Gatti, tartarughe, rospi, topi, pappagalli, coccodrilli… La scrittrice Bianca Pitzorno narra le incredibili vicende vissute insieme agli animali della sua vita – Su ilLibraio.it un estratto da “A chi smeraldi e a chi rane”, in cui si parla del gatto Zucchero…

Bianca Pitzorno, scrittrice lontana da ogni conformismo, torna in libreria per Bompiani con A chi smeraldi e a chi rane, libro in cui narra le incredibili vicende vissute insieme agli animali della sua vita.

La scrittrice, che in Donna con libro – Autoritratto delle mie letture (Salani) si era raccontata attraverso i libri della sua vita, questa volta sceglie una chiave diversa. E così tra queste nuove pagine si può trovare, certamente, qualche gatto: come Minouche, che rimase chiusa una settimana in una cantina piena di salami, Zucchero, che bruciò il parquet con una goccia di pipì, e Prunilde, che sapeva rispondere al telefono.

A chi smeraldi e a chi rane Bianca Pitzorno

Ma si incontrano soprattutto creature sorprendenti: Andrea, la tartaruga amica di tutti ma in guerra con la bambinaia Agata; il coccodrillo Valentino, poco capace di ricambiare gli abbracci; il grosso rospo che ogni sera faceva compagnia al dottor Pitzorno mentre fumava la pipa; un paio di topi, un pipistrello, alcuni pappagalli. E, ovviamente, Griselda, Greta e Allegra: le rane luccicanti come smeraldi donate da un fidanzato devoto…

A chi smeraldi e a chi rane è un’autobiografia intellettuale, commovente e spassosa, che fa riflettere in modo profondo sul nostro essere umani. I colori, le abitudini, i misteriosi linguaggi della folla di creature con cui la protagonista vive avventure sono evocati con rispetto, quasi che Bianca Pitzorno si consideri un’extraterrestre alla pari desiderosa di fare amicizia con i veri abitanti del pianeta su cui trova ospitalità.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

UN BUCO NEL PAVIMENTO

Passarono molti anni prima che mi capitasse di nuovo di convivere con una gatta. Finito il liceo ero andata a frequentare l’università a Cagliari, dove vivevo in un pensionato di suore. Minouche rimase in casa dei nostri genitori e lì molti anni dopo morì di vecchiaia.

Intanto io mi ero trasferita a Milano e i primi tempi avevo vissuto in case troppo piccole o comunque inadatte a ospitare un gatto. Sarebbe stato un gesto di crudeltà. Avrei dovuto lasciarlo sempre solo, in uno spazio ridotto, perché passavo tutto il tempo in giro, tra i lavoretti saltuari che mi capitavano e la scoperta della città, meravigliosamente animata dai fervori del Sessantotto.

Poi trovai un lavoro fisso e potei permettermi un bilocale con un balcone di medie dimensioni. A quel punto non c’era più motivo perché mi rifiutassi quando la mia amica Ornella mi chiese di ospitare per un breve periodo la sua gattina tigrata di nome Zucchero.

Questa Zucchero aveva una strana abitudine: cercava di dare la caccia a qualsiasi animale comparisse sullo schermo del televisore. Considerando che le trasmissioni erano ancora in bianco e nero e che ovviamente quegli animali non avevano alcun odore, come facesse la gatta a distinguerli dagli umani o dai veicoli in movimento non me lo sono mai riuscita a spiegare. Fatto sta che ogni volta che in un film o un documentario compariva un leone, un coccodrillo, un cavallo, un cigno, non importa che specie di animale, Zucchero decideva di tendergli un agguato. Si nascondeva dietro la poltrona che stava davanti al televisore e cominciava a strisciare lentamente appiattendosi al suolo. Poi spiccava un balzo verso lo schermo tentando di passarci attraverso e naturalmente ci dava contro una violenta nasata, cadendo stordita per terra. Le prime volte mi ero preoccupata, sapevo che il naso dei gatti è delicatissimo. La raccoglievo, la coccolavo, le tastavo il muso, ma lei si divincolava, cercava di liberarsi per ritentare l’agguato.

Qualche volta capitava che, mentre Zucchero strisciava cauta verso la preda ancora nascosta sotto la poltrona, l’immagine sullo schermo cambiasse e al posto dell’animale comparisse un paesaggio o il primo piano di un attore. Lo sconcerto, la sorpresa, la delusione che apparivano sul suo muso erano incredibili. Ma l’esperienza non le insegnava niente. Se dopo qualche minuto o l’indomani sullo schermo riappariva un animale, eccola di nuovo a preparare il suo agguato.

Un giorno, poco prima che la sua padrona tornasse a riprenderla, Zucchero mi fece prendere un grande spavento.

In quel periodo tra i miei diversi hobby c’era quello di stampare le fotografie. Con dei teli neri coprivo le finestre del soggiorno ottenendo una camera oscura, che illuminavo fiocamente con la lampadina rossa d’ordinanza. Poi disponevo sulla tavola da pranzo il proiettore e le due vaschette per gli acidi. Il filo per mettere a sgocciolare le foto lo tendevo sulla vasca da bagno. Zucchero seguiva con grande curiosità tutte quelle operazioni e io non mi preoccupavo di allontanarla perché, come tutti i gatti, se voleva si muoveva tra gli oggetti con una tale delicatezza da non sfiorarli neppure. C’erano sì le due bacinelle piene di acidi – sviluppo e fissaggio –, ma allora ero ancora convinta chissà come mai che, a differenza degli umani, gli animali avessero un sesto senso che faceva riconoscere loro cibi e bevande velenosi e che gli impediva di assaggiarli. E in effetti per un paio di sedute Zucchero si limitò ad annusare le due bacinelle confermando quella mia falsa convinzione. Poi un giorno, d’improvviso, si avvicinò alla bacinella dello sviluppo e bevette un gran sorso, così veloce che, quando scattai per allontanarla e buttarla giù dal tavolo, ne aveva già inghiottito una bella quantità.

Ero disperata. Sicura che sarebbe morta avvelenata fra atroci tormenti. Non sapevo cosa fare. Indurle il vomito… non ero capace, e poi forse avrei fatto ancora più danno. Farle bere del latte? Portarla di corsa dal veterinario? Non conoscevo veterinari a Milano. Cercarne uno sulle Pagine Gialle? Ci sarebbe stato ancora tempo? E se la gatta moriva, cosa avrei detto a Ornella quando si fosse presentata a reclamarla? Zucchero nel frattempo non dava alcun segno di disagio. Sembrava più che altro infastidita per essere stata interrotta nella sua esplorazione.

A ogni buon conto cercai sull’elenco del telefono un pronto soccorso veterinario abbastanza vicino, ma decisi di aspettare un poco tenendo la gatta sotto osservazione. Zucchero gironzolava per la stanza dando leggeri colpetti con la zampa al topolino con le rotelle che era il suo giocattolo. A un certo punto si fermò, si contrasse, emise un miagolio di fastidio e sforzo e, senza avere il tempo di raggiungere la cassettina della sabbia – lei che era così pulita –, scaricò sul parquet due gocce di diarrea, le quali come atterrarono sul legno lo bruciarono provocando del fumo e un piccolo buco rotondo, come se qualcuno ci avesse premuto con forza una cicca di sigaretta. Dopo di che Zucchero, come sollevata, se ne andò a giocare leggera col suo topolino a ruote nel corridoio.

(continua in libreria…)

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