Venuto a mancare lo scorso 10 settembre, Ernesto Franco è stato un editore e un intellettuale raffinato. Si comportava come un navigatore nei confronti di una verità possibile, cercava (e forse ha trovato) la sua isola che non c’è; nella letteratura, ma anche nella vita. “Sono stato” è un libro postumo atipico, volendo struggente, privo di ogni retorica sentimentale, in apparenza freddo e persino ironico (nell’ordine, semmai, della sprezzatura). Non autobiografia né frammenti di essa, avvisa in una breve introduzione l’autore, ma galleria di personaggi denunciati come un po’ di fantasia, e tuttavia personaggi che definisce “totali”: uno dei quali è la voce che racconta…
Ernesto Franco era un cultore del gioco letterario non in quanto evasione, ma in quanto macchina per costruire scenari e idee. Come il suo amato Julio Cortázar era uno scrittore delle connessioni, attento alla costruzione delle immagini, alla loro dinamica nello stesso tempo ingannevole e rivelatrice.
Basti pensare al suo Isolario (1994), una sorta di racconto-mappa, una cartografia dell’immaginario e ancora al più recente Storie fantastiche di isole vere dove l’autore in dialogo col personaggio del Pilota misura la distanza metafisica tra mito e realtà. “Ma Atlantide non è mai esistita, non è un’isola vera”, gli dice quasi a provocarlo, “è un mito…”. La risposta è illuminante: “E i miti, secondo lei, non esistono? Atlantide è più di un’isola, le dico, forse traffica male con la realtà, ma non con la verità”.
Si comportava come un navigatore nei confronti di una verità possibile, cercava e forse ha trovato la sua isola che non c’è; nella letteratura ma anche nella vita, quella vita che non sarà affatto “un racconto narrato da un idiota, pieno di rumori e strepiti che non significano nulla” – come nelle parole di Macbeth.
Semmai, e lo scrive nel suo postumo Sono stato (Einaudi), quella “che ti parla quando sei in barca da solo” oppure a un semaforo di piazza Dante, a Genova naturalmente, il giorno che hai fatto l’amore per la prima volta e sei lì coi tuoi 17 anni a cavallo della tua “Vespa 125 GT blu con una macchia rossa sulla scocca che borbotta tranquilla i suoi mugugni”: ed è forse come essere “il solo umano in città” nello stupore del “primo momento del genere della decina, non di più che la vita mi concederà”; o quando con tuo padre sparate nottetempo dal balcone pallini giocattolo su un luna park sottostante per infastidire i custodi delle giostre.
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Sono stato è un libro atipico, volendo struggente se pensiamo che Ernesto Franco, scomparso nel settembre scorso, l’ha scritto con tutta probabilità quando ormai doveva sapere che la malattia non gli avrebbe dato scampo (e c’è un piccolo capitolo d’ospedale a testimoniarlo, privo di ogni retorica sentimentale, in apparenza freddo e persino ironico, nell’ordine semmai della sprezzatura). Non autobiografia né frammenti di essa, avvisa in una breve introduzione, ma galleria di personaggi denunciati come un po’ di fantasia, e tuttavia personaggi che definisce “totali”: uno dei quali è la voce che racconta. Ed è interessante notare che operi sì a priori, nell’illustrare le sue intenzioni, un distanziamento fra autore e narratore ma, nello stesso tempo, scegliendo un titolo al passato prossimo (e dunque durativo, non destinato ai posteri ma a se stesso) crei una sorta di riavvicinamento tra quella voce è il se stesso scrivente e rammemorante, mentre si lascia assalire da una tarsia di episodi soprattutto risalenti all’adolescenza; avvertendoci tuttavia che potrebbero anche essere immaginari: “il mio cervello mi aggiunge alle imprese degli altri che più mi piacciono e io non ne sono consapevole”.
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C’è molta Genova, la sua città, fra i palazzi monumentali e i bagni a mare, le battute di pesca, le avventure in vela, l’alluvione del 1970 quando Franco aveva 14 anni, ma anche i giorni tragici del G8; ci sono le ironiche avventure di come da studente diviene lacaniano senza riuscire a capire una parola di quell’eloquio misteriosofico – anche se ciò non gli impedì, da editore, di pubblicare volentieri gli scritti dello psicanalista francese (e fece bene).
C’è la prima infatuazione per il teatro, il desiderio presto accantonato di diventare attore, persino l’iscrizione alla scuola dello Stabile genovese con tanto di provino (dove recita senza troppa fortuna, da Camus, il monologo del Caligola): ma anche l’eco di gravi prove dell’età matura, evocate senza retoriche, azzerando ogni rischio declamatorio e condensandole in uno stoico “mi capita di essere due volte un marito. E sono due volte vedovo. La cosa di per sé non ha ovviamente alcun significato e alcun senso. È il rotolare dei dadi”.
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Non solo. C’è l’inclinazione paterna (peraltro ereditata) al bric-à-brac, l’amore per gli oggetti desueti, per i piccoli talismani, per la condivisione delle proprietà (auto, moto, barche): “a me piacciono le cose che ho in società, sono veicoli sentimentali, un modo di espandersi nello spazio e nel tempo altrimenti impossibile; la pretesa, o forse solo la malinconia, di esserci anche quando non si può essere presenti nel presente”.
Che altro è, dopotutto, la vita? Potrebbe anzi essere proprio quest’ultima una parola chiave: la “malinconia di esserci” è infatti incapsulata nella scelta stessa del titolo, è il Sono stato che rifugge da ogni enfasi testamentaria e si attiene a un’idea di letteratura. Le sue isole erano luoghi mentali, “assai difficili da circoscrivere”, come spiegò a proposito dei libri precedenti; la sua Genova e i ricordi che ne affiorano lo sono altrettanto.
Ernesto Franco è stato un editore e un intellettuale raffinato. All’Einaudi dal ’91 (nel ’98 ne divenne direttore) dopo aver lavorato prima per Il Melangolo, Marietti e poi per Garzanti, studioso di Borges e di Cortázar (del quale ha curato una Pleiade einaudiana con tutti i racconti) e scopritore, tra i suoi prediletti autori ispanici, che traduceva o di cui ha curato le opere, del grande Alvaro Muti, era un cultore della letteratura come fine e come strumento, e sempre alto artigianato.
Esistono (pochi) grandi libri scritti da un autore che sta per così dire regolando il proprio passo d’addio, poniamo La morte di Virgilio di Hermann Broch o il Canetti di Il libro contro la morte. Il loro registro è il sublime tragico. Franco sceglie una via differente e anzi originalissima, affronta la vita e la morte (la propria vita e la propria morte) lasciando emergere pagine come di taccuino, dando una prima illusione che siano casuali, come immagini che si affollino all’ora del tramonto; ma lavorandole fino a conferire loro una necessità linguistica e strutturale che nell’apparente distacco è a tutto dire struggente: “Perché così è andata. In quest’epoca, in questi anni, a quell’io”.
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