“I tormentoni musicali – come sostiene il filosofo e musicologo Peter Szendy – sono ‘intimni’, cioè inni collettivi e melodie intime allo stesso tempo, merci in serie capaci di veicolare una nostalgia tutta personale. La canzone pop è il linguaggio della nostalgia ai tempi della sua riproducibilità tecnica: ripete un banale e commerciale cliché buono per tutte le stagioni e per tutti i palati, eppure è unica e singolare per chi la ascolta”. In occasione dell’uscita del libro “Yesterday. Filosofia della Nostalgia”, la riflessione di Lucrezia Ercoli sulle canzoni di Sanremo e su tutti i brividi che ci lasciano adesso i tormentoni pop (dai Boomer ai Millennials, passando per la Gen Z)

“Se alla fine della nostra vita ci fosse consentito di dire qualcosa, canteremmo una canzonetta, come riassunto di tutta un’esistenza”. Le parole pronunciate da Federico Fellini in una delle sue ultime interviste sono la sintesi più efficace per spiegare il successo sempiterno e irriducibile del festival della canzone italiana che si è da poco concluso.

Quando si affievoliscono le luci della ribalta, quando cessa il tempo delle polemiche, quando si affievolisce il ricordo di costumi di scena che vorrebbero essere memorabili e di gaffe che sul momento ci paiono insostenibili, rimane soltanto una cosa di Sanremo: le canzoni. Indipendentemente dai vincitori e dagli sconfitti, indipendentemente dalle classifiche di gradimento e dai premi dimenticabili che proliferano all’interno della kermesse.

Poco importa se la commissione musicale ha deciso di premiare come miglior testo una canzone banale infarcita di una serie di luoghi comuni elencati – va sottolineato – in rima baciata. E poco importa se i palati più fini sono insorti, urlando a gran voce allo scandalo. No, nei nostri ricordi non rimarranno le polemiche. E nemmeno la canzone di Fabrizio Moro. Forse non rimarrà neanche quella più intelligente e poetica di Giovanni Truppi.

Solo alcuni di questi brani musicali diventeranno “tormentoni” capaci di riassumere la nostra esistenza. E le motivazioni, per la maggior parte, hanno poco a che fare con la serie di variabili che, nel qui e ora della diretta, catalizzano la nostra attenzione.

Come dei “grandi tormenti”, alcune di queste canzoni sapranno abitare il nostro mondo interiore, sapranno entrare in sintonia con il ritmo della nostra esistenza, trasformando emozioni collettive in ricordi personali. Perché i tormentoni musicali – come sostiene il filosofo e musicologo Peter Szendy – sono intimni, cioè inni collettivi e melodie intime allo stesso tempo, merci in serie capaci di veicolare una nostalgia tutta personale. La canzone pop è il linguaggio della nostalgia ai tempi della sua riproducibilità tecnica: ripete un banale e commerciale cliché buono per tutte le stagioni e per tutti i palati, eppure è unica e singolare per chi la ascolta.

Perfino Pier Paolo Pasolini scriveva: “le intermittenze del cuore più violente sono quelle che si provano ascoltando una canzonetta”. Ascoltando alcune canzoni italiane ci capita, senza volerlo, di perdere la nostra corazza di sprezzante cinismo: è la casa della nostra intermittenza amorosa, il luogo amato verso cui desideriamo tornare, il lessico familiare da cui non possiamo separarci. Ci duole ammetterlo, ma non ci saremmo mai innamorati con la stessa intensità, se non avessimo mai sentito cantare dell’amore nella nostra lingua materna.

Non è poi così difficile immaginarci tra qualche anno, bloccati nel traffico in tangenziale, ad ascoltare una playlist nostalgica su Spotify, investiti in pieno da un ricordo degli anni della pandemia sulle note del duetto vincitore del Festival. Non sarà la qualità intrinseca di quella “musica leggerissima” ad avere un qualche effetto su di noi, quanto il suo potere di riportarci a un momento preciso del nostro passato che ad essa è legato a doppio filo.

Le canzoni – soprattutto quelle apparentemente più banali, disimpegnate, futili – ci toccano nel profondo anche quando le abbiamo ascoltate fino alla nausea, snidano ciò che pensavamo di aver dimenticato, sbloccano un ricordo perduto. Insomma, al di là del gusto della critica televisiva e sociologica, non possiamo fare a meno di Sanremo perché, come ha chiosato Marcel Proust, la musica popolare “si è riempita del sogno e delle lacrime degli uomini, il suo posto è immenso nella storia sentimentale della società”.

Il festival della canzone italiana è, da sempre, la cartina di tornasole del momento storico, il sismografo capace di intercettare lo “spirito del tempo”. Bisognerebbe parlare di Sanremo al plurale: ogni generazione ha il suo festival, ogni decennio ha le sue canzoni simboliche, ogni cesura storica ha la sua educazione sentimentale.

I festival degli anni ’60, per esempio, rimangono gli epigoni di una lunga stagione d’oro in cui prodotto artistico, mercato della canzone e richieste dei consumatori coincidevano armonicamente. Il consumatore, cioè, si riconosceva pienamente nell’offerta musicale proposta da Sanremo perché in Italia c’era un solo linguaggio comune: quello della RAI. Prima del Sessantotto confluiscono a Sanremo le vocalità e gli argomenti che daranno vita alla disordinata stagione degli anni ’70.

Il boom economico e la contestazione si manifestano e si esorcizzano anche sul palco dell’Ariston. Come ha scritto Umberto Eco nella sua cronaca del Festival per l’Espresso nel 1967, l’anno della canzone di protesta e della vittoria di Claudio Villa, Sanremo funziona “per il mercato della pace, senza dispiacere a quello delle rose”.

E oggi? Le ultime edizione sembrano essere riuscite – seppure tra gaffe e polemiche di ogni tipo – ad aprirsi alle nuove generazioni educate da internet e dai talent show, intercettando vincitori e personaggi da Amici di Maria De Filippi e da X Factor, ma anche fenomeni che portano la bandiera di nuove narrazioni e di nuove identità. Un pastiche che deve mettere d’accordo tutti: ci sono Massimo Ranieri e Achille Lauro, Gianni Morandi e San Giovanni, Donatella Rettore e Ana Mena, Orietta Berti e Rovazzi. Tutti i gusti più uno.

Lo spirito del tempo ci mostra una società che deve convivere con profonde e insanabili contraddizioni e il palco di Sanremo deve essere il più inclusivo possibile: ciò che è considerato normale e ciò che appare diverso e alternativo; ciò che è popolare e ciò che è indipendente; il piccolo mondo antico e le nuove istanze del mondo contemporaneo.

Sanremo sembra mettere d’accordo tutta la famiglia italiana contemporanea. Dai nonni Boomer che invocano la vittoria di Gianni Morandi ai Millenials ormai diventati genitori che, per la prima volta, si lasciano andare alla nostalgia ascoltando Cesare Cremonini (50 Special è uscita più di vent’anni fa, ahinoi!). Fino alla generazione Z a cui si rivolgono Aka7even e Sangiovanni.

La nota stonata, però, appare evidente con la serata dedicata alle “cover”. Tra passato e presente, tra revival e novità non c’è gara. Non solo i testi e le musiche di ieri appaiono più potenti e avanguardistici rispetto a quelli di oggi, ma gli stessi artisti sono il pallido ricordo di ciò che erano (non a caso sbanca il televoto il vecchio Morandi di Occhi di ragazza e Un mondo d’amore non il nuovo Morandi di Apri tutte le porte).

L’unica vera avanguardia del festival, ancora una volta, è quella che imita il passato. Il torso nudo, i pantaloni di pelle e il movimento pelvico di Achille Lauro sono un’imitazione senza autenticità di una trasgressione che sa di già visto, e perfino la sua nuova canzone (Domenica) imita una sua precedente (Rolls Royce).

È il trionfo della retromania, come l’ha definita il critico musicale Simon Reynolds: i migliori artisti degli ultimi anni fanno musica che ripensa o riproduce musica precedente, i nuovi miti sono una rivisitazione dei miti passati. Viviamo in una iperstasi. Da un lato una quantità incredibile di cambiamenti che modificano la vita sociale, dall’altro una standardizzazione culturale che sembra piegata su una nostalgia incapace di dar vita a qualsivoglia novità.

In questo eterno ritorno dell’identico ci sarà ancora spazio per nuovi “brividi”?

FILOSOFIA DELLA NOSTALGIA LUCREZIA ERCOLI

L’AUTRICE E IL LIBRO – Lucrezia Ercoli, nata a Macerata, è docente di Storia dello spettacolo all’Accademia di belle arti di Bologna. Dal 2011 è ideatrice e direttrice artistica del festival di filosofia del contemporaneo Popsophia, che coniuga la riflessione filosofica con i fenomeni pop della cultura di massa. Ercoli ha conseguito un dottorato di ricerca in Filosofia e Teoria delle scienze umane presso l’Università degli studi di Roma Tre, dove ha collaborato con le cattedre di Estetica musicale e Filosofia morale. Tra i suoi ultimi saggi, Chiara Ferragni. Filosofia di una influencer, il Melangolo, 2020.

Ponte alle Grazie porta ora in libreria Yesterday. Filosofia della Nostalgia, che si sofferma su una tendenza degli ultimi anni: il suono della fotocamera del nostro smartphone riproduce il clic di scatto di una macchina analogica. Il meccanismo della nostalgia comincia da qui, da una profonda contraddizione insita nella promessa tecnologica del nuovo millennio, che sembra fondarsi proprio sul bisogno di re-immaginare il passato, invece che inventare il futuro.

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Retro-topia l’ha chiamata Zygmunt Bauman. “La versione contemporanea della nostalgia si è sviluppata con l’aumento delle tecnologie. […] Viviamo in un ‘supermercato della memoria’ come lo ha definito l’antropologo Arjun Appadurai. I nuovi strumenti tecnologici di archiviazione rendono fruibile e disponibile sincronicamente tutto il passato”, scrive Lucrezia Ercoli, sondando con lo sguardo della filosofia il nostro tempo. Quando la moda, il cinema, le serie tv e i social network si guardano indietro in un’ottica celebrativa significa che il futuro non è più percorribile? Sin dagli albori dell’umanità, il mito di un’età dell’oro precedente ha scandito i momenti di crisi: se la fiducia verso ciò che ci aspetta viene meno, non resta che ancorarsi a un tempo remoto. Per uscire da questa impasse l’autrice prova a tracciare i contorni dell’invenzione della ‘nostalgia’. Scorgere fra le vetrine, gli spot televisivi e il cinema il funzionamento dell’effetto nostalgico ci consente di ridimensionare il fenomeno e di avvicinarci alla sua comprensione. Forse è proprio dove si avverte il bisogno di tornare indietro che comincia a delinearsi il futuro.

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