Discutere o non discutere della guerra in Ucraina a scuola? “Se ne parli magari rischi di accrescere la già non leggerissima ansia, ma se non ne parli… allora lì il pericolo è che nemmeno ti stiano a sentire perché stanno pensando ad altro. E soprattutto: rischi di non dare loro qualcosa di cui hanno bisogno. Cioè confronto, discussione, partecipazione”. Su ilLibraio.it lo scrittore e insegnante Enrico Galiano riflette su come affrontare la situazione attuale nelle classi: “Lavoriamo per spegnere il fuoco, non per alimentarlo. Leggiamo parole di pace: da Albert Einstein a Gandhi, da Herman Hesse a Giovanni XXIII a Kurt Vonnegut. Studiamo la geografia e la storia dei luoghi, magari anche affidandoci a qualche bravo tiktoker che utilizzi un linguaggio a loro comprensibile”

Come la racconti una guerra che sta accadendo nello stesso istante in cui ne parli? Come fai, se lo devi fare davanti a venticinque ragazze e ragazzi?

E lo devi per forza fare o è meglio parlare di altro, pensare ad altro, offrire quel piccolo spazio d’aria in mezzo ai bombardamenti di informazioni?

Non so voi, ma questo presente ci sta dando da un paio d’anni a questa parte una sfida nuova, che noi cresciuti fra gli ottanta e i novanta mica conoscevamo: dover spiegare ai nostri figli e studenti catastrofi che nemmeno noi ci sappiamo spiegare.

Effettivamente preferivo una sfida a shangai o a twister. Grazie presente, eh! Molto gentile!

Partiamo dall’inizio: parlarne o non parlarne?

Perché se ne parli magari rischi di accrescere la già non leggerissima ansia, ma se non ne parli… allora lì il pericolo è che nemmeno ti stiano a sentire perché stanno pensando ad altro.

E soprattutto: rischi di non dare loro qualcosa di cui hanno bisogno. Cioè confronto, discussione, partecipazione.

Quindi il mio pensiero, totalmente mio e sicuramente sbagliatissimo è: sì, parlarne.

Anzi: proprio stoppare tutto e stravolgere i nostri “programmi”, perché per la prima volta dopo tanti anni la storia non è quella di Francis Fukuyama, quella ormai “finita” con la caduta del Muro, chiusa e conclusa, quella che ai nostri studenti dava sempre la sensazione che il manuale fosse slegato dal presente, qualcosa di lontano.

La storia adesso è qui, alle porte di casa. E la scuola può essere il posto dove imparare davvero a leggerla.

Bene, e ora il secondo domandone: ma come? Qui è un pelino più complicata, la faccenda. Come ai primi tempi del Covid, dobbiamo stare attenti al tipo di narrazione che vogliamo offrire: perché non c’è argomento come un conflitto armato che sia in grado di accendere gli animi, di scatenare passioni, insomma abbiamo anche noi una piccola miccia in mano e dobbiamo maneggiarla con granda cautela. E quindi essere artificieri, e non bombaroli.

Abbiamo studiato. Abbiamo letto. Eravamo bambini o adolescenti quando quel muro crollava, abbiamo avuto la fortuna di essere stati educati in una scuola di pace nata dalle macerie di una guerra.

Chi oggi frequenta la scuola non ha avuto nonni che la guerra l’hanno vista dal di dentro, non hanno nelle orecchie i racconti che abbiamo noi.

Per questo dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per offrire un racconto diverso da quello che piove addosso dai media e dai social, dove è tutto un discorso su chi ha ragione o chi ha torto, dove si esaltano le imprese “eroiche” di chi si sacrifica “per la patria” e si mostrano foto di civili con kalashnikov.

Siamo artificieri, non bombaroli.

Parliamo una lingua diversa. Facciamo lezioni diverse.

Lezioni di comprensione di ciò che accade, certo, ma soprattutto raccontiamo chi cerca di mettere pace: storie di chi offre aiuto o asilo, tutto il lavoro che viene fatto per mettere in salvo chi è in pericolo, oltre che studiare magari insieme un modo in cui è possibile contribuire, dare una mano da qui, in qualsiasi forma.

Avere la sensazione di essere attivi per fermare il conflitto, o per renderlo in qualche modo meno duro per qualcuno, può essere un valido antidoto alla paura, oltre che un formidabile deterrente contro la tentazione di schierarsi bellicosamente dall’una o dall’altra parte.

Lavoriamo per spegnere il fuoco, non per alimentarlo.

Leggiamo parole di pace: da Albert Einstein a Gandhi, da Herman Hesse a Giovanni XXIII a Kurt Vonnegut.
Studiamo la geografia e la storia dei luoghi, magari anche affidandoci a qualche bravo tiktoker che utilizzi un linguaggio a loro comprensibile, come ad esempio Giacomo Panozzo.

E poi, infine, lasciamo spazio alle emozioni: diamo loro modo di esprimerle, di trasformarle in parole, in poesie, in canzoni, in disegni, ma sempre sorvegliando la miccia, stando attenti a che non si accenda e, se lo fa, fare di tutto per aiutarli ad essere lucidi.

Seguire l’esempio delle parole di Maria Montessori che in questi giorni tantissimi stanno condividendo: “Tutti parlano di pace ma nessuno educa alla pace. A questo mondo, si educa per la competizione, e la competizione è l’inizio di ogni guerra. Quando si educherà per la cooperazione e per offrirci l’un l’altro solidarietà, quel giorno si starà educando per la pace”.

L’AUTORE – Enrico Galiano sa come parlare ai ragazzi. In classe come sui social, dove è molto seguito. Insegnante e scrittore classe ’77, dopo il successo dei romanzi (tutti pubblicati da Garzanti) Eppure cadiamo feliciTutta la vita che vuoi e Più forte di ogni addio, ha pubblicato un libro molto particolare, Basta un attimo per tornare bambini, illustrato da Sara Di Francescantonio. È tornato al romanzo con Dormi stanotte sul mio cuore, e sempre per Garzanti è uscito il suo primo saggio, L’arte di sbagliare alla grande. Il suo nuovo romanzo, in uscita a giugno 2021, è Felici contro il mondo (Garzanti), seguito del bestseller Eppure cadiamo felici.

Alla pagina dell’autore tutti gli articoli scritti da Galiano per ilLibraio.it.

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