Si dice “a pieno” o “appieno”? “A posta” o “apposta”? Ed è più corretto usare l’aggettivo “deplorevole” o “riprovevole”? Ecco un rapido vademecum per destreggiarsi una volta per tutte fra queste e altre parole della lingua italiana che, per ortografia o fonetica, tendono spesso a trarci in inganno…

Vi capita mai di pronunciare o di scrivere una parola chiedendovi se non sarebbe stato più corretto usarne un’altra al suo posto che a prima vista vi sembra assomigliarle? Se riconoscete questa sensazione, sappiate che siete in buona compagnia, dal momento che la lingua italiana ci porta non di rado ad avere dei dubbi grammaticali di questa natura.

Se, però, volete schiarirvi le idee su alcuni termini che tendono a mettere in crisi anche i parlanti più attenti e istruiti, ecco di seguito un rapido vademecum per destreggiarvi una volta per tutte (forse) fra le parole che, per ortografia o fonetica, tendono spesso a trarci in inganno

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A pieno o appieno?

Partiamo con il dire che entrambe le forme sono tendenzialmente corrette, anche se bisogna prestare attenzione ad alcuni accorgimenti. La forma più esatta dal punto di vista etimologico è infatti a pieno, che è anche l’unica utilizzabile in tutte le espressioni composte, come a pieno ritmo, a pieno regime, a pieno carico, a pieno titolo, etc.

Da alcuni decenni, invece, si è riaffermato l’uso della variante univerbata appieno, già attestata nella letteratura medievale: “Dir si può ben per voi, non forse appieno, / Che ‘l nostro stato è inquieto, e fosco”, scrisse per esempio Francesco Petrarca (1304-1374), così come nell’Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri (1265-1321) si legge “Io non posso ritrar di tutti appieno”.

Questo lemma si riscontra in espressioni come concordare appieno, capire appieno sfruttare appieno, ovvero nei casi in cui ha un valore avverbiale a sé stante e non è seguito da un sostantivo.

Propellente o propulsore?

Anche se spesso queste due parole vengono confuse e usate l’una al posto dell’altra, da dizionario in realtà hanno dei significati non del tutto sovrapponibili.

Il propellente, infatti, è la carica che dà la spinta in avanti a un colpo, come accade per il propellente esplosivo, e in senso figurato indica la motivazione o la presenza dei mezzi necessari a compiere un’azione: un propellente economico è quindi indispensabile per avviare un’attività, mentre una manifestazione può fungere da propellente per l’approvazione di una legge.

Il propulsore, invece, letteralmente è un sistema meccanico più complesso, che viene utilizzato – come si legge su Treccani.it – per “imprimere al veicolo da cui è portato la forza che ne produce e mantiene il moto”. Si può parlare quindi di un propulsore a elica, a getto o a ruote, per esempio, ma è meno corretto usare il termine in senso figurato.

A posta o apposta?

Se un gesto viene compiuto di proposito, in italiano sarebbe più indicato dire che è stato fatto apposta, servendosi di un avverbio composto da una sola parola che è omografo del participio passato femminile del verbo apporre (anche un’etichetta, infatti, può essere apposta a un pacco).

Secondo l’Accademia della Crusca, ad ogni modo, si può scrivere anche a posta nel significato di volontariamente, dal momento che anticamente era questa la grafia più diffusa (si diceva per esempio a bella posta, locuzione ancora oggi in uso nella stessa forma).

Già ne I promessi sposi di Alessandro Manzoni (1785-1873), composti come sappiamo nell’Ottocento, la variante univerbata è risultata comunque la più corrente, motivo per cui in generale si consiglia di preferirla alla sua alternativa composta.

Deplorevole o riprovevole?

E veniamo ora a una circostanza di vicinanza concettuale fra due lemmi le cui radici non sembrerebbero poi tanto assimilabili: deplorevole viene d’altronde da deploratio, -onis, mentre riprovevole da reprobare.

Eppure, a dispetto di quanto si potrebbe pensare, deplorevole si dice di un comportamento che suscita offesa, indignazione, e che è quindi da condannare, così come riprovevole si riferisce a un atto che merita disapprovazione, specialmente in senso morale.

A distinguerli è dunque una sfumatura davvero sottile, la quale finisce spesso per far definire nei dizionari riprovevole un’azione deplorevole, e deplorevole un atteggiamento riprovevole. Ne consegue che nel quotidiano sono entrambi ugualmente accettati, senza sostanziali differenze d’uso o di accezione.

Stentoreo o stentato?

In questo caso ci troviamo davanti a due vocaboli che sembrano somigliarsi dal punto di vista ortografico, ma che hanno dei significati profondamente diversi fra loro.

Stentoreo è un aggettivo che nasce infatti come epiteto dell’eroe greco Stèntore, noto per il suo tono particolarmente forte e tuonante; al giorno d’oggi è quindi utilizzato come attributo del sostantivo voce, che viene così definita poderosa, sicura di sé, senza esitazioni.

Quanto a stentato, si tratta invece di un sinonimo delle parole faticoso, lento o costoso dal punto di vista delle energie: il suo uso, di conseguenza, è legato a un’attività che viene compiuta con difficoltà, dopo lunghi e sofferti sforzi, e comunque con risultati non ottimali.

Quantizzare o quantificare?

Concludiamo con una coppia di vocaboli che ormai nella lingua parlata vengono sempre più spesso usati l’uno al posto dell’altro in maniera impropria, portando a una bizzarra sovrapposizione di significati.

Da una parte abbiamo quantizzare, un tecnicismo della fisica che vuol dire riuscire a individuare i valori discreti assumibili da una grandezza; dall’altra parte abbiamo invece quantificare, che in senso stretto equivale a inserire delle nozioni di tipo quantitativo in un discorso o in una teoria, mentre in senso più lato si usa al posto di calcolare, tradurre in cifre.

Ebbene: basta consultare un dizionario per accorgersi che sotto la definizione di quantizzare figura quantificare come suo pseudo-sinonimo, e viceversa. Anche se si tratta di una pratica ormai piuttosto consueta nella comunicazione giornaliera, resta comunque più indicato e consigliato usare i due aggettivi solo nel loro significato proprio, differenziandone i contesti d’uso.