Al protagonista di “Solo una canzone”, il nuovo romanzo di Roberto Livi, fra il ristorante su cui fioccano recensioni negative e la moglie paleontologa che inizia a stufarlo, le cose non vanno poi così bene. Per stare meglio gli basterebbe riuscire a scrivere una canzone, solo una, da cantare poi a una persona in particolare… – Su ilLibraio.it un capitolo

Il ristorante va a rotoli, e lui non vorrebbe certo farlo andare meglio. Non ne può più delle recensioni crudeli su Google, del mal di piedi, di essere libero solo di martedì. Comincia a essere stufo anche dell’Ave, la moglie paleontologa che sa sempre tutto, e quando parla sembra un fiume in piena.

Sono questi gli stati d’animo del protagonista di Solo una canzone (Marcos y Marcos), romanzo con cui lo scrittore pesarese Roberto Livi, classe 1967, torna in libreria dopo aver pubblicato nel 2017 La terra si muove (Marcos y Marcos), che si era aggiudicato il Premio Procida-Isola di Arturo-Elsa Morante 2017.

Al suo nuovo personaggio basterebbe riuscire a scrivere una canzone, solo una; trovare il ritornello per quella che ha già in testa, che intona nel ristorante di notte, o sull’acqua, tra le gole dei monti, sognando un pubblico che non c’è. E non è per una folla che lui vorrebbe cantare; è destinata ad Agnese, la sua canzone. Se riuscisse a farle venire le carni cappone, potrebbe smettere di vestirsi sempre di nero, potrebbe fare quel che non ha mai fatto, e non lo fermerebbe più nessuno…

Copertina del libro Solo una canzone

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un capitolo:

Alla fine di una giornata di lavoro, ogni volta che mi tolgo le scarpe, penso all’errore che ho fatto quel giorno che ho interrotto gli studi. Ogni volta che cambio i cerotti dell’alluce penso che forse, con un’istruzione superiore, avrei potuto lavorare da solo. Forse avrei potuto addirittura lavorare da solo e in posizione comoda.

Mio padre mi diceva studia, non fare come me, mi diceva, te devi studiare. Mio padre ci teneva tanto a farmi studiare. Il problema è che ci teneva troppo, così è successo che più mi diceva studia, meno io studiavo. Come quel giorno che mio padre mi ha portato un atlante europeo De Agostini usato che aveva trovato chissà dove. Era così contento di avermi fatto quel regalo che io non ho potuto fare a meno di dirgli:

“Ti ringrazio ba’, bello questo atlante”.

Ma dal momento che ho ricevuto l’atlante ho cominciato a sentire come un fastidio per la geografia, direi quasi un rifiuto, e ancora adesso non mi interessano i confini degli stati, proprio non li voglio sapere, specialmente quelli europei.

Poi, quando una sera mio padre è arrivato a casa con lo scatolone dell’Enciclopedia Universo, io quella sera avrei voluto dirgli:

“Babbo, per favore, non regalarmi l’Enciclopedia Universo”.

Ma lui era così entusiasta di quei quattordici volumi che io non ho avuto il coraggio di dir niente.

Mio padre dava grande importanza all’istruzione e alle persone istruite. Per lui un qualsiasi ragioniere era un’autorità, e un libro qualunque, basta che fosse stampato, era da considerare un oggetto di valore. Per esempio il manuale delle pentole, quello che è arrivato nel pacco della batteria di pentole d’acciaio Aeternum. Il marchio Aeternum suggeriva una durata eterna, invece, con gli anni, è successo che le pentole, una alla volta, o si è rotto il manico, o si è bruciato il fondo, sono andate tutte distrutte. L’unico a salvarsi della batteria di pentole è stato il manuale d’uso, che si è conservato come nuovo nello scaffale in cucina. Mio padre era analfabeta, non se ne faceva niente di un manuale, eppure per lui quel libro era un valore, e guai a chi ci faceva uno scarabocchio.

Stessa cosa con gli elenchi telefonici. Una volta l’anno, quando arrivava l’addetto della sip per la sostituzione dell’elenco telefonico, mio padre era sempre contento di ricevere il nuovo elenco. Ma alla richiesta dell’addetto di restituire il vecchio elenco per mandarlo al macero, mio padre rispondeva:

“Eh no, mi dispiace, il vecchio elenco non c’è più, l’abbiamo perso”.

Invece non era vero, non era andato perso. L’elenco era al sicuro, nello scaffale della cucina, assieme a tutti gli elenchi passati, ’79, ’80, ’81 e molti altri.

Ogni tanto, la sera prima di andare a dormire, vedevo mio padre seduto in cucina che sfogliava un elenco telefonico. Mi faceva una compassione.

A quei tempi mi vergognavo dell’ignoranza di mio padre. C’è voluta la sua morte per farmi cambiare idea. Ho cominciato a pensare a quale strano tipo di analfabeta era mio padre, che era tanto ignorante da non saper leggere le lettere dell’alfabeto, ma che sapeva leggere benissimo le note musicali dallo spartito.

La sera prendeva il sassofono e cominciava a suonare. Col sassofono non faceva neanche un errore. Suonava le note precise uguali come erano scritte, tipo zampogna meccanica.

Mia madre per protesta alzava al massimo il volume del televisore, ma non serviva a niente. Mio padre suonava più forte. Il suo pezzo preferito era Le tristezze di Sciopìn. Il resto del programma comprendeva diversi lisci e sincopati, ma Le tristezze di Sciopìn non mancava mai. Una sera mio padre mi ha detto:

“Le tristezze di Sciopìn, che bella canzone. Quanto mi piacerebbe averla scritta io. È proprio bella, eh?”

“Bella sì” ho risposto io.

Allora lui mi ha chiesto:

“Ma dimmi un po’, secondo te, chi è che l’ha scritta Le tristezze di Sciopìn?”

Io lo sapevo, perché sullo spartito c’era scritto “Tristesse. Romanza tratta dallo studio per pianoforte numero 3 opera 10 in MI maggiore di F. Chopin”, però, siccome ci tenevo a far dispetto a mio padre, ho risposto:

“Non lo so ba’, mi dispiace”.

(continua in libreria…)

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