Luoghi dove la nostalgia e il fantastico compongono un impasto unico e prezioso: sono quelli de “I taccuini di Randolph Carter”, opera che raccoglie un ciclo di storie composte da Howard Phillips Lovecraft tra il 1919 e il 1932. Su ilLibraio.it un estratto dal volume, che intende far luce su una zona narrativa poco esplorata del “solitario di Providence”, quella onirica in cui l’orrore è soltanto suggerito

Noto soprattutto per i Miti di Cthulhu, Howard Phillips Lovecraft (Providence, 20 agosto 1890 – Providence, 15 marzo 1937) ha parallelamente edificato un universo di altipiani desolati, lande sterminate, abissi senza fine, giardini lussureggianti e antiche rovine.

Un paesaggio inafferrabile eppure concretissimo, che testimonia un passato fatto di palazzi dalle guglie dorate e di mari tempestosi a cui si può accedere soltanto sognando.

Sono luoghi dove la nostalgia e il fantastico compongono un impasto unico e prezioso. È proprio in questo contesto che si muove e agisce Randolph Carter, riconoscibile alter ego dell’autore e protagonista di un ciclo di storie composte tra il 1919 e il 1932.

Questo volume, ora edito da Einaudi sotto il titolo I taccuini di Randolph Carter (a cura di Marco Peano e nella traduzione di Mario Capello), vuole illuminare una zona meno esplorata della narrativa di Lovecraft, quella onirica, dove l’orrore è soltanto suggerito, bisbigliato, intravisto.

Copertina del libro I taccuini di Randolph Carter

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

La testimonianza di Randolph Carter

Vi ripeto, signori, che le vostre domande sono inutili, trattenetemi qui per sempre, se così vi aggrada; imprigionatemi o mandatemi al patibolo se avete bisogno di una vittima per placare l’illusione che chiamate giustizia; ma non posso dire più di quanto non abbia già detto. Tutto ciò che riesco a ricordare l’ho raccontato con la massima sincerità. Nulla è stato distorto o celato e se qualcosa resta avvolto nella vaghezza, ciò è a causa della nube oscura che mi ha invaso la mente – di quella, e della natura nebulosa degli orrori che l’hanno provocata.

Lo ripeto ancora una volta, non so cosa sia di Harley Warren; sebbene ritenga – e quasi ardisco sperare – che si trovi in un oblio pieno di pace, sempre che una simile, benedetta condizione possa esistere. È vero, sì, che per cinque anni sono stato il suo più caro amico e che ho in parte condiviso con lui le sue terribili ricerche nel campo dell’occulto. Non negherò, per quanto la mia memoria sia tutt’altro che solida e nitida, che questo vostro testimone, come sostiene, possa averci visto insieme sul monte Gainesville, in cammino verso la palude del Grande Cipresso, alle undici e mezza di quell’orribile notte. Affermo altresì che avevamo con noi lanterne elettriche, vanghe e un curioso rotolo di cavo con attaccati degli strumenti, dacché queste cose giocarono tutte un ruolo nell’unica, odiosa scena rimasta impressa a fuoco nel mio altrimenti traballante ricordo. Ma di ciò che è in seguito accaduto, e della ragione per cui fui trovato solo e confuso ai margini della palude il mattino seguente, devo insistere di non sapere nulla se non quel che vi ho ripetuto più e più volte. Mi dite che nella palude, o nei suoi pressi, non vi è alcun posto che possa essere stato scenario di quello spaventoso episodio. E io non posso che replicare che nulla so di più di quanto ho veduto. Può essersi trattato di allucinazioni o incubi – spero con forza che lo fossero, allucinazioni o incubi; pure è tutto ciò che la mia mente conserva di quel che ha avuto luogo nelle lunghe, sconvolgenti ore trascorse da che ci lasciammo alle spalle le ultime tracce di luoghi abitati dall’uomo. E perché Harley Warren non abbia fatto ritorno, lui in persona o la sua ombra – o una cosa senza nome che non so descrivere –, questo solo posso dire.

Come già ho avuto modo di dichiarare, gli inquietanti studi di Harvey Warren mi erano ben noti e, in certa misura, li condividevo. Ho letto della sua vasta collezione di libri strani e rari, tutti quelli scritti nelle lingue che domino; ma essi sono ben pochi rispetto a quelli in linguaggi che non comprendo. I più, ritengo, sono in arabo; e il libro vergato da una mano malvagia che aprì la strada alla fine – il volume che ha portato con sé fuori da questo mondo – era redatto in caratteri di cui mai vidi l’uguale. Warren non mi disse mai cosa tale libro contenesse. E quanto alla natura delle nostre ricerche, devo ripetere ancora una volta che non le comprendo più appieno? E ciò mi appare una benedizione, dacché erano studi terribili, che perseguivo più a causa di una riluttante malia che per vera inclinazione. Warren ha sempre avuto un grande ascendente su di me e certe volte ho avuto paura di lui. Ricordo come tremai, scosso, davanti all’espressione del suo viso la notte prima dell’orribile accadimento, mentre parlava incessantemente della sua teoria, «del perché certi cadaveri non si decompongono, ma riposano nelle loro tombe integri e con la carne attaccata alle ossa per migliaia di anni». Ma ora non lo temo, poiché sospetto abbia conosciuto orrori che vanno al di là della mia comprensione. Ora, temo per lui.

Ripeto, ancora una volta, che non ho un’idea precisa del nostro obiettivo di quella notte. Certamente aveva a che fare con qualcosa contenuto nel libro che Warren portava con sé – l’antico libro vergato in caratteri indecifrabili che era giunto in suo possesso dall’India solo un mese prima – ma giuro che non so cosa ci aspettassimo di scoprire. Il vostro testimone afferma di averci visto alle undici e trenta sul monte Gainesville, diretti alla palude del Grande Cipresso. Ciò è probabilmente vero, ma non ne possiedo un ricordo chiaro. L’immagine impressa a fuoco nella mia anima è una e una soltanto, e l’ora doveva essere ben oltre la mezzanotte, dacché la luna calante era alta nel cielo caliginoso.

Il posto era un antico cimitero; così antico che tremai agli innumerevoli segni di un tempo immemore. Si trovava in una profonda e umida conca, invasa da erba marcia, muschio e curiose piante infestanti i cui tralci strisciavano sul terreno, oltre che satura di un puzzo lieve ma persistente che la mia fantasia oziosa associava, assurdamente, alla pietra andata a male. Ovunque vigevano i segni dell’abbandono e della decrepitezza e mi perseguitava l’idea che Warren e io fossimo le prime creature viventi a invadere tale mortale, secolare silenzio. Al di sopra del ciglio della valle una pallida luna calante ci scrutava attraverso i vapori nocivi che sembravano emanati da inaudite catacombe, e ai suoi fievoli, tremolanti raggi potevo distinguere una repellente sfilata di lapidi, urne, cenotafi e facciate di mausolei; tutti, senza fallo, cadenti e coperti di muschio e macchiati dall’umidità e in parte nascosti dal disgustoso lussureggiare di quella vegetazione malsana.

La prima, vivida impressione che ho della mia presenza in quella terribile necropoli mi vede sostare con Warren di fronte a un qual certo sepolcro pressoché obliterato e gettare a terra un qualche fardello che dovevamo aver portato con noi. Ho fatto notare or ora che avevo una lanterna elettrica e due vanghe, con me, mentre il mio compagno era dotato di una lanterna simile e di un apparecchio telefonico portatile. Non una parola fu pronunciata, poiché dovevamo in qualche modo conoscere di già il posto e il compito che ci aspettava; e senza indugio afferrammo le vanghe e cominciammo a liberare l’arcaico sito mortuario dalle erbacce, dalle piante infestanti e dalla terra. Una volta scoperta l’intera superficie, che consisteva in tre immense lastre di granito, facemmo qualche passo indietro per osservare la scena offerta dall’ossario; Warren sembrò annotarsi mentalmente qualcosa. Poi tornò al sepolcro e, usando la pala come leva, tentò di sollevare la lastra più vicina a una rovina che, ai suoi tempi, poteva essere stato un monumento. Non vi riuscì e mi fece cenno di andare a dargli aiuto. Alla fine, unendo le forze, aprimmo uno spiraglio e sollevammo la grande pietra scostandola di lato.

La rimozione della lastra rivelò una nera apertura, da cui fuoriuscì con forza un miasma gassoso così nauseabondo che scattammo all’indietro in preda all’orrore. Dopo un poco, però, ci avvicinammo nuovamente al pozzo e trovammo le esalazioni meno insopportabili. Le lanterne schiusero alla vista l’inizio di una scalinata in pietra, sgocciolante di un qualche odioso icóre delle profondità terrestri e affiancata da umide pareti incrostate di salnitro. E la mia memoria colloca proprio in quel momento il primo scambio di parole, Warren che mi si rivolge a lungo con la sua morbida voce tenorile; una voce stranamente imperturbabile nonostante quanto ci circondava fosse degno di soggezione.

– Sono desolato di doverti chiedere di restare in superficie, – disse, – ma sarebbe da irresponsabili permettere a qualcuno con i nervi fragili come i tuoi di scendere lì sotto. Non puoi neppure immaginare, nemmeno da ciò che hai letto e da quel che ti ho raccontato, le cose che sarò costretto a vedere, e fare. È un’opera diabolica, Carter, e dubito che chiunque non possieda una volontà di ferro possa passarvi attraverso e tornare vivo, e sano di mente. Non è mia intenzione offenderti, sa il cielo se non sarei felice di averti di fianco a me; ma la responsabilità è mia, in un certo senso, e non potrei trascinare un fascio di nervi come te a una morte pressoché certa, o alla follia. Te lo ripeto: non puoi immaginare come sia, davvero, la cosa! Ma ti prometto di tenerti aggiornato via telefono di ogni mia mossa: come vedi, ho abbastanza cavo, qui, da poter raggiungere il centro della Terra e fare ritorno!

Posso ancora sentire, nel ricordo, tali, distaccate, parole; e rammemoro anche le mie rimostranze. Sembravo disperatamente ansioso di accompagnare il mio amico in quelle profondità sepolcrali; pure, Warren fu inflessibile. A un certo punto minacciò di abbandonare la spedizione se avessi continuato a insistere; una minaccia che si dimostrò efficace, poiché lui solo custodiva la chiave per la cosa. Tutto ciò lo ricordo, sebbene non sappia più cosa stessimo cercando. Dopo che si fu garantita la mia acquiescenza al suo volere, Warren prese il rotolo di cavo e vi collegò gli apparecchi. A un suo cenno ne afferrai uno e mi sedetti su un’antica pietra tombale sbiadita nei pressi dell’apertura. A quel punto mi strinse la mano, si mise in spalla il rotolo di cavo e scomparve all’interno di quell’indescrivibile ossario. Per qualche momento potei scorgere il lucore della sua lanterna e udire il fruscio del cavo via via che lo deponeva dietro di sé; ma ben presto la luce scomparve di colpo come se la scala avesse curvato e il suono morì quasi altrettanto all’improvviso. Ero solo, ma legato a quelle ignote profondità dai magici fili la cui superficie isolante giaceva, verdastra, sotto gli stanchi raggi della luna calante.

Nel solitario silenzio di quell’antica e deserta città dei morti, la mia mente concepì le più agghiaccianti fantasie e illusioni; e quei tempietti grotteschi e quegli obelischi parevano assumere una orribile – semisenziente – personalità. Ombre amorfe sembravano annidarsi nei recessi più oscuri della valle soffocata dalle erbacce e muoversi fugaci come in una blasfema processione cerimoniale oltre i portali delle tombe marcite sul crinale della collina; ombre che non potevano essere gettate dalla pallida luna calante che faceva capolino tra le nubi. Non facevo che consultare l’orologio alla luce della lanterna elettrica e porre con ansia febbrile l’orecchio al ricevitore del telefono; ma per più di un quarto d’ora non udii nulla. Poi dal congegno provenne un debole crepitio e con voce tesa chiamai il mio amico. Per quanto in apprensione, non ero comunque preparato alle parole che da quei misteriosi abissi mi giunsero con accenti allarmati e tremanti quali mai ebbi modo di udire in precedenza da Harley Warren. Proprio lui, che solo poco prima si era allontanato da me con tanta calma, mi chiamava, adesso, dal basso, in un sussurro flebile più sconvolgente del più forte degli urli:

– Dio! Se potessi vedere ciò che sto vedendo!

Non riuscii a rispondere. Senza parole, potevo solo attendere. Quindi, ancora una volta, quel tono affannato:

– Carter, è terribile… mostruoso… incredibile!

Questa volta la voce non mi tradì e riversai nel trasmettitore un torrente eccitato di domande. Terrorizzato, continuavo a ripetere:

– Warren, cos’è? Cos’è?

Una volta di più mi giunse la voce del mio amico, ancora rauca per la paura e ora venata, all’apparenza, di disperazione:

– Non posso dirtelo, Carter! È troppo al di là del pensiero… non oso dirtelo… non c’è uomo che possa sapere e sopravvivere… Gran Dio! Non ho mai osato sognare QUESTO!

Silenzio, di nuovo, se non per il fiume insensato delle mie tremanti richieste. Poi, la voce di Warren, in un acuto di selvaggia angoscia:

– Carter! Per l’amor di Dio, rimetti a posto la lastra e vattene da qui, se puoi! Veloce! Lascia tutto ed esci da lì… è la tua unica possibilità! Fa’ come ti dico, e non chiedermi altro!

Lo udii, eppure non potevo far altro che ripetere le mie domande affannate. Intorno a me non c’erano che tombe e oscurità e ombre; sotto di me, una minaccia al di là dell’immaginazione umana. Ma il mio amico si trovava in un pericolo più grande del mio e, al di sotto della paura, provavo un vago risentimento al pensiero che potesse ritenermi capace di abbandonarlo in tali circostanze.

Altro crepitio e, dopo una pausa, un penoso grido di Warren:

– Battitela! Per l’amor di Dio, rimetti a posto la lastra e battitela, Carter!

Qualcosa, nel gergo giovanile del mio evidentemente scosso amico, rimise in moto le mie facoltà. Presi una risoluzione, e la urlai:

– Tieni duro, Warren! Sto venendo giù!

Ma a questa offerta il tono del mio interlocutore mutò in un urlo di disperazione:

– No! Non capisci! È troppo tardi… e per colpa mia. Rimetti a posto la lastra e corri… non c’è nient’altro che tu, o chiunque altro, possa fare, ormai! – Il tono era cambiato ancora, facendosi, questa volta, più dolce, come rassegnato. Pure, per me, era ancora carico di angoscia.

– Sbrigati, prima che sia troppo tardi! – Tentai di non dargli ascolto; provai a spezzare la paralisi che mi bloccava e adempiere al mio voto di correre in suo aiuto. Ma il suo successivo bisbiglio mi colse ancora inerte, nelle spire del più puro orrore.

– Carter, sbrigati! È inutile… devi andartene… meglio uno che entrambi… la lastra…

Una pausa, crepitii, poi la debole voce di Warren:

– È quasi finita ormai… non renderla più dura… copri quei gradini maledetti e corri per la tua vita… stai perdendo tempo… Addio, Carter… non ci vedremo un’altra volta –. A questo punto il sussurro di Warren crebbe fino a farsi grido; un grido che crebbe gradualmente fino a divenire un urlo carico di tutto l’orrore delle ere passate e future.

– Che queste cose infernali siano maledette… legioni… Mio Dio! Battitela! Battitela!

Dopo, vi fu solo silenzio.

Non so quanti interminabili eoni sia rimasto seduto istupidito; sussurrando, borbottando, chiamando e urlando in quel telefono. Ancora e ancora nel corso di quel tempo infinito sussurrai e borbottai, chiamai, urlai e gridai:

– Warren! Warren! Rispondimi: ci sei?

E a quel punto ecco l’orrore massimo – l’incredibile, impensabile, quasi indicibile cosa. Ho detto che eoni erano parsi scorrere da quando Warren aveva lanciato il suo ultimo disperato avvertimento, e che solo la mia voce spezzava l’odioso silenzio. Ma dopo qualche tempo vi fu un ulteriore crepitio e così allungai l’orecchio per pormi all’ascolto. Ancora una volta, chiesi: «Warren, ci sei?» e come unica risposta sentii la cosa che ha gettato questa nebbia sulle mie facoltà mentali.

Non mi azzarderò, signori, a dar conto di quella cosa – quella voce –, né tantomeno mi avventurerò a descriverla nel dettaglio, poiché le prime parole mi fecero perdere coscienza e causarono un vuoto mentale che è durato fino al momento del mio risveglio in clinica. Devo aggiungere che la voce era profonda, vuota, gelatinosa, remota, aliena, inumana, incorporea? Cosa posso dire? Fu la fine della mia prova ed è la fine della mia storia. La udii e più non seppi. La udii mentre sedevo pietrificato in quello sconosciuto cimitero al fondo di una valle, in mezzo alle pietre cadenti e alle tombe in rovina, alla vegetazione rancida e ai miasmi. La udii che proveniva dalle profondità di quel dannato sepolcro mentre vedevo ombre amorfe e necrofaghe danzare sotto una luna calante e maledetta. Ed ecco ciò che disse:

PAZZO, WARREN È MORTO!

(continua in libreria…)

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