Dopo due anni di didattica a distanza, l’insegnante di lettere Valentina Petri torna in libreria con “Vai al posto”, un romanzo nato dalla volontà dell’autrice (conosciuta sui social per la pagina “Portami il diario”) di restituire un anno di scuola normale, in cui si sta insieme a volto scoperto, attraverso il potere delle parole – Su ilLibraio.it un capitolo

Dopo due anni di didattica a distanza, in cui i ragazzi, più di chiunque altro, hanno sofferto la socialità filtrata dagli schermi, l’autrice e insegnante di lettere Valentina Petri torna in libreria con Vai al posto (Rizzoli), una storia di ordinaria follia, che ci racconta come, tra tutti gli insegnamenti che ci dà la scuola, lo stare insieme è senza dubbio il più bello.

Petri insegna lettere all’istituto professionale Francis Lombardi, e dal 2017 condivide le sue storie di scuola sulla pagina Facebook Portami il diario, che dà anche il nome al suo primo libro, uscito nel 2020, in cui racconta la vita in classe dal punto di vista (autoironico) di una prof di lettere in un istituto professionale.

Vai al posto nasce dalla volontà dell’autrice di restituire un anno di scuola normale, in cui si sta insieme a volto scoperto, attraverso il potere delle parole.

Vai al posto

L’anno scolastico per la prof Valentina è pieno di novità: alcune belle, come la cattedra sospiratissima e una nuova prima tutta da conoscere, altre meno, come due quinte improvvisamente accorpate. Per risparmiare sugli insegnanti e a un passo dalla maturità, si è deciso di mettere insieme classi di indirizzi diversi con lo stesso programma di italiano. E così lei si ritrova a gestire una quinta di Moda, popolata di sole fanciulle, innestata con gli elettricisti casinisti, in un calderone imprevedibile che ha tutti gli ingredienti di una maionese destinata a impazzire.

Mentre la prima è un’adorabile classe di pulcini che stanno imparando a camminare, i suoi alunni di quarta non cedono di un passo dal solito caos: Missile in fuga nei corridoi, Basito che si perde in giro per Roma, Amebo che lo ritrova anche se è rimasto in Piemonte…

Tra foto a tradimento e bodyshaming, trappole e chiarimenti, le collaborazioni più inaspettate sbocceranno per lasciare tutti a bocca aperta, inclusa la prof.

Per gentile concessione della casa editrice, su ilLibraio.it un capitolo:

Lupino

28 ottobre, venerdì

È iniziata ufficialmente la stagione dei fuori orario. Incombono i consigli di classe, le valutazioni di metà quadrimestre invocano il loro tributo di sangue e taluni elementi, con perizia degna dei più consumati latitanti, sono riusciti a evitare tutto.

Assenti al dì della verifica, entrati in ritardo il giorno dell’interrogazione, usciti in anticipo se tragicamente consapevoli del destino incombente, invisibili al momento dei recuperi, smaterializzati, evaporati, non pervenuti in qualsivoglia momento. Ma anni e anni di telefilm coi poliziotti ammerigani e centinaia di puntate di Chi l’ha visto? hanno reso gli insegnanti più efficaci dei can da trifola ed ecco che all’improvviso, quando il nostro studente si sente perfettamente sicuro, al calduccio del suo banco vista termosifone, con la focaccia con le olive che si scalda in attesa di essere consumata, entriamo di forza in classe, salutiamo il professore in cattedra che ci regge il gioco da bravo collega di pattuglia e diciamo: «Scusa, dopo ho l’ora buca, puoi mica fare uscire l’Inafferrabile, che mi manca solo lui da interrogare?».

Il collega, che sta domando venti e più meccanici riottosi all’idea di apprendere alcunché, in genere accoglie la proposta con entusiasmo e rilancia chiedendo se posso portargliene via altri dieci. Me ne basta soltanto uno che faccia da testimone e, felice del mio rapimento con estorsione, mi dirigo verso un’aula deserta dove esercitarmi nella raffinata arte della tortura medievale.

Invece oggi, colpo di scena, arriva la bidella e mi rifila una supplenza.

Vedo lo sguardo dell’Inafferrabile aprirsi in un sorriso: “Ah, il fato è dalla mia parte, non mi avrai neppure oggi!”. Ma se c’è una cosa che ho imparato a scuola è non arrendermi mai ai capricci della sorte.

«Inafferrabile, tu e il tuo degno compare venite con me in prima. È una mia classe, assegno loro un compito da svolgere e poi sono tutta orecchi.»
Penetrare nella tana dei coniglietti con due lupi cattivi alti due metri e dieci, dall’aria scazzatissima, interamente rivestiti di strappi alternati a brandelli di tessuto e dalle folte chiome affondate in un cappuccio grigio, è una bellissima entrata in scena. Tacciono. Impongo di non disturbare l’interrogazione. Si vedono assegnato un esercizio sul libro di italiano che poi implicherà da parte mia la raccolta dei quaderni e la correzione, cioè un modo suicida per darsi la zappa sui piedi o una martellata sulle palle, a seconda di quanto scriveranno. Sono piccoletti, volenterosi e scrivono un sacco. Cretina che sono.

L’Inafferrabile prende posto a fianco della cattedra, distende per tutta la lunghezza due gambe villose generosamente esposte alla vista grazie ai pantaloni smembrati da un mastino e sospira di fronte al fato ineluttabile. Il suo degno sodale prende posto dall’altra parte, formalmente per ascoltarlo, ma in realtà pronto a estrarre il cellulare non appena mi volterò. I primini scrivono e si abbandonano a un sommesso mormorio, quel suono rassicurante per gli interrogati che non vogliono essere ascoltati da nessuno.

L’Inafferrabile molto non sa. Parecchio inventa. Qualcosa dice. Ma visto che ho tempo e che sono munifica, lo lascio parlare un po’ di quel che conosce, anche se è il programma dell’interrogazione scorsa, e mi compiaccio del fatto che ricordi con dovizia di particolari la trama dei Malavoglia. Mi snocciola tutti i nomi di famiglia, ricorda pure quello della Provvidenza, e ricorda che essa, ahimè, affonda col suo carico
di lupini.

Dal primo banco, un primino coi baffetti da sparviero ha smesso di lavorare da un bel po’ per ascoltare. Guarda affatato questo gigante dalle vesti dilaniate raccontare la trista sorte di Bastianazzo e dei nipoti di padron ’Ntoni.
Poi, alla fine, non ce la fa più e alza la mano.

«Mi scusi» inizia cortese e perplesso.
«Dimmi» chiedo un po’ contrariata, perché s’era detto di non interrompere.
«È che… la barca trasportava… lupini?» domanda, con le sopracciglia tutte inarcate in un unico punto interrogativo.
«Sì» confermo sbrigativa, e già penso alla prossima domanda per cavar fuori qualcos’altro all’Inafferrabile.
«E dove li tenevano?» incalza.
«Nella stiva, immagino» e intanto sfoglio il libro cercando una poesia da far commentare alla mia vittima.
«Ma… stavano fermi? Cioè… tipo… erano in gabbia?»

Ci ho messo svariati secondi.
Lupini.
Lupi. Piccoli.

Piccolo preoccupato animalista che teme per la sorte di tanti cucciolotti di lupo, trasportati crudelmente per il mare
tempestoso da questa sfigatissima famiglia verghiana.
Non ce la farò mai più a spiegare I Malavoglia seriamente.
E padron ’Ntoni muto.

(continua in libreria…)

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