Per la prima volta in Italia “Otto uomini”, raccolta di racconti di Richard Wright, maestro della letteratura nera americana (e autore di “Ragazzo Negro”). Un libro costruito sul tentativo di creare uno sguardo, spesso obliquo e straniante, attraverso cui raccontare l’esperienza di dominazione e assoggettamento razziale. Uno degli aspetti più riusciti sta nella capacità di non trattare il razzismo semplicemente come un tema, ma di farne piuttosto un orizzonte estetico e conoscitivo, un ambiente che i personaggi esperiscono e su cui la scrittura crea uno sguardo per il lettore, capace di esplorare le contraddizioni, le dinamiche e la complessità di quelle vite nere – L’approfondimento

Jean-Paul Sartre, in uno dei suoi testi più noti, Che cos’è la letteratura, scrive che ogni parola della scrittura di Richard Wright “rimanda a due contesti; in ogni frase agiscono contemporaneamente due forze, che determinano la tensione incomparabile del racconto”. Queste due forze, secondo Sartre, si rivolgono a due pubblici diversi: da un lato le sue parole sono dette (quasi pronunciate, perché la sua è una scrittura molto orale) ai neri che vi si riconoscono e rispecchiano, dall’altro, parlano ai bianchi, ma con uno scopo diverso, per “comprometterli, costringerli a valutare le loro responsabilità, a suscitare in loro indignazione e vergogna”.

È nella tensione fra queste due istanze, secondo Sartre, che sta la grandezza dei romanzi e dei racconti di Wright e una delle prove migliori che se ne possono trovare è in un grande libro documentario pubblicato nel 1941 (e purtroppo mai tradotto in italiano) sulle condizioni di vita dei neri in America dopo la Grande Depressione. Si tratta di 12 Million Black Voices, uno dei rari casi letterari che riescono a superare le impasse dell’asimmetria che caratterizza le scritture reportagistiche attraverso l’invenzione di una voce e di uno sguardo di una comunità che si guarda e parla dall’interno.

Richard Wright Otto uomini

Queste stesse caratteristiche possono ritrovarsi in Otto uomini, raccolta di racconti appena pubblicata in Italia (per la prima volta in versione completa: una selezione era uscita nel ’51 grazie a Fernanda Pivano) da Racconti edizioni nella traduzione di Emanuele Giammarco (e con le illustrazioni di Diana Ejaita).

Si tratta di un libro pubblicato originariamente postumo nel 1961, ma che Wright inizia a scrivere nel 1944 e che è tutto costruito sul tentativo di creare uno sguardo, spesso obliquo e straniante, attraverso cui raccontare l’esperienza di dominazione e assoggettamento razziale. E la questione dello sguardo è davvero, qui, quella centrale perché Wright pone il lettore direttamente dentro gli occhi dei personaggi, filtrando tutta l’esperienza attraverso il prisma del razzismo – tanto dalla posizione della vittima quanto da quella del carnefice, e amplificando ogni tipo di effetto sensoriale a partire dalla grande attenzione alla corporeità, per sottolineare che esperire il razzismo vuol dire anche mettere in causa l’esistenza biologica della propria soggettività. E che le esperienze di assoggettamento raccontate in queste pagine sono anche esperienze di soggettivazione: cioè di delimitazione e modificazione della propria identità: il protagonista de L’uomo che visse sottoterra arriva a dimenticare il proprio nome, il proprio indirizzo, il suo comportamento sembra quello di un folle e le sue reazioni fuori contesto, al punto che uno dei poliziotti dai quali è stato picchiato e ingiustamente arrestato arriva a chiedere: “Secondo te che malattia c’ha?”. E la risposta sembra non lasciare dubbi: “‘Forse è perché vive in un mondo di bianchi’ disse Lawson”.

Non a caso, una delle situazioni che più di frequente si incontra nelle pagine di Otto uomini è quella che Frantz Fanon in un saggio del 1952, Pelle nera maschere bianche, definiva “scissiparità”, vale a dire una forma precisa di retaggio coloniale che porta i neri ad assumere codici comportamentali diversi a seconda che siano in presenza di bianchi o meno, e di cui Wright indaga tutti i risvolti fisici e psicologici, mostrandone, non di rado, anche le forme patologiche – in stretta connessione alle condizioni economiche.

Gli otto racconti che compongono la raccolta offrono il ritratto di altrettante vite, altrettante esperienze, così diverse fra loro per ambientazione sociale e geografica e che pure sono facilmente riconducibili a un denominatore comune nel loro mettere in scena gli effetti che il razzismo ha sulla vita dei dominati e su quella dei dominanti. Così il racconto di un uomo ingiustamente inseguito dalla polizia che si rifugia (letteralmente e simbolicamente) nelle fogne e finisce per perdere la ragione perché “anche se innocente si sentiva colpevole e condannato”, si accompagna alla storia di un impiegato d’albergo svedese che non riesce a cogliere la gratitudine e la generosità di un uomo perché troppo intimorito dalla presenza del suo grande corpo nero percepito come una minaccia (“Per quanto si sforzasse, però, non riusciva a scrollarsi di dosso il suo odio primitivo per quella nera montagna d’energia, muscoli, e ossa”); o ancora la storia di un adolescente che lavora nei campi e sente il bisogno insopprimibile di possedere una pistola; il racconto di un giovane ghanese trascinato a Parigi da una coppia di snob europei quasi come animale di compagnia e che (ancora una volta) perde la ragione perché non è in grado di razionalizzare l’alterità totale del mondo che si trova davanti; o la vicenda di un uomo che è costretto a fingersi una donna per trovare lavoro ed esperisce così, sul suo corpo, una doppia forma di dominazione: “Sono stato una donna per quasi sei ore e un altro po’ mi ammazzano. Due ore con quel vestito e pensavo già di diventare pazzo”.

Alla varietà delle realtà messe in scena corrisponde anche una varietà di stili con cui Wright mette insieme, pezzo per pezzo, questo paesaggio narrativo: l’espressionismo, talvolta macabro (e impietoso), talvolta grottesco può convivere con il tragicomico, con la commedia degli equivoci, con la registrazione fredda e smorzata, con l’enfasi esagerata del discorso gridato, col canto collettivo o l’orazione, con la mimesi dei linguaggi orali, spesso sgrammaticati, senza cedere mai tuttavia al pietismo e al sentimentalismo.

Una struttura così polifonica sta, appunto, lì a segnalare l’irriducibilità dell’esperienza di assoggettamento e soggettivazione ad una situazione unica, a una lingua unica – per non incappare, insomma, in quello che Chimamanda Ngozi Adichie in una famosa TedTalk, poi divenuta libro, ha chiamato “Il pericolo di un’unica storia”.

Uno degli aspetti più riusciti della scrittura di questi racconti sta proprio nella capacità di non trattare il razzismo semplicemente come un tema, ma di farne piuttosto un orizzonte estetico e conoscitivo, un ambiente che i personaggi esperiscono e su cui la scrittura crea uno sguardo per il lettore, capace di esplorare le contraddizioni, le dinamiche e la complessità di quelle vite nere: “Odiato dai bianchi, eppure parte organica di quella cultura che lo odia, l’uomo nero finisce a sua volta per odiare in se stesso ciò che gli altri odiano in lui. Ma l’orgoglio gli farà odiare anche l’odio che ha per se stesso, perché non vuole che i bianchi sappiano di averlo soggiogato a tal punto da condizionare con il loro atteggiamento tutta la sua vita; e però anche nel nascondere il suo odio per se stesso, non può fare a meno di odiare coloro che l’hanno evocato in lui. Ogni momento della giornata viene dunque consumato in una guerra contro di sé, una parte sostanziosa delle sue energie spesa nel mantenere il controllo delle proprie sregolate emozioni”.

 

 

 

 

 

 

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