Come può una generazione artistica definirsi tale, o anche solo sperare di esistere, se tutto intorno rimane fermo? Questa è la domanda che ha generato “Manifesto”, libro collettivo a cura di Iacopo Barison. Che ha coinvolto, tra gli altri, Jonathan Bazzi e Alessio Forgione – Su ilLibraio.it il racconto di Ilaria Gaspari, dal titolo “Acqua complessata, ovvero le mie piante come romanzo di formazione”

Come può una generazione artistica definirsi tale, o anche solo sperare di esistere, se tutto intorno rimane fermo? Questa è la domanda che ha generato Manifesto (Fandango Libri), antologia a cura di Iacopo Barison. E forse è proprio il libro – un mix di contributi diversissimi fra di loro, come gli autori e le autrici che li hanno scritti – a essere una delle risposte possibili.

Per essere futurista, il Manifesto del XXI secolo non poteva parlare d’altro se non del presente. Dieci esseri umani nati fra il 1985 e il 1999 hanno accettato la sfida, lanciata dal curatore innanzitutto a se stesso, di raccontarlo con i mezzi che meglio padroneggiavano, dalla narrativa classica al racconto illustrato, da quello in versi al personal essay.

Le parole d’ordine? Io, qui, adesso. Perché (forse) il vero millennium bug è stato non riuscire a emanciparsi dalla letteratura italiana del Novecento. Non essere in grado di lasciare la casa dei genitori – a volte tanto amati, a volte odiati – per avventurarsi da soli nel mondo. E se tentare di farlo significasse, in realtà, vivere tutti insieme sotto lo stesso tetto? Avere una visione comune, ma nuova, dove i confini con altre forme d’arte (e di scrittura) diventano labili, dalla musica ai fumetti, fino alla stand-up comedy?

Un libro collettivo, dunque, che prova a immaginare il presente, partendo dal futuro, e che vede coinvolti Jonathan Bazzi, Eleonora C. Caruso, Alessio Forgione, Ilaria Gaspari, Michela Giraud, Ginevra Lamberti, Giacomo Mazzariol, Tutti Fenomeni e ZUZU.

Manifesto

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo il racconto di Ilaria Gaspari:

Acqua complessata

ovvero

Le mie piante come romanzo di formazione

Le uniche con cui fallisco sempre sono le più facili, a detta di tutti. Le piante grasse. Ma se non hanno bisogno di niente!, scuotono la testa; mi commiserano? Comunque, non si capacitano.

È proprio questo, credo, che non riesco a rispettare: che non abbiano bisogno di niente.

O forse, dopotutto, non mi piacciono poi tanto – no, non è mica vero. Mi piacciono. Per un periodo ho avuto una piccola collezione di cactus in miniatura; fu dopo il viaggio a Lanzarote. Quel viaggio era stato una tale promessa di felicità che poi avevamo cercato di prolungarlo in tutti i modi oltre il ritorno. Le piante grasse mi servivano per replicare, in casa, la fecondità cactacea delle Canarie: a Lanzarote avevamo visto un orto botanico solo di gigantesche, lussureggianti piante grasse, sculture liscissime o irsute di piccole spine che emergevano dalla sabbia scura, vulcanica. Io le tenevo in una piccola serra dipinta di bianco. L’avevo presa all’Ikea, costava poco; avevo sempre desiderato una casetta per le mie piante. Certo, era un po’ spartana, certo non aveva nulla di speciale, nessun dettaglio che la distinguesse; certo, somigliava in maniera sinistra a molti mobili che avevano arredato le mie case passate, le mie come quelle della maggior parte dei miei coetanei. E certo, nei miei anni da studentessa fuori sede, nei miei anni vissuti in case di fortuna, malgrado la rassicurante affidabilità svedese tipica di quell’estetica democraticamente scialba (o forse proprio a causa di quell’efficienza sciatta, che mi indisponeva?) per Ikea avevo via via maturato un’avversione esagerata e dolorosamente inconfessabile (a meno che non fossi disposta ad accogliere le conseguenze del mio snobismo, cosa che allora non ero affatto; mentre oggi, che forse lo sarei pure, penso a quei mobilacci con una certa tenerezza – non dico nostalgia, ma è proprio vero che il tempo migliora qualsiasi cosa). Mi sembravano, quegli arredi informi e così finti, quei surrogati di case, il segno dell’umiliazione di una generazione; ero molto tragica, allora, dovete sapere. Melodrammatica. Bovarista. Preferivo mille volte muffiti mobili recuperati in mercatini di dubbia legalità, a tutti i possibili, nuovissimi Malm, Ektorp, Docksta del mondo. Una volta, a dire il vero, mi ero persino presa le pulci, o qualcosa del genere: a Parigi, avevo recuperato una vecchia valigia abbandonata per strada. Mi pareva bellissima, divenne il mio tavolino da caffè. Altro che quello stupido Lack.

Andò a finire che mi ritrovai coperta di piccole punture rosso vivo. Non ho mai approfondito la questione; mi limitai a lasciare la valigia fuori, esposta al gelo di novembre, per una settimana o giù di lì. L’avevo incastrata al davanzale della minuscola finestra, così che non potesse cadere giù; la tratteneva malamente un vaso di pomodori che mi ero messa in testa di coltivare perché quelli che compravo al Monoprix o al mercato non mi piacevano, mi sembravano di plastica. Saranno stati anche di plastica, forse; erano comunque meglio di quelli che – e fu già un miracolo – ebbero l’ardimento di crescere sulla mia finestra di chambre de bonne, un sottotetto al quinto piano di una sconnessa scala a chioccola su cui inciampavano tutti. Ne maturarono due o tre, pessimi. Comunque, quando misi la valigia sul davanzale era già freddo, autunno inoltrato; la pianta di pomodoro seccava, e mi dicevo, è nell’ordine delle cose. Era stato abbastanza eroico, da parte sua, crescere a quelle latitudini, elargirmi nell’estate qualche piccolo frutto immangiabile. La valigia pulciosa mi rubava poca luce grigia, ma io non ero una pianta, non dovevo fare nessuna fotosintesi e in ogni caso potevo benissimo accendere l’abat-jour; ed è vero che mi impediva la vista del parco in fondo alla strada, ma qualunque fosse il parassita che l’infestava, il freddo o la scomodità della posizione ne ebbero ragione, e niente mi punse più. Certo, con un Lack non ci sarebbe stato bisogno di ingegnarsi a tanto; e forse i miei ospiti sarebbero pure stati un po’ meno schizzinosi, un po’ meno criticoni quando venivano a trovarmi e io usavo la valigia come se davvero fosse stata un tavolino da caffè.

Alcuni fra i miei amici più cari avevano ribattezzato la mia estetica dell’arredo arte miseraah, è l’arte misera di Ilaria, dicevano; si situava un gradino sotto l’arte povera. Ma io non me la prendevo, e continuavo a impegnarmi, forse per puro snobismo, forse per un’insicurezza di ventenne che andava cercando un modo di distinguersi, oppure vai a sapere per che altro (forse il trauma del collegio, mi dico con il senno di poi), nella mia crociata contro gli arredi svedesi economici.

Insomma, però, quella squallida serretta Ikea era tutto quel che potevo permettermi. A renderla speciale sarebbero state le mie piantine grasse, mi dissi; la mia versione in miniatura di un giardino alle Canarie.

Ma ecco: morirono tutte.

Eppure non avevano bisogno di niente.

Forse ero io, allora, che avevo bisogno di qualcosa: per questo non potevo sopportare di essere circondata di quelle piccole bastarde, con la loro succulenta autosufficienza. Troppo cervellotico, dite? Sta di fatto che io avevo bisogno precisamente di una casa, in quel periodo. Avevo un tetto sopra la testa, sì. Ma chiamar casa il posto in cui vivevo richiedeva una dose quasi eccessiva di indulgenza. Non avevo nulla di lontanamente simile a quello che mi ero aspettata di avere alle soglie dei trent’anni; il compleanno si avvicinava, come fanno i compleanni, un giorno alla volta, e mai il suo avvicinarsi era stato così minaccioso. Trent’anni e non ero pronta affatto, mi dicevo con un orrore che sfiorava a volte il panico. Mi sentivo miseramente fallita: non solo non sarei riuscita a diventare un’adulta, ma avevo disatteso, una a una, tutte le promesse. Potevo immaginare, in quello spazietto angusto che non era nemmeno una casa ma un ex garage riadattato – la cucina era un armadio a due ante, l’aprivi e dentro trovavi una piastra e un acquaio – potevo immaginare, per dire, di far spazio a qualcun altro, di mettere in cantiere un bambino, come un’adulta di altri tempi? Certo che no, eppure era precisamente quel che mi suggerivano, ogni giorno più moleste, le pubblicità che comparivano su YouTube, ammonendomi a tener d’occhio i miei giorni fertili mentre io volevo soltanto potermi rassicurare con qualche scampolo di telefilm della mia adolescenza, tornare quasi bambina vedendomi anche un collage fatto male, una di quelle compilation da fan, di Dawson’s Creek o di Friends, remote americhe su cui avevo proiettato un giorno l’idea che diventare adulti fosse bellissimo. E ora ero lì che cercavo di consolarmi, con qualche sconosciuto esperto di marketing che tramite un algoritmo mi ricordava che dovevo pensare a riprodurmi prima che fosse troppo tardi; e stavo in uno spazio così piccolo, comunque, che non ci sarebbe stato posto, anche volendo, proprio per nessun bambino, né per nessuna delle cose che possono servire a un bambino, che poi, a dire il vero, non so nemmeno quali siano.

Cosa serve alle piante, invece, lo so: acqua. Acqua nella giusta quantità – né troppa né troppo poca. Il dito che infili nella terra deve sporcarsi, ma solo appena. Se esce pulito non va bene; e non va bene se nel vaso si ricopre di melma. Non va bene se lo ritiri con ribrezzo. Questo principio, però, datemi retta, non applicatelo mai alle piante grasse. È così, infatti, che le ho uccise. Mi sembrava stupido credere alla verità, credere che sul serio potessero non aver bisogno di niente, e le ho trattate come le altre. Le ho annaffiate.

Ero io, d’altronde, allora, quella che ripeteva a tutti di non aver bisogno di niente; come se le rade parole malmostose potessero far spuntare anche a me, come ai miei piccoli cactus in miniatura, spunzoni appuntiti, spine, per tener lontani tutti, per non rimanere più delusa.

Volevo pure vendicarmi, forse. Loro avevano una casa, proprio loro che non avevano bisogno di niente, mentre io avevo così tanti bisogni che nemmeno li riuscivo a nominare. Prima ancora che un’assassina di piante grasse, ero una che scriveva su un asse da stiro, per intenderci. Possedevo un unico paio di stivali ed ero molto preoccupata perché i tacchi, ormai completamente consumati, facevano un baccano infernale – e se la suola si fosse bucata? Perché non avevo altre scarpe, e a dirla tutta comprarne un altro paio avrebbe inciso un po’ più del dovuto sulle mie finanze.

Ero arrivata a Roma con una valigia sola, qualche tempo prima. Ero arrivata a Roma per amore, che è poi la ragione per cui ci sono rimasta; solo che all’inizio non era un amore semplice, era anzi una faccenda piuttosto ingarbugliata. Se mai, nella mia vita, mi sono sentita sola, è stato in quel periodo in cui uccidevo piante grasse. Penso che capiti a tutti, quando deludono le aspettative, quando decidono di mandare all’aria quella che fino al giorno prima era la vita che a destra e a manca promettevano di fare. Io, mi dicevo, non avevo promesso proprio niente a nessuno; ma sapevo benissimo che non era vero. E sapevo altrettanto bene che, se mi trovavo in quella situazione – niente cucina, accanimento su piante grasse, un unico paio di scarpe – la colpa era mia.

Mi trovavo in quelle condizioni in seguito a un tragico atto mancato, infatti, di cui mi ci sono voluti anni per venire a capo. Qualche settimana prima del giorno del mio arrivo alla stazione Termini su stivali dalle suole sottilissime e nessun’altra calzatura nella valigia verde con una rotella rotta, avevo ricevuto una telefonata. La voce era stupita, stupore francese: molto urbano, appena petulante. Perché non avevo presentato il mio dossier, la mia documentazione per il concorso?

Risposi sicura, con calma olimpica, che la ragione era semplice: c’era ancora un intero mese per preparare il dossier. No, signorina, fece la voce di là; e io mi sentii svenire. La data ultima era ieri, aggiunse, anche se ormai non ce n’era più bisogno. Avevo lavorato quattro anni a una tesi di dottorato, 586 pagine compresi gli indici analitici. Redatta in francese, a prezzo di notti insonni; per un periodo, finita la borsa di studio, mi ero mantenuta vestendo modelli nello showroom di Valentino, in place Vendôme. Di tanto in tanto ne uscivo, in divisa nera ma pur sempre firmata Valentino, e con le pagine di tesi stampate da qualche venditrice gentile nello showroom sottobraccio, andavo a fare anticamera dalla biondissima professoressa; che mi terrorizzava, malgrado la sua cortesia, o forse proprio per quella. Mi sentivo ogni volta un vermicello in divisa e chignon Valentino. Eppure ce l’avevo fatta, avevo finito quel benedetto lavoro, stampato la tesi in cinque copie consegnate poi in segreteria; l’avevo pure discussa, sei ore di discussione, la famosa soutenance che pare i dottorandi francesi si sognino a vita, ogni volta che qualcosa li turba nella restante teoria dei loro giorni. Qualche volta, in effetti, me la sogno anch’io –però nel sogno non riesco mai a sostenere un bel niente, ho sempre dimenticato qualcosa, un piccolo trascurabile documento. Non del tutto trascurabile era invece la documentazione che, qualche settimana dopo la discussione della tesi, avrei dovuto presentare per avere la speranza di proseguire la mia carriera accademica in Francia. Per dare un valore a quel lavoro mastodontico, stolido, che avevo fatto per mesi. Si trattava di un imponente dossier burocratico, lettere di presentazione redatte dai professori che mi avevano seguita, una marea di moduli. Avrei dovuto dimostrare che quello di continuare per la strada percorsa fin lì era il mio più grande desiderio; così avevo iniziato a procrastinare, come faccio sempre. È il mio più tipico approccio alla vita: rimandare, rimandare qualsiasi cosa. Se ho a disposizione un certo lasso di tempo per finire un qualsiasi lavoro, perché, per vasto che sia, non ridurmi all’ultimo momento? Qualcuno mi ha detto che lo faccio per sfida a me stessa – o che è un modo di esorcizzare il pensiero del fallimento. Così, se fallisco, posso sempre dirmi che avevo avuto poco tempo.

Non ho nulla da obiettare a questa tesi. Solo che, in quel caso, avevo fatto un passo in più, che trasformò tutta la faccenda in un’operazione diversa, e ulteriormente autodistruttiva. Non mi ero limitata a procrastinare, mi ero proprio sabotata. Non avevo rimandato fino all’ultimo momento possibile: avevo sbagliato a leggere la data della scadenza ultima del concorso. E avevo sbagliato di un mese pieno, che credevo di avere ancora, splendente e intatto, davanti a me; uno splendido mese per procrastinare.

Fu così quindi che si concluse, per purissima sciatteria, la mia brillante carriera accademica. Ero stata una bambina secchiona, un’adolescente saputella con pagelle esemplari in tutto, anche nell’ovvia onta dell’educazione fisica. Ero andata a studiare alla Normale di Pisa, cinque anni in collegio pur di essere indipendente, pur di rendere orgogliosi i miei genitori, le nonne, gli insegnanti che dalle elementari in poi mi avevano vista sbocciare. Avevo forse coltivato una segreta insofferenza, prima ancora di accorgermene, per tutti quegli anni; per la disciplina dei concorsi, del dover primeggiare, del cercarsi angoletti di studi inesplorati. Per il collegio con i mobili troppo spartani, che avevo ricoperto di pothos, di cui producevo talee a man bassa, pur di non doverli guardare; per il giardino fangoso in cui avevo piantato tulipani che spuntarono due aprili di seguito, anche se piantarli era illegale e quindi li avevo messi in un angolo nascosto, al riparo degli sguardi del custode, e probabilmente non li vide mai proprio nessuno. Per l’ansia costante della crisi che pesava su tutti noi, come un imperativo a dover emergere, emergere, emergere sugli altri; ad accettare qualsiasi incombenza, se poteva accreditarti agli occhi dei professori, se poteva dimostrare che eri disposta a lavorare di più, a sorridere di più, a fare di meglio. Tutta quell’ansia che mi rendeva lo studio, prima così naturale, una fatica… così almeno cercai di giustificarmi, quando delusi tutti.

Ma la verità era molto più semplice. Era solo che mentre vivevo a Parigi con i miei pomodori sulla finestra, e mi prendevo cura delle orchidee aeree dell’amica che mi aveva subaffittato l’appartamento, dentro di me era come sbocciato qualcosa. Qualcosa che somigliava forse più a un fastidio, a una specie di prurito insopportabile, a un’urgenza, a un insetto che ti ronza nell’orecchio quando cerchi di dormire, che a tutte quelle cose limpide, immacolate, perfettine, che mi ero abituata a considerare la mia sola possibile vocazione. Era qualcosa che per quanto ci avessi provato non potevo rimandare; e che cresceva, come quelle strane orchidee sospese da cavi invisibili alle travi, che nebulizzavo con acqua calda e, anche senza terra in cui cacciare le radici, fiorivano, per quanto potesse sembrare assurdo. Avevo scoperto che c’era una cosa che, quando la facevo, mi portava in un angolo di me in cui non avevo bisogno di detestare l’Ikea, né di dimostrarmi più brava degli altri; né di sentirmi inadeguata, né di costringermi a sfide contro l’ultimo secondo. Avevo iniziato a scrivere il mio primo romanzo. Cominciai per gioco, per distrarmi dalla tesi, per calmarmi quando sentivo che mi mancava il respiro – dispnea sospirosa, si chiama, ed è un disturbo ansioso che mi colpiva, prima che trovassi la mia cura, sempre più spesso; mi rimaneva il fiato come annodato all’inizio della gola, e c’era poco da fare, ero una pianta paralizzata dal terrore di non riuscire più a fare la sua brava fotosintesi, che inizi a non saperla più fare per davvero. E ancora non lo sapevo, perché per capirlo ci sarebbe voluto molto tempo, molti consigli affettuosi e spaventati di persone che mi avvertivano delle acerbe difficoltà a cui andavo incontro, molta apprensione, molta timidezza imbrigliata goffamente; ma era per seguire quella strada, quella spinosa vocazione, quella sensazione che, per quanto imperfetto, il mio modo di stare al mondo richiedesse precisamente quell’attitudine verso gli altri, verso la vita e verso di me, che trovavo solo nel luogo in cui mi rifugiavo scrivendo, che avevo buttato alle ortiche la carriera a cui ero stata promessa.

Mi ero liberata senza saperlo, a costo di deludere tutti quanti, me stessa per prima; mi ero permessa di fiorire storta, come le orchidee che crescevano sopra la mia testa mentre sotto le mie mani cresceva, senza che mi sembrasse plausibile, il romanzo, e la tesi mastodontica, grassa, la uccidevo pian piano, affogandola nell’ansia che mi avrebbe portata all’atto mancato.

Mi ci è voluto tanto tempo per perdonarmi. Nella mia prima casa-non casa di Roma, mentre uccidevo cactus e cercavo di non consumare le suole degli stivali, ho passato molte ore a piangere su quello che non ero riuscita a fare. Sull’amore che avevo perso, sullo studio sprecato, sulla delusione che ero stata. Mi salvò, come succede spesso, la bontà di uno sconosciuto. Camminavo un giorno al mercato, verso l’ora di chiusura. Vidi una felce al banco del fiorista, una piccola felce in un vaso da sospendere in alto, a una trave, a un gancio, a un chiodo. Mi sono sempre piaciute le felci: sono piante preistoriche, esistevano insieme ai dinosauri. Al loro cospetto, le preoccupazioni, i misfatti degli umani non sono durati che una frazione di secondo, non sono nulla. Ma io che sono avvolta in queste preoccupazioni, mi vidi costretta, desiderandola, a chiedere quanto costasse. E costava più di quanto mi aspettassi, me lo ricordo perché esitai e dissi al signore a cui avevo domandato il prezzo che allora era meglio di no. E lui fece una cosa che non ho più dimenticato. Mi disse di dargli un euro simbolico, e me la regalò; e per me, quello, anche se so che è un’interpretazione stupida, esagerata, retorica, fu un momento quasi di perdono.

La pianta preistorica l’ho portata poi con me, nel trasloco che ho fatto in taxi. Le valigie erano diventate due, la serretta l’ho lasciata nella casa-non casa. Ora la mia felce è cresciuta, occupa mezzo balcone. La tengo fuori, non ha certo bisogno di stare in casa; è esistita ben prima che qualcuno inventasse le case. Ho imparato a dire all’uomo che amo, e che ora vive con me, di cosa ho bisogno; non penso più di dover essere autosufficiente, non me la prendo, dunque, con le piante grasse perché ci riescono meglio di me. In ogni caso, basta cactus in miniatura, ho solo un’aloe, che cresce a dismisura. Ho una stanza in cui un bonsai che mi è stato regalato tempo fa, visto che ho rimandato troppo a lungo il momento di potarlo, sta sviluppando un ramo abnorme, degno di un albero a dimensione normale. Non so se sia una buona cosa, è tutto sproporzionato, stortignaccolo, sghembo, come continuo a sentirmi io. È sopravvissuto già a diverse estati, grazie a un intruglio che gli do quando parto: si chiama acqua complessata e ogni volta che la vado a comprare, alla vigilia di una partenza, mi viene da ridere perché forse è qualcosa di simile che tiene in piedi anche me.

(continua in libreria…)

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