Orfeo ed Euridice e il loro tragico amore hanno per secoli ispirato poeti, scrittori e artisti, fin dai tempi di Virgilio e Ovidio. Nel tentativo di rievocare la potenza di questa storia, ripercorriamo il mito classico e le sue varianti: dalla morte di Euridice alla discesa di Orfeo nell’oltretomba, fino alla struggente separazione della coppia, per giungere alle rivisitazioni della vicenda originale, dal dipinto di John William Waterhouse, ai racconti di Cesare Pavese e Italo Calvino, per concludere con la versione contemporanea di Salman Rushdie…

All’interno dell’immenso panorama di leggende e miti che sono giunti fino a noi attraverso i secoli, alcuni si sono rivelati particolarmente in grado di conquistare l’animo umano. Tra queste storie c’è sicuramente la struggente vicenda di Orfeo ed Euridice, i due innamorati separati dalla morte.

Il potere di questo mito potrebbe celarsi nel fascino che una discesa nell’oltretomba (o catabasi, dal greco κατάβασις, “discesa”) genera da sempre sugli esseri mortali, che nell’aldilà, a differenza di Orfeo, non possono mettere piede prima del tempo.

Ma la sua forza potrebbe risiedere anche nella grandezza dell’amore di un giovane poeta per la sua sposa, che lo spinge a compiere un’impresa impossibile pur di riaverla indietro. O ancora, un’altra ragione dell’immortalità di questa storia potrebbe ritrovarsi nel suo tragico epilogo, capace di scuotere e di commuovere ancora oggi.

Ciò che è certo è che nei secoli l’antico mito di Orfeo ed Euridice è stato al centro delle opere di molti autori, dai poeti latini Ovidio e Virgilio fino ad artisti e scrittori contemporanei come Cesare Pavese, Italo Calvino e Salman Rushdie, che hanno reinterpretato questa storia da punti di vista inediti. In questo approfondimento ripercorriamo quindi il mito e le sue varianti, oltre che la sua evoluzione attraverso l’arte e la letteratura

Orfeo ed Euridice: il mito

Il mito di Orfeo ed Euridice si rintraccia già a partire dal V secolo a.C., come dimostra un antico bassorilievo greco del 410 a.C. circa che raffigura i due innamorati assieme a Ermes, il messaggero degli dei.

Ma gli autori che hanno contribuito a definire la storia così come la conosciamo oggi sono Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.) e Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 18 ca d.C.), due dei più grandi poeti latini. La storia dei due sfortunati amanti viene raccontata rispettivamente nel libro IV delle Georgiche di Virgilio, poema in esametri dedicato alla celebrazione del lavoro agreste, e nei libri X e XI delle Metamorfosi di Ovidio, imponente poema epico-mitologico che al suo interno raccoglie numerosi altri miti. All’interno di queste due opere (che qui presentiamo nell’edizione Garzanti, con la traduzione di Michele Ramous), troviamo narrata, con alcune differenze, la storia di Orfeo ed Euridice.

Georgiche Orfeo ed euridice

I due poeti sono concordi nel riportare la causa della prematura morte di Euridice: il morso di un serpente velenoso la strappa al marito, conducendola nell’oltretomba. Orfeo, figlio del sovrano tracio Eagro e della musa Calliope, è descritto come un talentuoso cantore e poeta, capace di incantare la natura e gli animali grazie alla musica melodiosa prodotta dalla sua lira.

Dopo la morte della sua sposa, il dolore del giovane è immenso, tanto da spingerlo ad abbandonare i territori abitati dai mortali e a superare il fiume Stige, oltre cui si trovano gli Inferi, che nell’immaginario greco-latino sono descritti come una terra popolata da ombre. Dopo essere stato traghettato da Caronte al di là del fiume infernale, il poeta si ritrova davanti ai sovrani del regno dei morti, Ade e Persefone.

Quella di Orfeo è solo una delle catabasi (cioè delle discese agli Inferi) note nell’epica greca e latina. Tra le più conosciute c’è certamente quella di Ulisse nel libro XI dell’Odissea e quella di Enea nel libro VI dell’Eneide, poema scritto dallo stesso Virgilio. Nonostante ciò, la richiesta del cantore – riportare in vita una persona defunta – è fuori dal comune, così come straordinario è l’esaudirsi del suo desiderio.

metamorfosi orfeo ed euridice

Orfeo infatti commuove in profondità Ade, Persefone e tutte le anime presenti negli Inferi, raccontando il suo amore per Euridice e la sofferenza che ha accompagnato la sua perdita. Riporta Ovidio le sue parole: “Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato: ha vinto Amore! (…) Per questi luoghi paurosi, per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno, vi prego, ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice!”

Il giovane ottiene così la possibilità di riabbracciare la sua innamorata, ma ad una condizione: che non si volti mai a guardarla per tutto il tragitto verso il regno dei vivi. Nel lungo cammino di ritorno, quasi giunti alle porte degli Inferi, l’impresa di Orfeo si rivela vana: il cantore, secondo Virgilio “vinto nell’animo”, mentre per Ovidio “nel timore che lei non lo seguisse”, si volta a cercare dietro di sé Euridice.

A un passo dalla fine di tutti i tormenti il patto viene infranto: la tentazione è stata troppo forte. La ninfa è costretta a ritornare immediatamente nel regno dei morti, lasciando il suo sposo ancora più disperato per averla persa due volte.

Virgilio e Ovidio: le differenze nel mito

Seppur comune in molti punti, il mito classico di Orfeo ed Euridice presenta alcune interessanti differenze nel modo in cui è stato raccontato da Virgilio e Ovidio.

Un primo elemento di distinzione risiede nel motivo per cui Euridice incontra sul suo cammino un serpente velenoso. Secondo Virgilio, infatti, la ninfa viene morsa mentre sta tentando di sfuggire alle indesiderate attenzioni dell’apicoltore Aristeo, innamorato di lei: durante la corsa la giovane non si accorge del serpente, che la uccide con il suo veleno. Per Ovidio, invece, Euridice viene attaccata mentre è in compagnia di un gruppo di Naiadi, ninfe delle acque dolci, come lei.

Diversa è anche la descrizione di ciò che accade nel momento in cui il giovane si gira a guardare la sua innamorata, il momento cardine di questo mito. Per Virgilio, Euridice si rivolge a Orfeo con parole dure e addolorate, chiamandolo folle per essersi voltato a osservarla, costringendoli a un’enorme sofferenza. A lui tende vanamente le mani mentre viene trascinata via dal fato beffardo, di nuovo nell’oltretomba, in una scena ricca di pathos. D’altra parte, abbiamo la descrizione di Ovidio, più dolce e indulgente verso l’azione di Orfeo. Il poeta sulmonese racconta che Euridice “morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero (di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?)”. L’unica parola pronunciata dalla ninfa è un lieve addio, che quasi non raggiunge le orecchie del suo amato.

In ognuno dei due racconti, però, la separazione è struggente (anche per il lettore che la legge), uno strazio che lascia di nuovo Orfeo pietrificato dal lutto: per Virgilio il suo pianto dura sette mesi, mentre secondo Ovidio “soli” sette giorni ininterrotti.

I due poeti affrontano il mito di Orfeo ed Euridice con stili differenti: da un lato Virgilio dedica poco spazio ad alcuni dettagli, condensando dei passaggi e chiudendo il racconto in meno di cento versi. Ovidio, invece, descrive in modo più ampio i diversi momenti del mito, senza creare ellissi narrative. Entrambi si soffermano in molti punti sulle sensazioni intense provate dai personaggi, descritte con vividezza e uso di figure retoriche.

Ma le differenze tra il racconto di Virgilio e quello di Ovidio interessano anche la descrizione della morte di Orfeo in seguito alla perdita dell’amata.

La morte di Orfeo

La fine di Orfeo è brutale in entrambe le versioni classiche: Virgilio racconta che le donne della Tracia, vedendo la sua fedeltà per Euridice impossibile da scalfire, lo fecero a pezzi per la rabbia durante un rito dionisiaco. La sua testa, gettata nel fiume Ebro, prosegue a cantare e a pronunciare il nome di Euridice.

Ovidio si discosta da Virgilio per la cruenta descrizione del processo di smembramento del corpo di Orfeo, preda delle Baccanti, infuriate per essere state ignorate dal poeta, che dopo la morte di Euridice ha rinnegato l’amore eterosessuale. La sua lira, gettata nell’Ebro assieme alla testa, continua dolcemente a suonare. La sanguinosa fine di Orfeo, però, si chiude in questo caso con dolcezza, dato che la sua anima, scesa negli Inferi, ritrova l’amata Euridice, che ora finalmente può riabbracciare.

Ovidio descrive così i due innamorati “ora passeggiano insieme: a volte accanto, a volte lei davanti e lui dietro; altre volte ancora è invece Orfeo che la precede e, ormai senza paura, si volge a guardare la sua Euridice“.

Orfeo ed Euridice nell’arte e nella letteratura

Il mito di Orfeo ed Euridice ha affascinato per secoli artisti, poeti e scrittori, che con le loro opere hanno cercato di celebrare e reinterpretare questa storia appassionante.

Per esempio, un giovane Antonio Canova (1757-1822), autore per altro anche di Amore e Psiche, gruppo scultoreo ispirato a un altro celebre mito, nel 1775-76 realizza due sculture ritraenti i due giovani amanti, proprio nel momento in cui il patto viene infranto da Orfeo. Rimanendo in ambito artistico, ma passando alla pittura, Jean-Baptiste Camille Corot, pittore paesaggista francese, nel 1861 realizza Orfeo guida Euridice fuori dall’oltretombache con i suoi colori sfumati e delicati ricrea l’atmosfera evanescente dell’aldilà.

Orfeo guida Euridice fuori dall’oltretomba Jean-Baptiste-Camille Corot

Jean-Baptiste-Camille Corot, “Orfeo guida Euridice fuori dall’oltretomba” (1861)

Un momento meno convenzionale della storia di Orfeo ed Euridice è invece scelto da John William Waterhouse (1849-1917), pittore preraffaelita legato a tematiche mitologiche, che nel 1900 realizza Le ninfe trovano la testa di Orfeo, dipinto che rappresenta il momento successivo alla violenta morte del cantore, la cui testa venne, appunto, gettata dalle Baccanti nel fiume Ebro.

Le ninfe trovano la testa di Orfeo John William Waterhouse

John William Waterhouse, “Le ninfe trovano la testa di Orfeo” (1900)

Un altro medium, quello del teatro e della lirica, ha permesso di ricreare la potenza del mito: prima grazie al compositore italiano Claudio Monteverdi (autore de L’Orfeo, 1607), e più di un secolo dopo grazie a Christoph Willibald Gluck, autore dell’opera lirica Orfeo ed Euridice (1762), che in tre atti rievoca la morte della ninfa, la discesa agli Inferi di Orfeo e l’infrazione del patto, che porta il poeta tracio a struggersi nell’aria “Che farò senza Euridice?”. Grazie all’intervento di Amore, che riporta in vita la giovane, l’opera si conclude in modo decisamente più positivo rispetto all’originale.

Quella di Monteverdi e Gluck è solo una delle molte reinterpretazioni dello svolgimento del mito. Il poeta austriaco Rainer Maria Rilke (1875-1926), per esempio, nel suo componimento Orfeo, Euridice ed Hermes (1904) narra l’incertezza del cantore, che prosegue assieme alla sposa e al messaggero degli dei verso il mondo dei vivi. La poesia termina proponendo un’idea mai indagata, quella di un’Euridice profondamente mutata dalla morte, che l’ha resa immemore dell’uomo che tanto ha amato.

“…E quando il dio bruscamente
fermatala, con voce di dolore
esclamò: Si è voltato -,
lei non capì e in un soffio chiese: Chi?”
(traduzione di Giacomo Cacciapaglia)

L’evoluzione del mito nella storia della letteratura prosegue con Cesare Pavese (1908-1950), che all’interno della raccolta di racconti Dialoghi con Leucò (1947), pubblica L’inconsolabile, un dialogo tra Orfeo e Bacca. Qui il poeta e scrittore piemontese rivela una nuova verità sul comportamento del cantore, cioè che egli, dopo essersi scontrato con il nulla della morte, si sarebbe volontariamente girato verso la compagna, che aveva ormai perso la sua vitalità: “Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi ‘Sia finita’ e mi voltai.”

Qualche anno più tardi è la volta della rivisitazione dello scrittore, drammaturgo e regista francese Jean Cocteau, che nel 1950 dirige il film Orphée, adattamento dell’opera teatrale omonima del 1926. Il film reinterpreta in chiave moderna la storia della coppia mitologica, unendo un gusto surrealista a un tono drammatico: i protagonisti sono Orfeo, Euridice e una principessa, nientemeno che la Morte in persona, innamorata del poeta.

Tornando in Italia arriviamo al 1980, anno in cui Italo Calvino (1923-1985) pubblica sulla rivista Gran Bazaar L’altra Euridice, un racconto paradossale che capovolge il mito così come lo conosciamo, ipotizzando un mondo sotterraneo ricco di vita in cui originariamente Euridice viveva assieme a Plutone, il re degli Inferi per i romani. Questo racconto, contenuto in Tutte le Cosmicomiche (Mondadori, a cura di Claudio Milanini) mostra Orfeo come responsabile della risalita in superficie della giovane, ammaliata dal suo canto ingannatore. In questo mondo rovesciato la “superficialità della superficie” si contrappone all’autenticità della vita del sottosuolo, a cui Euridice è stata ingiustamente sottratta.

Tutte le cosmicomiche Italo Calvino

Per finire, una reinterpretazione in chiave contemporanea del mito di Orfeo ed Euridice è proposta da Salman Rushdie, celebre scrittore indiano naturalizzato britannico, in La terra sotto i suoi piedi (Mondadori, 1999, traduzione di Vincenzo Mantovani). Nel romanzo, che celebra la musica rock e pop, appaiono Vina e Ormus: la prima un’incredibile cantante rock, scomparsa durante un terremoto, il secondo un musicista di enorme talento. Il loro amore è una storia di perdita e riscoperta, che li lega, proprio come Orfeo ed Euridice, nella vita e anche nella morte.

la terra sotto i suoi piedi di Salman Rushdie

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