduto e ritrovato, è vero che proprio sul confine tra l’identità dell’autore e quella del personaggio che dice io si gioca non tanto un’idea di letteratura, ma il nostro stesso rapporto con la letteratura, la domanda inevasa su ciò che stiamo facendo, che stiamo provando, che stiamo vivendo quando ci immergiamo in un libro.

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È evidente che il caso di Proust è molto rappresentativo di questa condizione, anche se non è il solo. Per esempio il narratore della Recherche non ha nome, ma nella Prigioniera, poi nella Fuggitiva emerge, sempre pronunciato, o scritto, da Albertine un ironico Marcel: “Diceva: ‘Mio’ o ‘Mio caro’, seguiti l’uno o l’altro dal mio nome di battesimo, il che, dando al narratore lo stesso nome dell’autore di questo libro, avrebbe fatto: ‘Mio Marcel’, ‘Mio caro Marcel’”. E se il contesto può suonare un po’ contorto, oltre che marcatamente ironico, certo spiega – almeno considerata la trasparenza del personaggio di Albertine – quelle che Piperno definisce “le ragioni per cui (Proust) voleva tenere i ficcanaso a debita distanza dagli affari suoi” ragioni non certo “artistiche” ma privatissime.

Marcel si maschera per tenere in sottofondo la propria vita privata, per certi aspetti scandalosa – anche se non doveva sembrarlo troppo nel suo ambiente, considerato che non faceva molto per nasconderla: eppure, nello stesso tempo, vi allude continuamente, anzi “è il primo ad adoperarsi affinché tale mito” (ma attenzione, non quello delle sue scelte sessuali, ma del ragazzo timido se pure travagliato da desideri, poi mondano inconcludente, infine scrittore inavvicinabile, chiuso nel fuoco esclusivo del proprio lavoro) “si diffondesse come un’epidemia”.

Lui conosce il valore della propria opera, e ci crede fino in fondo. Gioca col lettore un po’ come il gatto col topo, sapendo che alla fine sarà il libro a prevalere. L’epidemia ha così colpito più o meno tutti, ad onta della messa in guardia un po’ snob e anzi secondo Piperno “scriteriata”, di Vladimir Nabokov, che in una sua lezione ammonisce gli allievi americani: “C’è una cosa che dovete imprimervi bene in mente: l’opera non è un’autobiografia, il narratore non è Proust in persona e i personaggi non sono mai esistiti se non nella mente dell’autore. Non occupiamoci, quindi, della sua vita che in questo caso non è importante e anzi ingenererebbe soltanto confusione, soprattutto perché narratore e autore s’assomigliano per più di un aspetto e si muovono pressappoco nel medesimo ambiente”. Parole al vento: la Recherche (nella definizione di René Girard, “un romanzo e la genesi di questo romanzo” nello stesso tempo) ci spinge quasi irresistibilmente a cercare la biografia.

marcel proust Giuseppe Scaraffia

Piperno nel “suo” Proust (e il gesto di appropriazione che c’è nel titolo del libro dice molto) ne è ben consapevole, pur ritenendo comunque “utile ribadire che chiunque scambi un grande romanzo per un’autobiografia, oltre a peccare di dabbenaggine, nega l’essenza, per così dire, astorica del genio letterario”, perché com’è ovvio “non tutti gli snob, non tutti i malati cronici, non tutti gli omosessuali, non tutti i mezzi ebrei affascinati dall’aristocrazia sono destinati a diventare Proust” (e ci mancherebbe).

La biografia o il pettegolezzo (su Proust ce n’è una valanga) da un certo punto di vista non spiegano niente, sono forse inutili se cerchiamo in esse le ragioni di una genesi: in fondo, tornando a Nabokov, i grandi romanzi sono “grandi fiabe”, non solo, ma sotto questo aspetto le grandi idee prese in sé “non servono a nulla” – figuriamoci le piccole. E tuttavia a volte le favole possono rivelarsi due, parallele e intersecate: e qualcosa le idee, le biografie, le mitologie costruite intorno a esse infine ci dicono: soprattutto quando il romanzo ci sta parlando del tempo.

Proust non è ovviamente il solo che lo faccia, anche se è, fra i molti scrittori che hanno affrontato il tema, quello in grado di andar più lontano, o più a fondo. Come dice ancora Piperno, da lettore e con la libertà (condizionata) che ne consegue, fra i romanzi “capaci di avvincerti e a cui tornare spesso e volentieri” non c’è n’è uno “che non abbia trovato un modo tutto suo di scolpire il Tempo”. È una dichiarazione d’amore, o di poetica, e soprattutto come dargli torto? In ogni caso è una dichiarazione largamente sottoscrivibile, anche perché ci riporta al tema della nostra sete di biografia, una sete che tuttavia non è uguale per tutti: perché ad esempio fra i grandi che si sono misurati con “l’oppio del tempo” (la metafora è di W. G. Sebald) – ci sono stati anche i memorialistici “classici”, si pensi a un Rousseau o a un Casanova. Ricordavano, modificavano, inventavano. Ma in fondo il loro lavoro (fatto per non morire di malinconia, diceva il cavaliere di Seingalt, o per porre se stesso in una sorta di posizione monumentale ed esemplare, alla fin fine per narcisismo come accade al ginevrino) presumeva un diverso modo di confrontarsi.

Daria Galateria il bestiario di Proust

Proust scava nella propria memoria in una sorta di utopia dell’eternità (con l’aiuto di strumenti, dall’arte all’ironia, che rendono “la morte meno probabile”, come scrive a proposito della “frasetta” musical di Vinteuil); ma se guardiamo a Sebald, che pare il suo esatto rovescio, ecco che lo vediamo operare da necromante, scavare, evocare un regno di morti per rispondere al loro appello.

E sarà da notare, incidentalmente, che la sua biografia di esiliato, di viaggiatore, di camminatore instancabile, pure con un alto potenziale “mitologico”, sembra non interessare a nessuno: forse perché non aggiunge molto alla particolare narrativa e naturalmente alla grandezza dell’autore. C’è già tutto sui libri, quel che si deve capire, quello che ci tormenta e quel che si deve, diciamo così, indovinare.

Proust, a tutto dire, è invece imparagonabile. Come scrittore e come mito. C’è persino chi lo trova “noioso”, ma è uno sciagurato – anche se forse, nella vita quotidiana, Marcel un poco lo era, noioso e persino antipatico. Ma è una vita, la sua, che continua a riguardarci. Basta leggere la nuova edizione tascabile, appena uscita per Bompiani, della biografia che gli dedicò Giuseppe Scaraffia (una biografia che è nello stesso tempo una lettura della Recherche, i due piani sembrano davvero inestricabili), o, in una trasposizione tutta al testo, quel catalogo affascinante che Daria Galateria ha dedicato al tema dei “suoi” animali in Il bestiario di Proust (Sellerio).

Marcel, quello che viveva la quotidianità di un ricco borghese alla ricerca del Libro non perduto ma possibile e persino, nel suo modo altamente contraddittorio, salvifico, non ne poteva tenere, considerata l’asma e l’ipocondria; ma il narratore sembra viaggiare attorniato da un’enorme arca dove ai cavalli che appassionavano Albertine si aggiungono – e qui bisogna ammettere che non ce ne eravamo accorti se non in minima parte – il serpente boa o la balena, le foche, i gabbiani, tutti oggetto di qualche invidia per la loro libertà (anche dal pensiero): e le vespe, i topi, gli esseri favolosi come la Fenice o quelli metaforici che ci descrivono i personaggi chiave: ad esempio la duchessa di Guermantes la cui pelliccia ricorda “un piumaggio spesso, fulvo e dolce di un avvoltoio”.

È così che si attua tra esistenza reale (ma quanto reale?) e fittizia, letteraria (ma quanto fittizia?) una sorta di opus alchemico, quello stesso che Piperno, perdonandogli infine l’affermazione “scriteriata” trova ancora una volta nelle parole del suo amato Nabokov, un sigillo stilistico: “Le conversazioni e le descrizioni sfumano l’una nell’altra, creando un nuovo elemento unico, in cui il fiore, la foglia e l’insetto appartengono a uno stesso e solo albero in fiore”.

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