“La domanda che mi fanno più spesso, da quando il libro è uscito in Italia, è: perché il tuo primo romanzo è nato in inglese? È una domanda buffa per me, perché in Inghilterra non me la fanno mai…”. Su ilLibraio.it la riflessione di Livia Franchini, in libreria con “Gusci”

La domanda che mi fanno più spesso, da quando questo libro è uscito in Italia è: perché il tuo primo romanzo è nato in inglese? È una domanda buffa per me, perché in Inghilterra non me la fanno mai. In molti sensi sta tutta qui la risposta.

Vivo a Londra dal 2007, mi ci sono trasferita permanentemente a vent’anni, per studiare letteratura inglese. Non conoscevo quasi nessuno che parlasse la mia lingua e non avevo nessun legame familiare con la città, se non il fatto che mi piaceva tanto, Londra, come piaceva a quasi tutti i ragazzini come me cresciuti in una città piccola, che magari ci erano stati in vacanza qualche giorno. Mi piaceva scrivere, mi veniva facile. Mi piaceva la lingua inglese e mi piaceva soprattutto studiarla, spesso a discapito delle altre materie.

Sono venuta a vivere a Londra gradualmente, prima un’estate a lavorare dopo la maturità, poi per la triennale universitaria, tornando a casa ogni tre mesi, e poi sono rimasta qui. C’è stata, parallelamente, una progressione nell’avvicinamento alla cultura britannica che ricordo come un processo conscio.

Quando sono venuta a vivere a Londra, poiché ero molto giovane, mi importava soprattutto di assimilarmi ai miei simili, e la città sembrava offrirmi la possibilità di farlo, a patto che imparassi a padroneggiare i codici comunicativi locali. Per una persona che vuole scrivere, in realtà, era una sfida enorme, ma io questo l’ho scoperto solo dopo. Della scelta di scrivere in francese Beckett diceva: ‘It was more exciting to me,’ e io ricordo bene il brivido di soddisfazione, all’inizio, nelle mie interazioni quotidiane, quando capivo una frase fatta, o ridevo per tempo a una battuta. C’era un orgoglio nell’imparare la lingua pezzo per pezzo.

livia franchini gusci

Ricordo bene anche la sensazione di fatica dopo una giornata passata a parlare solo inglese, la testa che ronza prima di andare a dormire e la paura costante di fraintendere gli atteggiamenti altrui, di apparire strana, lenta, mai completamente in controllo della percezione degli altri di me.

Beckett, ancora, diceva che scrivere in francese gli consentiva di scrivere ‘senza stile’, aumentava il livello di difficoltà dell’atto creativo, ma promuoveva anche un’attenzione microscopica alla lingua.

In inglese ho dovuto reimparare a scrivere. La scrittura è diventata difficile, perché era difficile comunicare. Con la consapevolezza della lingua, è cresciuta la mia comprensione della cultura britannica, delle sue narrative letterarie, ma anche collettive, identitarie, storiche, politiche.

Il 2010, l’anno in cui mi sono laureata e ho deciso di non tornare in Italia, è stato anche l’anno in cui è stato eletto un governo conservatore nel Regno Unito, che ha promosso politiche di austerità sfrenata, culminate nel voto pro-Brexit del 2016. In questi dieci anni, è cresciuta anche la mia ambivalenza nei confronti del mio contesto ospite, la sensazione di essere ‘altra’, subalterna a una cultura che sempre di più sembra aggrapparsi disperatamente agli ultimi stracci di un’irrisolta superiorità coloniale. Invece di diminuire, la mia dissonanza cognitiva sembra continuare a crescere.

Gusci nasce per questo naturalmente in lingua inglese, come frutto di un’esperienza di scrittura che abbandona una lingua madre minoritaria per approdare al Regno Unito e all’inglese, lingua franca e lingua imperiale della nostra contemporaneità. Gusci nasce in inglese non solo perché racconta la storia di una donna inglese, in una città inglese – e per un’autrice italiana che scrive in italiano già solo scrivere questa frase prende subito un sapore surreale alla Ionesco – ma anche su un piano strettamente formale. Gusci è la storia di Ruth Beadle, infermiera in una casa di riposo: una donna molto timida di circa trent’anni, che ha dedicato la propria vita a prendersi cura degli altri, primo tra tutti Neil, il suo compagno storico. Dal canto suo, Neil la lascia senza tante spiegazioni, sparendo completamente dalla sua vita nel primo capitolo del libro. Il mattino dopo la rottura, Ruth trova una lista della spesa compilata insieme: cose di lei, cose di lui, cose di entrambi – una specie di riassunto a punti tramite il quale si consuma, a tutti gli effetti, la loro relazione.

Il problema di Ruth è che dopo che il protagonista della sua vita se n’è andato, lei stessa si sente personaggio secondario nella sua esistenza: deve ricostruire se stessa, ma non sa da dove partire, non sa come portare avanti la sua storia. Vorrebbe le fosse offerto un percorso standardizzato e socialmente accettabile per raggiungere una sua indipendenza come donna ed è atterrita quando scopre che non ne esiste uno solo. Come si racconta la storia di un personaggio che per sua natura è privo del motore narrativo necessario alla sopravvivenza? Mi serviva qualcosa di differente da una trama che si svolge in senso lineare. Così, la lista della spesa si trasforma nel dispositivo narrativo su cui s’impernia il romanzo, diventando una sorta di indice del libro. Ogni oggetto sulla lista della spesa dà il titolo a un capitolo e ogni capitolo è un frammento della storia di Ruth. Da un capitolo all’altro, i punti di vista si alternano, così come i formati di testo (e-mail, messaggi istantanei, dating app), offrendo versioni differenti di Ruth vista dagli altri e rivelando i diversi campi di forza che hanno agìto sulla sua identità di giovane donna.

In un’intervista per Manhattan Beach, Jennifer Egan risponde a un critico sorpreso dalla sua virata verso il romanzo storico dicendo che ‘Non c’è niente di intrinsecamente interessante nel voler compiere a tutti i costi una nuova mossa narrativa: è interessante solo se funziona, e se non si poteva fare in nessun altro modo. Tutto il resto sono espedienti.’ Sento spesso il bisogno che un’autrice donna mi autorizzi a fare qualcosa di nuovo prima di avere il coraggio di farlo io stessa, e quindi sono grata a Egan perché quando ho letto Il tempo è un bastardo, l’impianto formale per Gusci mi si è offerto in maniera spontanea. Gusci, a ben vedere, è un romanzo che sopravvive per espedienti, ma così fa Ruth e così ho fatto io scrivendolo, e la sua forma mi sembra restituire l’immagine di una persona frammentata, le cui varie parti coesistono in contraddizione: un’immagine ambivalente, spezzata, che rispecchia la protagonista, ma anche me, scrittrice in transito, e ‘in traduzione’. Nasce in inglese perché non si poteva fare in nessun altro modo; io spero che funzioni.

Fotografia header: Livia Franchini - foto di Robin Silas Christian

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