Guido Vitiello torna in libreria con “Il lettore sul lettino. Tic, manie e stravaganze di chi ama i libri”, un campionario colto e divertente delle abitudini che circondano l’uso dei libri e dei meccanismi profondi che regolano i piaceri e i dispiaceri della lettura – Su ilLibraio.it, un estratto dedicato ai comandamenti dei cosiddetti “lettori nevrotici”

Come nelle migliori famiglie, anche in quella degli amanti dei libri non manca qualche zio matto, il cui ritratto è tenuto prudentemente in soffitta: il collezionista pluriomicida, il cleptomane impenitente, quello che si mangia la carta…

Ma non è di loro che parla il saggista e docente Guido Vitiello nel suo nuovo libro (ispirato dalla rubrica tenuta dall’autore su Internazionale), in uscita per Einaudi: Il lettore sul lettino. Tic, manie e stravaganze di chi ama i libri.

Più che ai lettori psicotici, infatti, l’opera del “bibliopatologo” Vitiello si dedica ai turbamenti del lettore nevrotico, che poi altri non è che il lettore comune. E così, c’è chi è colto dall’angoscia se deve prestare un libro; chi si obbliga, mentre legge, a non sbadigliare; c’è il lettore poliamoroso che legge più libri contemporaneamente o, al contrario, il monogamo seriale che non tocca un romanzo prima di averne finito un altro; chi si vergogna a dire di non aver letto un classico e perciò l’ha sempre, per definizione, “riletto” e chi annota i libri seguendo un proprio cifrario idiosincratico…

Se è vero che la lettura è un “vizio impunito” che ci porta a considerare normali dei comportamenti che in qualunque altro ambito apparirebbero perversi – pensiamo al gesto di annusare voluttuosamente la carta –, allora non dobbiamo stupirci di fronte alle mille stramberie del lettore comune, che, visto da vicino, ci apparirà molto meno comune di quanto sembra.

Copertina del libro Il lettore sul lettino

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

(…) anche il rapporto del lettore nevrotico con i libri è disseminato di rituali e interdizioni rispetto ai quali, a voler essere evoluzionisti fino in fondo, i dieci comandamenti sono un distillato di modernità e di spirito illuministico.

Primo, non buttare. Avete mai provato a gettare un libro, anche il più deplorevole dei libri, nella spazzatura? Sentirete una forza soprannaturale che vi trattiene nel momento di lasciarlo cadere nel cestino, più irresistibile dell’angelo che fermò la mano di Abramo pronta ad abbattersi su Isacco. Eppure, per quanto possiamo sforzarci di razionalizzare, ossia di cucire un vestitino intellettuale accettabile intorno a un’angoscia nevrotica, è fin troppo evidente che si tratta di un riflesso superstizioso. Riporto la testimonianza candida e onesta di un’adorabile signora di Philadelphia. Helene Hanff, scrittrice, è nota soprattutto per le lettere che si scambiò lungo vent’anni con un libraio antiquario di Londra, Frank Doel, fino alla morte di quest’ultimo nel 1969. Dal carteggio, pubblicato con il titolo 84, Charing Cross Road, è stato tratto un film con Anne Bancroft e Anthony Hopkins… ma cosa sto a darvi tutti questi dettagli: se siete lettori nevrotici come me, il libro lo conoscete già, e anche il film. Nessuno può seriamente dubitare che Helene Hanff amasse i libri. Eppure, sentite cosa scriveva al libraio Doel il 18 settembre del 1952:

“Ogni primavera, faccio le pulizie generali alla mia libreria ed elimino i libri che non rileggerò mai più, come elimino i vecchi vestiti che so che non indosserò mai più. E tutti si scandalizzano molto per questo. I miei amici sono strani con i libri. Leggono tutti i best seller, li divorano il più velocemente possibile, penso che saltino un sacco di pagine. E non rileggono MAI nulla una seconda volta, di modo che un anno dopo non ne ricordano una sola parola. Eppure, se mi vedono buttare un libro nel cestino o darlo via si scandalizzano profondamente. Secondo loro compri un libro, lo leggi, lo metti nella libreria, non lo riapri più per il resto dei tuoi giorni, ma NON LO BUTTI VIA! SOPRATTUTTO SE HA UNA COPERTINA RIGIDA! E perché mai? Personalmente non riesco a immaginare nulla di meno sacrosanto di un libro brutto o addirittura di un libro mediocre”.

Così parla una lettrice non nevrotica. Il tabù del cassonetto è un privilegio immotivato, che non  accetteremmo di accordare a nessun’altra specie merceologica. Tutto si butta: vestiti logori, cibi scaduti, lampadine fulminate, mobili desueti, pile di giornali, oggetti che ingombrano senza dare nessun beneficio. I libri no. I libri si conservano, e se li scopriamo ammucchiati in un cassonetto sentiamo che c’è qualcosa, se non proprio di sacrilego, quantomeno di incongruo: come trovare un paio di scarpe in frigorifero. Per quale ipotetico inverno, come formichine, stipiamo cose che non ci serviranno mai? E che se proprio dovessero servirci – ma non ci serviranno, e lo sappiamo bene – le biblioteche stan lì apposta? Fanne uno scatolone e mettili in soffitta, dicono i più pavidi, convinti di aver trovato una soluzione di compromesso, se non fosse che nella lingua impietosa del dottor Freud compromesso è sinonimo di sintomo nevrotico. Quante volte siamo andati a recuperare un libro sepolto in chissà quale pacco polveroso? La soffitta è come il famigerato periodo di riflessione quando un amore finisce, un sotterfugio dettato dal senso di colpa: caro Atlante De Agostini 1992, ti sto scaricando, ma non ho il coraggio di dirtelo in faccia.
Eppure io, lettore nevrotico tra lettori nevrotici, predico bene ma razzolo malissimo, come la mamma del granchio nella favola di Esopo che comandava al figlio di camminare dritto. Ho conservato tutti i parallelepipedi della mia vita di lettore: libri scolastici, manuali di istruzioni di tecnologie obsolete da decenni, un vasto assortimento di primi volumi omaggio di enciclopedie allegate ai quotidiani (so tutto sulle persone i cui cognomi cominciano per A), doppioni, triploni… questi e altri ectoplasmi fluttuano nella soffitta familiare, sospesi in una dimensione intermedia tra la persistenza e l’estinzione per la quale forse solo il Libro tibetano dei morti ha le metafore adatte.
In Ruined by Reading, la scrittrice Lynne Sharon Schwartz racconta le sue disavventure nevrotiche con un libro – uno solo – «troppo orribile per vivere», e che aveva pertanto condannato alla pena del cassonetto. Non lo avesse mai fatto. «Per tutto il giorno il pensiero di quel libro in mezzo a ossi di pollo e noccioli d’oliva mi ha tormentato. Cinque o sei volte l’ho tolto e rimesso, come un boia che abbia scrupoli sulla pena capitale. Infine l’ho sistemato su uno scaffale alto dove non avrei dovuto vederlo». Scena degna del Cuore rivelatore di Poe – l’assassino che crede di sentire il battito cardiaco della sua vittima sotto le tavole del pavimento dove ha nascosto il cadavere, e impazzisce.
Confesso, solo una volta nella mia vita sono riuscito a contravvenire a questo retaggio atavico e a violare fino in fondo il tabù. Ho buttato nella spazzatura il libro di un vip televisivo di cui non m’importava nulla; un libro così insulso che nemmeno l’autore, che chiaramente non lo aveva scritto, avrebbe mai osato leggere. Eppure… Eppure, il ricordo di quel delitto mi assilla da anni. Credo che un giorno lo ricomprerò in due o tre copie, per placare le ire del sacro parallelepipedo.

Secondo, non mollare. Alcuni lettori nevrotici non sanno liberarsi da questo comandamento, e se lasciano un libro a metà sono divorati dai sensi di colpa. Verso l’autore, verso sé stessi, ma soprattutto verso il grande feticcio. Salman Rushdie racconta che da ragazzo aveva preso l’abitudine di baciare ogni libro che abbandonava, per scusarsi della mancanza di rispetto. Molto poetico, non c’è dubbio; quanto a modernità, però, se vogliamo collocarlo su una scala evoluzionistica alla Tylor, siamo più o meno all’altezza dei cacciatori paleolitici che abbattuto il bisonte correvano a riappacificarsi con la Signora degli Animali. E tuttavia, la nevrosi della lettura integrale è ancora molto diffusa.
Annie François, redattrice di una casa editrice parigina, ha passato la vita tra i libri. Solo intorno ai cinquant’anni, però, si è sentita abbastanza libera da attribuirsi il diritto di piantare un brutto libro senza averlo finito. Prima di questa liberazione, racconta nell’«autobiobibliografia» La lettrice, «un vecchio vezzo giudaico-cristiano in favore di una possibile redenzione mi costringeva a subire il martirio fino alla fine». Lettore mio, lettore mio, perché mi hai abbandonato? Quel lamento del libro immolato doveva essere insopportabile alle sue orecchie, come il belato degli agnellini per la dottoressa Clarice Starling del Silenzio degli innocenti. Al più ignobile dei manoscritti arrivato presso la sua casa editrice Annie François riservava l’onore di una lettura completa, e anche in casa propria, con le letture di piacere, le cose non andavano meglio: «Se capitava che una noia mortale mi assalisse fin dalla prima riga, andavo comunque fino in fondo. Anche qui mi sono fatta più audace. Se un libro non riesce ad avvincermi dopo trenta pagine, lo mollo». E quando lo molla si sorprende a constatare che l’universo, incredibilmente, non crolla a pezzi. Anzi, confida, «vengo pervasa da una sorta di immenso giubilo. Un senso di liberazione ben superiore alla pienezza che si prova chiudendo certi libri magnifici». E va bene, lo abbiamo imparato sui banchi di scuola, tra Leopardi e Schopenhauer, che il piacere è la cessazione del dolore. Ma il giubilo di Annie François è davvero un po’ troppo enfatico per non insospettire uno psicoanalista: si era liberata non solo di un brutto libro, ma anche della soggezione nevrotica al sacro parallelepipedo.
Anche per questo secondo tabù le razionalizzazioni abbondano. Perché incaponirsi a finire i libri? Alcuni usano argomenti che stanno tra la parsimonia e la disciplina alimentare infantile, insomma l’eco interiorizzata della voce della mamma che ti diceva di non alzarti da tavola finché non avessi svuotato il piatto: «Ho appena cominciato a leggere il primo tomo di una trilogia distopico-fantapolitico-poliziesca di 2200 pagine e 4,8 kg, è una rottura micidiale, gradirei morire, ma ho speso diciotto euro e cinquanta centesimi e a questo punto devo leggerla fino in fondo, tutti e tre i tomi». Visto da vicino, il ragionamento si rivela frutto di un’aritmetica fantastica, che potremmo esplicitare così: «Ho buttato dei soldi, ora per pareggiare i conti devo buttare anche del tempo». Ditemi voi se non è un calcolo nevrotico.
Altri, in uno sforzo di razionalizzazione più sottile, cercano di mettere la loro nevrosi sul conto di Plinio il Vecchio, per via dello sciagurato principio che insegnò al nipote Plinio il Giovane, e che questi passò all’amico Bebio Macro e, per suo tramite, alla posterità: Nullus est liber tam malus, ut non aliqua parte prosit, nessun libro è così cattivo che in qualche sua parte non possa giovare. Ora, mi sembra imprudente trascurare il dettaglio che nel i secolo dopo Cristo circolava qualche libro in meno di oggi, e che nessuno poteva prevedere che saremmo finiti sotto un’eruzione editoriale assai più tumultuosa di quella del Vesuvio in cui morì Plinio. Sono ragionevolmente certo che il Vecchio, se avesse avuto una visione profetica delle fiumane laviche di carta e di inchiostro che si rovesciano ogni settimana sui banchi delle nostre librerie, si sarebbe affrettato a ripudiare il suo motto imprudente, a capovolgerlo, perfino a maledirlo.

Terzo, non sbadigliare. Così scrive Evagrio Pontico, monaco vissuto nel iv secolo dopo Cristo:

“L’accidioso, quando legge, sbadiglia spesso, e cade facilmente nel sonno, si sfrega il viso, stende le braccia e alza gli occhi dal libro, fissandoli alla parete. Messosi ancora un po’ a leggere, si affatica inutilmente, ritornando sul significato delle parole; conta le pagine, valuta l’impaginazione, critica la scrittura e l’ornato. Alla fine, chiuso il libro, ci mette la testa sopra e dorme un sonno decisamente non profondo, perché la fame risveglia la sua anima e le angosce riprendono”.

Non facciamo l’errore di scambiarla per una descrizione bonaria: l’accidia è un peccato capitale, nonché uno degli otto spiriti della malvagità enumerati da Evagrio.
Ne è rimasta, presso i lettori profani, una certa riluttanza a confessare la noia, soprattutto quando sono a cospetto di libri che l’opinione prevalente propone come importanti, imponenti, imprescindibili. Il sintomo è la «repressione degli sbadigli», e non viene dalle opere di Freud, bensì dalla burla di un suo arcinemico, il crociano Francesco Flora. È uno dei filosofi idealisti che quando la psicoanalisi, passando per Trieste, posò i suoi bagagli in Italia e cercò di acclimatarsi nei grandi centri della nostra cultura, scrutarono quella dottrina esotica dall’aspetto un po’ losco con un misto di sospetto, incomprensione e aperta ripulsa. Nel 1934, in uno spietato e moraleggiante Congedo a Freud, Flora ironizzava sul «pansessualismo» della psicoanalisi:

Se domani qualcuno volesse costruire una teoria psicologica per mostrare che il vero scopo della vita umana è quello di sboccare in una serie di sbadigli, e che la repressione degli sbadigli è la vera origine dei mali (tra le norme di buona educazione c’è quella di evitare gli sbadigli in pubblico, e gli sbadigli si vendicano di noi con le forme di nevrosi!); e che l’atto sessuale è un’allegoria dello sbadiglio, e il sogno uno sbadiglio represso, tutti gli argomenti andrebbero bene, sol che si ordinassero su una trama d’aspetto scientifico.

È un peccato che Flora non abbia dipanato più a lungo questo bozzolo di teoria, che l’abbia usata solo come esempio sarcastico: io dico che avrebbe potuto estrarne fili preziosi. Quando, come lettori, ci sottomettiamo a una Legge sadica e irragionevole – vedi il secondo comandamento: non mollare – il nostro inconscio si vendica a suon di sbadigli. Questo contegno tradisce un’idea della lettura come liturgia tetra e puritana; e solo in una cultura segretamente fondata sulla «repressione degli sbadigli» poteva nascere la formula guilty pleasure, il piacere colpevole di leggere un libro appassionante ma pubblicamente disprezzato, che ci portiamo a letto in segreto ma non oseremmo presentare in società: in breve, il best seller come prostituta delle lettere.
Sulla rivista «Tempo Presente», nel 1962, Giovanni Russo diede il resoconto di un simposio tra amici e colleghi sul costume letterario. Si erano chiesti se la Noia avesse o meno «il diritto di assidersi al fianco della Musa», e come mai critici e recensori avessero uno strano pudore a farne un metro per giudicare il valore di un libro. Diceva uno dei convitati:

“Mi domando: i critici non sentono il morso della noia? Che cos’è la noia se non il rinsecchirsi, il rinchiudersi, lo sfiorire nell’animo del lettore della disponibilità a sentire l’«opera d’arte», a comunicare con i personaggi, a godere della loro vita artistica? La mancanza di severe reprimende alla noia da parte degli autorevoli critici è quanto mai dannosa”.

Infortuni del terzo comandamento. È un precetto che va perdendo la sua presa, incalzato com’è dall’impazienza un po’ capricciosa di lettori con la smania di essere intrattenuti. Ma la «repressione degli sbadigli» sopravvive ancora nelle pagine culturali dei giornali, soprattutto tra le righe delle recensioni. Quando un critico vuole far trapelare che si è annoiato a morte, ma ha paura di confessarlo prima di tutto a sé stesso, userà il più vuoto, fiacco e cerebrale degli aggettivi, che possiamo decifrare come un sintomo nevrotico, una soluzione di compromesso tra ciò che l’inconscio indisciplinato avverte e ciò che il Super-Io culturale prescrive. Questo aggettivo è «interessante». Immagino come debba sentirsi un giovane scrittore quando viene elogiato per il suo «esordio interessante»: più o meno come la ragazza bruttina che si sente etichettare come «un tipo». Non dovrà stupirsi, poi, se troverà il suo critico a letto con un best seller. Un guilty pleasure e via – si fa sempre in tempo a confessarsi e a ottenere il perdono degli spiriti magni.

Quarto, non sottolineare a penna; quinto, non fare orecchie… Quanto più ascendiamo verso le cime psicotiche dove albergano i nostri zii matti, i bibliofili e i collezionisti, tanto più i divieti, i tabù e le regole rituali si infittiscono e prendono un volto persecutorio. Per il comune lettore nevrotico, grazie al cielo, la precettistica fossile dei sommi sacerdoti è un’eco più flebile, come le reminiscenze del catechismo. Il suo culto discreto per il libro assume le forme più tolleranti e calorose che sono spesso tipiche della devozione popolare: qualche pellegrinaggio ai santuari dei festival e delle fiere, un inchino appena accennato presso le vetrine delle librerie, un timido scappellarsi davanti agli scaffali più alti, dove dimorano gli spiriti degli antenati.

(continua in libreria…)

Fotografia header: GettyEditorial 31-05-2021

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