“La città femminista” di Leslie Kern individua le zone d’ombra delle città in cui viviamo, e si pone domande su come renderle luoghi di vita comune che accolgano tutte le esistenze: come si arriva alla città femminista? – L’approfondimento

Un gruppo di ragazze balla sui tetti, filmandosi con il cellulare; queste stesse ragazze, di spalle, indicano i grattacieli della City, la loro silhouette che si staglia contro lo skyline londinese. Così inizia Rocks, film del 2019 diretto da Sarah Gavron, e leggendo La città femminista di Leslie Kern, uscito per Treccani nella traduzione di Natascia Pennacchietti, queste immagini vengono richiamate alla mente, pur non comparendo nel testo. Shola, la Rocks del titolo, è una sedicenne di Hackney che un giorno torna a casa e scopre che la madre se ne è andata, lasciandole una mazzetta di sterline per provvedere a se stessa e al fratellino. Nel tentativo di sfuggire ai servizi sociali Shola esce sulla strada, ma le sue amiche le sono accanto, e insieme abitano il loro spazio, con tutti i mezzi di cui riescono a disporre.

La città femminista, Leslie Kern

Leslie Kern, professoressa associata di Geografia e ambiente alla Mount Allison University, probabilmente non ha visto Rocks prima della stesura del suo saggio La città femminista, che è uscito per Verso books proprio nel 2019, ma prende comunque in esame diverse opere cinematografiche e seriali che raccontano il rapporto tra la città e i suoi abitanti, analizzando le problematicità insite nei topos a cui siamo abituati, dalle quattro bianche amiche in carriera ai teen movie dove i luoghi di ritrovo preferiti per le adolescenti sono la camera da letto e i centri commerciali. L’analisi di Kern è volta a individuare le zone d’ombra delle città in cui viviamo, e a porsi domande su come renderle luoghi di vita comune che accolgano tutte le esistenze: come si arriva alla città femminista?

La città non è costruita per chi non rientra nella categoria standard del maschio bianco etero cis abile e di reddito medio-alto. Un modello assurdamente specifico per costruire uno spazio che dovrebbe essere abitabile per una pluralità di persone, e ancora più improbabile quando viene applicato a metropoli come Londra e Toronto, le città che Kern analizza in particolare perché quelle che ha conosciuto personalmente.

Partendo dalla propria esperienza, che, premette, è quella di una donna bianca altamente educata, Kern ragiona sui molteplici modi in cui le città che viviamo, dalla loro formazione storica ai giorni nostri, si siano sviluppate assecondando la società capitalista-patriarcale, diventando escludenti e pericolose per la maggior parte delle persone che le abitano.

Quando si ragiona su come rendere una città più sicura senza fare lo sforzo di allargare lo sguardo, inevitabilmente figure come quella di Kern finiscono per diventare a loro volta una minaccia: proteggere le donne bianche si è tradotto fino ad adesso in un’azione di ulteriore emarginazione per chi abita nei quartieri periferici, stigmatizzati come luoghi pericolosi in quanto abitati da chi ha una minore disponibilità economica, e spesso multietnici – e mano a mano che la città capitalista si espande, gentrificando quegli stessi quartieri, la povertà non viene superata, ma spostata ancora più lontano dal centro, dove i servizi che continuano a essere più efficienti diventano ancora meno accessibili. Tra l’altro, tutto questo senza enfatizzare dove avviene la maggior parte delle violenze, ossia tra le mure domestiche, o da parte di uomini conosciuti.

Nella sua disamina Kern cerca di abbracciare il più possibile le molteplici esigenze che la vita comune dovrebbe considerare. Il tema dei bagni pubblici, ad esempio, che viene strumentalizzato da quelle frange radicali che discriminano le persone trans, rivela come siano invece i posti dove le stesse persone trans sono esposte a un maggiore pericolo, per il controllo che viene esercitato su di loro non solo dall’autorità, ma in maniera più capillare dagli altri utenti di questi bagni.

La maternità è stata poi per Kern l’occasione di riflettere su come i mezzi pubblici non siano organizzati tenendo conto delle esigenze di chi più ne ha bisogno – madri con passeggini, persone disabili, persone che abitano in quartieri scollegati – ma disegnati su misura per il pendolare che va in ufficio alle nove e torna a casa alle cinque.

Come il capitalismo sia fortemente radicato nelle scelte urbanistiche è evidente anche nell’assenza di luoghi di aggregazione femminile che non implichino il consumo. È sempre riproposto l’immaginario dei sobborghi, che con i loro aspetti ordinati non sono che un sistema per isolare le abitanti di quelle case, ridotte a una socializzazione minima, alla lontananza dalle strutture centrali, e che per l’appunto hanno come rifugio il centro commerciale, dove sono bombardate dall’invito a comprare.

Allo stesso modo, mancano spazi sicuri per la comunità LGBTQ+: anche la manifestazione del Pride anno dopo anno vede sempre più ingombrante la presenza delle multinazionali che appongono i loro loghi ben visibili. Sulle proteste Kern apre poi un ulteriore capitolo: all’interno dei contesti di attivismo che ha frequentato ci sono discriminazioni, cecità di fronte alle contraddizioni che mettono in pericolo l’incolumità di tutti i partecipanti – di nuovo, il caso in cui la polizia viene ammessa al Pride – per non parlare di come si tenda a traslare anche qui lo schema della famiglia nucleare, per cui alle donne spetta la cura e agli uomini l’azione.

Narrazioni di empowerment femminile, come quelle mostrate in serie come Sex and the city, non sono soluzioni: non solo per l’associazione immediata che si va a creare tra una liberazione femminile e il successo individuale, ma perché escludono ancora una maggioranza delle e degli utenti della città. Anzi, la popolarità di serie che celebrano questo tipo di vita cittadina finisce per allargare il raggio di azione del mercato immobiliare.

Nel cinema occidentale conosciamo pochi esempi dove persone nere, per esempio, rivendicano spazi cittadini: in questo splende il frame iniziale di Rocks, dove le protagoniste sono mostrate come parti integranti dello skyline londinese. L’intento di Gavron e Ikoko (sceneggiatrice) nella scrittura del film è quello di mostrare la gioia dell’amicizia femminile, e dipingere in maniera precisa le adolescenti inglesi di oggi, nei rapporti tra loro e lo spazio intorno. La stessa realizzazione del film è stata per questo motivo antigerarchica, e le attrici non professioniste hanno collaborato attivamente alla costruzione delle scene, portando la propria esperienza. Questa cooperazione è una delle possibili risposte alle domande che Kern apre nella sua analisi.

La città femminista è un processo, una sedimentazione di consapevolezze e attività che impattano sul paesaggio intorno. L’approccio che propone Kern non può che essere intersezionale: prendere coscienza e ascolto di tutte le esistenze e i bisogni che si portano dietro, per stare in una realtà sfaccettata e multiforme. Da un femminismo che potremmo chiamare del buon senso, quello per cui certe cose sono semplicemente ingiuste, l’invito è di muoversi verso un pensiero che sia controintuitivo, non perché vada in una direzione contraria a quelli che consideriamo principi base di umanità, tutto il contrario: ma la stessa educazione di chi è cresciuto in contesti bianchi e benestanti impedisce di vedere l’oppressione dietro scelte urbanistiche date per scontate.

Il cosiddetto decoro riempie i titoli dei giornali, ma è un problema che non esiste: nasce nel momento in cui si vuole togliere vitalità a un centro per renderlo più appetibile sotto un profilo esclusivamente economico, e soprattutto nel momento in cui si vuole cancellare l’esistenza di quegli abitanti che nessuna statistica considera, come le persone senza dimora.
L’architettura ostile, in effetti, è il vero problema.

La bellezza di film come Rocks, e di testi come quello di Kern, sta in questo: una proposta che tenga conto di una collettività, della necessità dell’ascolto e di formare legami che siano più forti del cemento. La città è lo spazio della molteplicità: è nella città che dobbiamo poterci fare una casa, una famiglia, una comunità.

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