Su ilLibraio.it la toccante riflessione della scrittrice Ilaria Tuti, ispirata da un post dell’amico Michele Scoppetta, nei giorni in cui ricorre l’anniversario del terremoto del Friuli del 1976 e del’alluvione di Sarno e Quindici del 1998

Il 6 maggio è l’anniversario del terremoto che nel 1976 devastò il Friuli. La sera, all’ora del sisma, la campana del duomo di Gemona, il mio paese, batte quattrocento rintocchi, tanti quanti i cuori che quel giorno smisero di battere.

La notte tra il 5 e il 6 maggio 1998, una lingua di fango scese sull’abitato di Sarno e cancellò case e vite. Ventidue anni e ottocento chilometri di distanza separano le due tragedie, ma ieri, leggendo le parole dell’amico Michele Scoppetta a ricordo dell’alluvione, ho sentito questa distanza colmarsi di commozione. Michele, a quattordici anni, quella notte perse tutto. Il fango si portò via sua madre e la casa. Il padre fu costretto a scegliere tra salvare il figlio o la donna che amava.

Io conosco il terremoto solo attraverso i ricordi dei miei genitori. La prima notte passata insonni sui sedili della Mini Cooper di mio padre; lui, un gigante accartocciato, mia madre reduce dal parto e io, di appena dieci giorni, nella bacinella di plastica del bucato, arraffata chissà come mentre i muri sembravano sbattere. Il biberon con il latte che non si poteva scaldare, il mio pianto d’infante, le lacrime silenziose degli adulti. Immagino gli sguardi sbarrati.

L’impossibilità di sapere chi si era salvato al di là della nube di polvere che nascondeva il centro storico, alle pendici della montagna. Il buio era sceso, qualcuno gridava e non avrebbe smesso per ore.

Poi la fuga a Udine, i giorni successivi, la tenda piantata nel giardino di parenti, perché la paura faceva preferire gli spazi aperti, come per un istinto animale che in alcuni non si sarebbe più quietato.

A settembre, un’altra terribile scossa, quando ogni edificio era stato puntellato, le macerie in gran parte rimosse. Un punto a capo, righe di speranza cancellate.

Nella tendopoli ci si preparava ad affrontare l’autunno; per molti furono i giorni delle migrazioni sulla costa, delle famiglie di nuovo separate. Mio padre restò a Gemona per lavorare alla ricostruzione, mia madre mi portò a Lignano. Le casette assegnate a queste donne in fuga con i figli e i pochi averi stretti addosso erano quelle delle vacanze estive, prive di riscaldamento. Fu un inverno umido e piovoso, l’acqua correva lungo le pareti. Di quei giorni, mia madre ricorda il mio pianto continuo, il freddo e le passeggiate sulla spiaggia deserta per farmi calmare, ma anche le vicine di casa, sempre pronte a dare una mano. Nel bisogno si strinsero amicizie che ci hanno accompagnato per tutta la vita.

Mesi dopo, il ritorno a Udine, dai nonni, e poi a Gemona. A poco a poco, erano sorti villaggi di prefabbricati. Ne fu assegnato uno anche a noi. Ci restammo fino al 1985.

Baracche, le chiamavamo. Un nome che sa di sbilenco, ma che per noi significava calore, finalmente casa. Le corti antiche del centro storico erano cumuli di pietre: la vita ricominciava qui, in queste casine minuscole, tutte uguali, ma con i giardini colorati, i fiori alle finestre, le tende di pizzo. Le comunità smembrate rinascevano nelle strade dritte di cemento gettato alla bell’e meglio sui campi sequestrati per l’emergenza. Cemento di cui ricordo ancora il profumo quando nelle estati calde noi bambini ci bagnavamo con le canne per l’irrigazione e l’acqua sembrava sfrigolare.

Lì, ho imparato il senso di comunità, ho avute più mamme e più papà, non mi sono mai sentita sola, ho avvertito le stagioni cambiare sulla pelle, mi sono sporcata della terra che porto nel cuore, sono stata educata dalla libertà e alla libertà, mi sono allenata alla misura dei bisogni da una vita che non poteva concedersi troppo, ma che aveva già quanto bastava, aveva tutto.

La solidarietà, l’amicizia, le viole selvatiche e i grappoli delle acacie, il canale che diventava piscina, i campi che delimitavano l’infinito, le bande di amici, la neve fino al tetto, le corse a perdifiato. L’infanzia più bella. L’ho sognata per molti anni, a volte torna a trovarmi ancora, in un sogno o in un profumo. Sono io a cercarla.

Ieri, leggendo le riflessioni di Michele, ho sentito l’eco di quelle emozioni. Attraversano il tempo e lo spazio e legano le persone, le generazioni, perché l’essere umano è capace di assorbire i lutti più profondi e di ricominciare, anche quando il mondo è crollato in macerie – macerie di pietre e calcinacci, o, come oggi, di abitudini che forse per lungo tempo non torneranno a consolarci.

Queste sono le sue parole:

Ventidue anni. Se li ripeto in punta di labbra, sembrano gli anni di qualcun altro.
Ventidue.
Non sono uno che vive di ricordi, ma allo stesso tempo sono sempre stato attratto dalla fascinazione del tempo. Soprattutto di quello emotivo, a cui molti non fanno più caso.
Direi una bugia se dicessi che non mi manca niente della mia adolescenza.
Il profumo della pelle di mia madre che si mescola a quello dell’erba fresca, tesa dalla brina del mattino.
I petali delle buganvillee che danzavano al vento fino all’uscio di casa.
Le mie notti stellate, incantato sotto la collina che di lì a poco avrebbe preso tutto.
Mi manca la musica nella voce dei vecchi che scandivano a stento il mio nome.
Ho ritrovato parte di tutto questo in alcune cose che ho imparato, in certe persone straordinarie che ho avuto la fortuna di conoscere. Nelle storie, che saranno sempre la mia ancora di salvezza.
Ho quasi 37 anni, all’epoca ne avevo solo 14. Sono ancora qui e credo che non servano commemorazioni, ma esempi positivi.
Mi sono sempre sentito un disadattato in questa società, ma so che vivere è una fortuna di cui pochi si accorgono.
Non so molte cose e non guardo al passato con nostalgia, ma con rispetto.
Lo stesso che dovremmo avere per noi stessi. Se ce l’avessimo tutti, non perderemmo tempo ad appiccare fuochi ai boschi delle colline o ad attendere fortune che non arriveranno mai.
Bisogna utilizzare il nostro tempo meglio possibile. Ad aiutare chi tende la mano tremante. A evitare di dilapidare il bene con persone che non lo vogliono o non ci badano. A evitare la commiserazione, se le cose non vanno per il verso giusto. E avere degli obiettivi, sempre.
Questo dolore è una specie di tatuaggio a fuoco che ti porti sempre dietro. Come ho letto di recente in un romanzo, il dolore vero dura solo 12 minuti.
Dunque, le scorie che restano servono soltanto a progredire e a non ripetere gli stessi errori.
All’anagrafe della mia seconda vita sono ancora un giovanotto di ventidue anni. So che non sarà facile e mi sveglierò ancora di soprassalto se sento un aereo o un treno che passa. Ma allo stesso tempo, mi è sempre piaciuto aspettare e osservare i treni che filano via, per chissà quali destinazioni.
È solo una questione di punti di vista. La collina si è presa tutto, ma la colpa è stata degli uomini.
Non riesco a odiare la mia collina. Laggiù, ai suoi piedi, mi si è cominciata ad aprire l’anima.
Sono grato per tutto quello che ho avuto finora. Siatelo anche voi.
“Si affoga non perché si cade nel fiume, ma perché si resta immersi sott’acqua.” Da Tyler Rake

 

L’AUTRICE – Ilaria Tuti vive a Gemona del Friuli, in provincia di Udine. Da ragazzina voleva fare la fotografa, ma ha studiato Economia. Ama il mare, ma vive in montagna. Appassionata di pittura, nel tempo libero ha fatto l’illustratrice per una piccola casa editrice. Il suo romanzo d’esordio, Fiori sopra l’inferno (Longanesi 2018), è stato un vero e proprio caso editoriale in Italia e all’estero, selezionato come Crime Book of the Month dal Times nel marzo 2019. Tra i punti di forza, un’ambientazione suggestiva e inquietante, uno stile fresco e maturo allo stesso tempo, un meccanismo narrativo impeccabile e una protagonista, Teresa Battaglia, da subito indimenticabile. Anche Ninfa dormiente (Longanesi, 2019) è stato un successo. Dall’8 giugno sarà in libreria con il suo terzo romanzo: Fiore di roccia (sempre edito da Longanesi). E proposito del quale nei giorni scorsi, sulla sua pagina Facebook, l’autrice ha scritto: “Non è un thriller, non ci sarà Teresa Battaglia. Forse, vi chiederete per quale motivo abbia deciso di separarmi da lei, anche se per poco. La risposta che posso dare è solo una: sentivo la necessità di scrivere questo romanzo. Con gli occhi e con il cuore di Agata, con le sue gambe agili e la schiena forte, saliremo in vetta assieme alle donne che hanno concorso a scrivere la Storia tra le montagne friulane durante la Prima guerra mondiale: le Portatrici.
Fiore di roccia è la loro storia, una trama di fantasia che ripercorre, però, molti fatti realmente accaduti”.

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