C’è un poeta che dall’Olimpo dei classici sembra essere ridisceso sulla nostra modernità come una sorta di ferita aperta, o anche solo una domanda ineludibile, Publio Ovidio Nasone. Tutti i classici sono in un certo qual modo contemporanei: ma più di altri l’autore delle “Metamorfosi”…

Tra i finalisti del Campiello, come è stato del resto ampiamente notato, domina quest’anno la non-fiction, più ancora di quanto sia accaduto per lo Strega, ed è difficile oltre che azzardato dire se si tratti di un segnale positivo, negativo, inquietante o quantomeno problematico.

In ogni caso, nessuno dei cinque titoli sembra giocare sulle note del patetico o del commovente, o sul facile intrattenimento sentimentale; se vogliamo, è già un dato incoraggiante. Non lo fa in primissimo luogo In cerca di Pan (Nottetempo), il prosimetro di Filippo Tuena al centro del quale c’è un poeta che dall’Olimpo dei classici sembra essere ridisceso sulla nostra modernità come una sorta di ferita aperta, o anche solo una domanda ineludibile.

filippo tuena in cerca di pan

Tutti i classici sono in un certo qual modo contemporanei: ma più di altri il Publio Ovidio Nasone esiliato a Tomi, l’attuale Costanza, sul Mar Nero, è diventato tale e non da ieri, irradiando di sé ad esempio la poesia, da PuskinMandel’štam fino a Iosif Aleksandrovič Brodskij; e se Derek Walcott dialoga con il suo fantasma proprio circa questioni di lingua chiedendo a lui, che nelle poesie dall’esilio lamenta di aver perso il suo latino, se dunque un poeta caraibico possa usare l’inglese dei conquistatori, posto che “no language is neutral”, Brodskij indica nel celebre verso ovidiano “Nec sine te nec cum te vivere possum” (non posso vivere né con te né senza di te) il dilemma ossimorico da cui si sente imprigionato, dissidente in esilio dalla pur rimpianta patria comunista.

Sa che “Nasone non è pronto a morire. / Perciò è cupo. / Il gelo della Sarmazia / gli confonde la mente”, e anche in questo lo vede come un fratello che gli ricorda il gelo del Gulag.

Persino Bob Dylan si rifà ai Tristia nell’album Modern Times.

Poi ci sono le narrazioni: su tutt’altro versante politico e ideologico, il romeno Vintila Horia pubblica nel ’60 Dio è nato in esilio, il primo romanzo novecentesco che fa proprio lo scenario di Tomi – e attribuisce piamente al poeta una bizzarra se pure edificante premonizione del cristianesimo. Horia, cattolico di destra, aveva aderito al regime collaborazionista durante la guerra e si era poi rifugiato in Francia; il suo libro vinse il premio Goncourt, si direbbe a riprova della forza del personaggio-Ovidio: ne nacque però uno scandalo fra gli intellettuali francesi, tanto che lo scrittore rinunciò al riconoscimento.

Ovidio è il poeta di tutti coloro che si sentono a vario titolo esiliati, ma non solo. È anche quello che insegna amore e mutamento, rintracciabile persino nel nostro Montale delle poesie a Clizia, ninfa che per amore di Apollo si trasforma in girasole, emblema di fedeltà infelice, la cui storia è nelle Metamorfosi. Ed è, nel caso di Tuena, il grande evocatore del mito di Pan, che fa delle canne in cui si è trasformata la ninfa Siringa per sfuggire al suo desiderio ferino lo strumento musicale dal quale è contraddistinto (il flauto, ovvero la siringa), convertendo la pulsione sessuale in arte; ma è ancora e soprattutto, in questo libro, il tramite con un mondo in apparenza perduto, da risvegliare almeno nella distanza della morte dando voce a ciò che pare ormai solo un residuo, cercando vita nella cenere.

Pan, infatti, è morto. O almeno questo è l’annuncio che già conoscono i passeggeri d’una  trireme romana, ma anche lussuosa nave da crociera contemporanea con tanto di vasca Jacuzzi, in partenza da Brindisi con destinazione Tomi, dove Augusto esiliò Ovidio. A bordo c’è anche, si direbbe soprattutto, il poeta, mai nominato come tale, scortato da militi scelti, i veliti, e circondato da un alone di mistero, oltre ad una signora che passa molto tempo nella vasca a idromassaggi, forse una ninfa sperduta. Sul Mar Nero li aspetta un diruto casinò sospeso sulle onde, dove si giocano più che i denari le identità: e in parallelo il funerale di Pan, che dunque è davvero morto come annunciato misteriosamente da voci sconosciute, secondo una storia narrata da Plutarco, nell’era di Tiberio, e interpretata nei secoli come una sorta di allusione alla fine imminente del paganesimo.

metamorfosi

“A volte ho l’impressione che si stia compiendo da sempre questa traversata nei mari dell’Est”, dice il poeta che forse la memoria sta “tradendo”. E coglie, anzi si direbbe cita, un luogo topico della nostra letteratura. Quella traversata, cominciata con Puskin nell’Ottocento (al confino non lontano da Tomi, nel poemetto A Ovidio il potere di Roma, crudele e oppressivo, allude ovviamente a quello dello Zar) arriva a noi come una lunga prospettiva attraverso imprevedibili passaggi di testimone. Il riferimento più prossimo, ripartendo da Tuena è ovviamente Il mondo estremo di Christoph Ransmayr, ormai un classico (del 1988) di questo straordinario scrittore austriaco. Anche qui si confondono le pareti del tempo, come in un gioco di visioni allucinate.

Il mondo estremo di Christoph Ransmayr

Il romanzo narra di un aristocratico romano che si reca avventurosamente a Tomi: non sa se Ovidio sia vivo o morto, ma spera di recuperare testi ancora inediti, scampati alle distruzioni. Li trova inscritti sulle rocce, nello stesso tempo illuminanti e ingannevoli, perché in quel (questo) tempo remoto “l’invenzione delle realtà non aveva più bisogno di appunti”. Li riconosce perché in qualche modo gli rimandano il suo nome, in una sorta di rifrazione circolare. Ma a Tomi, benché sia un borgo desolato, c’è l’autobus e persino un cinema ambulante, che in un certo senso proietta storie delle Metamorfosi ovidiane. Allora come ora, il viaggiatore rischia di perdersi nella crepa fra mito e realtà, senza trovare infine altro se non la ninfa Eco – ovvero l’eco della propria voce.

Ransmayr sembra sapere, come il suo conterraneo Robert Musil, che gli uomini non possono “mettersi al passo col respiro degli dei”, ma anche che questa condanna è in estrema sintesi un’opportunità. Ed è la stessa che colse, o vagheggiò, l’australiano David Malouf in Una vita immaginaria (1978).

David Malouf in Una vita immaginaria

Per lui Ovidio trasforma l’esilio, attraverso la disperazione, in un luogo in cui stare, ne fa la propria casa e condizione. Sceglie alla fine la remota guarnigione (nella realtà storica, forse meno primitiva che non nella descrizione dello scrittore australiano) come il suo vero spazio, il punto dì partenza per l’ultima e personale metamorfosi. Si dissolve in quel paesaggio seguendo un ragazzo muto perché cresciuto con i cervi, cui ha rinunciato a insegnare il linguaggio umano.

Una vita immaginaria è stata letto anche come una metafora dell’Australia, del rapporto tra quel grande Paese e la necessità dì definirsi culturalmente. In questo ulteriore viaggio a ritroso nel tempo, l’autore e Ovidio imparano, come ci disse una volta Malouf, “che il bordo è il centro, è nel centro c’è sempre un nuovo mondo”.

Nulla finisce davvero e tutto muta; ad eccezione, diremmo, di un solo grido, quello che risuona nei Tristia: “scrivere poemi e non avere nessuno cui leggerli è come danzare nel buio”. E’ una sorta di ribellione al fato, che non può essere messa a tacere. Gli ultimi due secoli di letteratura non hanno cessato di ascoltarla, e di riconoscersi.

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