Quanto siamo condizionati dalla nostra storia familiare dei soldi? È colpa delle donne se sono più povere degli uomini? Quanto ci pagano è davvero la misura del nostro valore? Queste sono solo alcune delle domande che scandiscono “Quali soldi fanno la felicità? – Perché le donne non sono pagate abbastanza, e altre domande audaci” di Annalisa Monfreda, autrice che attraverso i microfoni del podcast “Rame” si è fatta raccontare da moltissime persone la loro storia finanziaria più intima – Su ilLibraio.it l’epilogo, che inizia così: “A un certo punto ho iniziato a parlare di soldi con tutti…”

Quanto siamo condizionati dalla nostra storia familiare dei soldi? È colpa delle donne se sono più povere degli uomini? Quanto ci pagano è davvero la misura del nostro valore?

Queste sono solo alcune delle domande che scandiscono Quali soldi fanno la felicità? – Perché le donne non sono pagate abbastanza, e altre domande audaci di Annalisa Monfreda (edito Feltrinelli e in libreria dal 27 febbraio), un saggio “di contro-educazione finanziaria”, che ci porta a riconoscere di quanti e quali soldi è fatta la nostra felicità e a riscrivere il nostro personale modo di gestire e pianificare le finanze.

Quando decide di lasciare il lavoro dipendente, Annalisa Monfreda – autrice e giornalista classe ’78 che ha diretto magazine come Top Girl, Geo, Cosmopolitan, Starbene, TuStyle, Confidenze e, per nove anni, fino alla fine del 2021, Donna Moderna – si avventura in una conversazione inedita con il suo estratto conto. Si accorge che, per lungo tempo, ha considerato il “non parlare di soldi” una qualità morale, senza mai domandarsi quali conseguenze avesse. Seguendo il filo della propria relazione incompiuta con i soldi, ne individua le radici nella sua storia familiare e in un modello socio-economico che, da una parte, monetizza il nostro valore e, dall’altra, ci educa a tacere l’argomento denaro.

Attraverso i microfoni del podcast Rame, l’autrice di Come se tu non fossi femmina (Mondadori, 2018) e Ho scritto questo libro invece di divorziare (Feltrinelli, 2022) si fa raccontare da oltre cento persone la loro storia finanziaria più intima. Scopre così che ognuna prova vergogna o senso di colpa per le scelte che ha fatto, per i soldi che ha perduto, per quelli che non riesce a guadagnare, o che possiede senza esserseli sudati. Siamo tutti soli con il nostro conto in banca, che più sparisce dai discorsi, più costituisce l’impalcatura su cui si reggono le nostre relazioni, i desideri e la speranza nel futuro. Ma non deve essere per forza così…

L’ipotesi di fondo, la fiducia che muove la scrittura del libro, è la convinzione che possiamo cambiare la nostra relazione con i soldi, togliere loro il potere e scippargli il controllo sulla nostra vita semplicemente mettendoli al centro della conversazione. E che questa nuova relazione, oltre a renderci più felici, possa rappresentare una delle spinte più forti verso la trasformazione di un sistema economico che riteniamo inamovibile, quasi fosse una legge naturale. Ma che è solo l’ennesima storia che ci siamo raccontati

Quali soldi fanno la felicità di Annalisa Monfreda

Per gentile concessione dell’editore, su ilLibraio.it pubblichiamo un estratto del libro:

Epilogo

A un certo punto ho iniziato a parlare di soldi con tutti. Quando il mio amico Antonio, nel pieno dei lavori di ristrutturazione della casa appena comprata, si è presentato all’aperitivo col viso contratto dalla preoccupazione, gli ho chiesto che tipo di mutuo aveva fatto, quanto prendeva di stipendio e quali altre spese fisse sosteneva abitualmente. Quando la mia amica Marisa mi ha espresso il dubbio se continuare a far studiare sua figlia in una scuola media parificata, le ho chiesto quanto pesavano sul bilancio familiare gli altri figli di suo marito. E quando la mia amica Veronica ha iniziato a paventare l’idea di dimettersi, le ho domandato che cosa avrebbe ereditato in qualità di figlia unica. Fino a quel momento, il potere della conversazione era riuscito a illuminare ogni zona oscura della vita dei miei cari, dai desideri alle paure, dai disagi più indicibili alle gioie più intime. Eppure, restava sempre un angolo buio che mi impediva di avere la visione d’insieme. Mi si chiedeva come la pensassi su pressoché ogni scelta, e io dicevo la mia, pur sapendo di non avere tutti gli elementi necessari per poter esprimere una vera opinione. Il giorno in cui ho iniziato a chiedere ai miei amici la storia dei soldi dietro quella che mi stavano raccontando, ho avuto per la prima volta la percezione di trovarmi dentro un racconto compiuto. Mi sono accorta di quanto l’argomento denaro fosse un tabù solo nel momento in cui l’ho introdotto nella conversazione. Ho dovuto forzarmi a farlo. Non c’era niente di naturale. Ho dovuto darmi il permesso di porre certe domande, e tutte le volte me lo sono accordato come una sorta di esperimento sociale, pronta a chiedere scusa di fronte a un interlocutore stranito o infastidito. Non è mai successo.

Rompere il tabù dei soldi ha portato le mie relazioni a un livello di intimità superiore, ma soprattutto ha acceso un faro sugli effetti che questo silenzio ha sulla nostra vita. Ho dedicato un capitolo a ciascuno di questi effetti, me ne resta giusto uno da affrontare. Il più inatteso.

Stefano Massini, anni fa, quando scrisse The Lehman Trilogy, l’opera teatrale che narra la saga finanziaria dei fratelli Lehman, dall’Ottocento al 2008, anno della bancarotta e della conseguente crisi del capitalismo finanziario, raccontò che prima di dedicarsi a questa storia, era solito saltare le pagine di economia dei quotidiani. “Di questa disciplina non mi sono mai interessato,” confessò, “e questo atteggiamento, forse, è alla base di un pregiudizio che avevo: che la crisi fosse stata creata dai finanzieri. Se vai a vedere i fatti, ti accorgi che, certo, c’è stata una gestione spregiudicata, con un’estrema ricerca di rischio. Ma i Lehman non hanno fatto altro che dare ciò che la società chiedeva affannosamente: l’arricchimento facile, semplice. I risparmiatori privati investivano i loro risparmi con il miraggio di moltiplicarli, come Pinocchio con i suoi zecchini d’oro nel Campo dei miracoli.”

Mi sono riconosciuta nello Stefano Massini che salta le pagine di economia, e vi ho riconosciuto gran parte della gente che conosco. La maggior parte di noi abdica alla conoscenza dell’economia, esattamente come fa per tutte le altre scienze che ha scelto di non praticare, la fisica, la chimica, la medicina… C’è chi le approfondisce per noi, tocca fidarsi. L’economia, però, non è una scienza. È più parente della filosofia, ovvero un insieme di principi, idee e convinzioni sui quali basiamo i nostri comportamenti, sia come individui, sia come aziende o stati. Nel crederla scienza, però, ci accomodiamo sulla poltrona degli spettatori: le regole del mercato, per noi, sono come la fotosintesi clorofilliana, un fenomeno naturale che, date certe condizioni, è ineluttabile. Praticare l’economia, per noi, significa approfondire le leggi che la governano, al massimo dominarle, non certo idearne di nuove.

L’economista Ha-Joon Chang traccia la storia di come siamo finiti, senza accorgercene, in questo inganno: “Fino agli anni settanta, l’economia era popolata da una vasta gamma di ‘scuole’ contenenti visioni e metodi di ricerca diversi,” racconta. Ma a partire dagli anni ottanta assistiamo all’emergere di una scuola su tutte, la neoclassica, al punto che “il termine ‘economia’ è – per molti – diventato sinonimo di economia neoclassica”. Ora, questa scuola non è né particolarmente positiva né negativa. “Il problema è il predominio quasi totale di una scuola, che ha limitato la portata dell’economia e creato pregiudizi teorici e vicoli ciechi.”

Il modello economico in cui siamo è solo uno dei tanti possibili. In questo modello abbiamo preso le distanze dalla produzione diretta del nostro sostentamento, abbiamo imparato a ripudiare i “lavori umili”, a svalutare i lavori di cura e a scollegare il lavoro intellettuale dai soldi, abbiamo stabilito che il prezzo determinasse il valore delle cose e delle persone, abbiamo imparato a ritenere inevitabile sia l’accumulo di ricchezze sia la disuguaglianza, abbiamo creduto che la crescita continua fosse possibile fingendo che non avvenisse a scapito della ricchezza di diversità biologica della Terra e della libertà di altri esseri umani. Questo modello economico, però, è solo un atto di immaginazione, un insieme di idee su come possa funzionare il mondo, e la narrazione creata attorno al denaro ne è l’impalcatura di senso. Ciascuno di noi può continuare a reiterare questo modello con le proprie scelte, o può decidere di renderlo obsoleto. In tal caso, dovrà anche cambiare narrazione.

Ricordo che, agli inizi della mia carriera giornalistica, quando viaggiavo tra le popolazioni dogon del Mali e mossi del Burkina Faso, osservavo qualcosa di completamente stridente rispetto alla mia esperienza di vita. Mentre le città di quei paesi erano attanagliate da povertà, delinquenza e disoccupazione, i villaggi prosperavano di un’opulenza inspiegabile al mio sguardo. Scoprii che c’era un’ampia letteratura a riguardo, e provai a farla mia, ma erano tempi in cui queste teorie, raccolte sotto la formula di “decrescita felice”, suonavano come una bestemmia al cospetto dei vati della crescita continua. La vita mi portò a lavorare su altro, ma la mia libreria conserva fieramente traccia di quegli studi. Mi è tornato in mente quando ho scoperto che Silvia Federici, mia intellettuale di riferimento su questi temi, ha trovato lo stimolo a portare avanti la sua ricerca proprio di ritorno dalla Nigeria. Lì ha capito che “la vittoria che la disciplina di lavoro capitalistica ha ottenuto sulle popolazioni del pianeta è molto limitata, e che molti ancora vedono la propria vita in modi radicalmente antagonisti ai canoni richiesti dalla produzione industriale. […] Per me è stata una grande fonte di coraggio rendermi conto che nel mondo formidabili forze sociali si oppongono all’imposizione di un modo di vivere concepito solo in termini capitalistici”.

Parlare di soldi è lo strumento che abbiamo per divenire “cittadini economici attivi”, per usare un’espressione di Chang, ovvero persone che fanno discendere le proprie scelte di consumo, lavoro, risparmio, investimento e vita dal loro set di valori, e non da astratte leggi economiche assurte a scienza.

Parlare di soldi è il modo che abbiamo per rendere obsoleto il modello dentro il quale indugiamo da diversi secoli. Parlare di soldi è lo strumento per far sì che essi diventino un repertorio di futuri possibili, non solo per noi, ma anche per il pianeta.

(continua in libreria…)

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