Pinocchio, la Fata Turchina, Lucignolo, Mangiafoco, il Grillo Parlante, il Gatto e la Volpe: un viaggio alla scoperta del mondo del burattino creato da Carlo Lorenzini, in arte Collodi. Una fiaba eterna, soggetta negli anni a continui adattamenti e riscritture, letterarie, cinematografiche e teatrali. Ma perché, nonostante sia passato tanto tempo dalla pubblicazione, questa storia continua a non annoiarci? – L’approfondimento in occasione dell’uscita dell’atteso film diretto da Matteo Garrone

“C’era una volta…Un re! – Diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno”.

Uno degli incipit più famosi della letteratura italiana, quello del romanzo Le avventure di Pinocchio, non è vero? Questa storia però non inizia con un re, né con un pezzo di legno, ma con un uomo di nome Carlo Lorenzini (1826-1890), conosciuto come Carlo Collodi.

È il 1881 e lo scrittore fiorentino comincia a pubblicare a puntate su Il Giornale dei bambini, fondato da Ferdinando Martini, un racconto che vede come protagonista un burattino che, dal primo momento in cui “nasce”, sogna di diventare un bambino vero.

Pinocchio lo conosciamo tutti, anche chi non ha letto il libro. È il simbolo del monellaccio che non vuole studiare e che per la sua negligenza rischia di trasformarsi in somaro, è il perdigiorno, il tontolone, il bugiardo che si ficca sempre nei guai. È un personaggio memorabile, una vera e propria icona, e merito di questa popolarità si deve sicuramente ai numerosi adattamenti – letterari, cinematografici, animati, teatrali e chi più ne ha più ne metta – che nel corso degli anni si sono susseguiti.

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Ma un altro elemento fondamentale che ha contribuito a rendere Pinocchio una figura così celebre, è stata la componente visiva, presente fin dalla genesi del romanzo: la storia di Pinocchio, infatti, non è solo una storia fatta di parole, ma anche dimmagini che, in tutta la letteratura per l’infanzia, hanno un ruolo essenziale, perché integrano la narrazione e ne determinano la sua interpretazione.

Pensiamoci: quando parliamo del burattino di legno, la prima cosa che ci viene in mente è la sua fisicità: vediamo il suo cappellino di mollica di pane, il suo completo da aspirante scolaretto, l’abecedario sotto al braccio ma, soprattutto, il suo naso lungo. Stupirà invece sapere che, nella scrittura, il naso è un tratto quasi secondario del carattere e della vicenda del burattino. Così come l’equivoco che ruota attorno al pescecane o alla balena che inghiotte Pinocchio e Geppetto: sarà solo una curiosità ma Collodi parla sempre e solo di pescecane, mentre è l’illustrazione di Mazzanti a proporre la figura del cetaceo.

La stessa “ingombrante” fisicità ce l’ha Pippi Calzelunghe – guarda caso, un altro personaggio della letteratura per l’infanzia – la bambina ribelle e un po’ magica nata dalla penna di Astrid Lindgren, resa inconfondibile dalle sue treccine rosse, la spruzzata di lentiggini sul volto e l’abbigliamento coloratissimo.

E a proposito della denominazione “ribelle”: si può senz’altro affermare che la stirpe dei “bambini ribelli“, di cui oggi molto si parla, veda come capostipite proprio il personaggio di Collodi. Ricordiamoci che, nel Risorgimento, i libri rivolti ai “piccoli lettori” erano una condensa melensa e retorica di luoghi comuni, che avevano come unico obiettivo quello di impartire insegnamenti moraleggianti (avete mai letto Memorie di un pulcino di Ida Baccini? Lo stesso Collodi ne fa una parodia nel suo romanzo: nel XXVII capitolo infatti il pulcino della Baccini appare tra i
libri scolastici che i compagni di Pinocchio gettano nel mare e che i pesci divorano). Il nostro burattino, invece, con il suo fare scanzonato e la sua insofferenza nei confronti delle regole, veicola messaggi che all’epoca erano del tutto rivoluzionari. Certo, è vero anche che nel testo Pinocchio viene punito per il suo essere così disobbediente, ma abbiate pazienza, non si può chiedere più di tanto: siamo pur sempre nel 1800.

Oltre alla sua irresistibile indomabilità, quello che contraddistingue Pinocchio è il suo volersi trasformare in qualcosa di diverso da sé, il suo essere un personaggio scisso, doppio, che cerca di definire la propria identità al di là della propria natura. La tensione al cambiamento è uno dei tratti che caratterizzano gli eroi dei romanzi di formazione, da cui chiaramente Collodi prende spunto, ma nel caso specifico di Pinocchio c’è qualcosa di diverso rispetto al canone: il burattino alla fine riesce a diventare un bambino in carne e ossa (scelta determinata dal pubblico di lettori e non da Collodi che avrebbe concluso la storia lasciando il suo protagonista impiccato a un albero dal Gatto e la Volpe), ma questa metamorfosi non può essere considerata completa: nel Bildungsroman l’eroe conquista una consapevolezza di sé che lo conduce al cambiamento, per il burattino, invece, la trasformazione non nasce da un crescita interiore, bensì da un’obbedienza esteriore agli ordini che la Fata Turchina continua a impartirgli. Infatti il suo procedere non è lineare e progressivo come nel caso dei personaggi del romanzo di formazione, ma saltellante e incerto, esattamente come il suo modo di camminare.

Ed eccoci arrivati a un altro personaggio iconico: la Fata Turchina. Si può dire che anche la sua presenza abbia contribuito non poco alla popolarità del romanzo. Forse perché, proprio come il burattino, è una figura ambigua e controversa, distante dalle rappresentazioni classiche. Infatti si nota subito che questa donna non ha i tratti tipici delle figure femminili: il suo rapporto con Pinocchio è duro, forte, quasi perfido. Basti pensare che per punire il protagonista, la fata gli fa credere di essere morta di crepacuore; oppure si diverte a terrorizzarlo con la comparsa dei Conigli neri dopo averlo allettato con lo zucchero.

Non sappiamo molto di questa abitatrice millenaria di un bosco: non ha un nome proprio, non ha un’età anagrafica determinata, però ha una caratteristica che la rende impossibile da dimenticare: i capelli color di cielo. Si presenta a Pinocchio e al lettore sotto diverse sembianze: bella bambina morta ma parlante, buona donnina portatrice d’acqua, elegante spettatrice di giochi circensi, capretta belante su uno scoglio marino. E anche il suo mutare forma la rende ancora più terrorizzante, sempre più lontana dall’aspetto materno che tante rappresentazioni hanno voluto proporre. Tra le tante, quella di Roberto Begnini che, nel film del 2002 in cui è regista e protagonista, affida la parte della fata a Nicoletta Braschi. La sua interpretazione si allontana leggermente da quelle sfumature inquietanti del romanzo di Collodi, mostrando una fata mamma, esigente e severa ma, allo stesso tempo, dolce e comprensiva. Chissà come la dipingerà invece Matteo Garrone nel suo nuovo adattamento cinematografico che uscirà nelle sale il 19 dicembre, in cui troveremo ancora Begnini, questa volta nei panni di Geppetto, e Marine Vacth in quelli della bella fatina.

Ma non ci sono solo Pinocchio e la Fata, il romanzo di Collodi è costellato di tante altre figure indimenticabili: dal Grillo Parlante a Lucignolo, passando per Mangiafoco e per la storica coppia del Gatto e la Volpe. Ognuno di loro è diventato personificazione e simbolo di messaggi universali (il Grillo della coscienza e della saggezza, Lucignolo della somaraggine, il Gatto e la Volpe della furbizia e dell’inganno, e così via), conquistandosi anche il ruolo protagonisti di narrazioni collaterali a quella del burattino di legno: libri, canzoni, musical, film e, soprattutto, rappresentazioni teatrali. Tra le ultime e più importanti quelle dei registi Antonio Latella e Roberto Latini, che sono riusciti a dare nuove interpretazioni dell’antica fiaba, mantenendo però quell’atmosfera conturbante e attraente, come aveva già fatto Carmelo Bene nel suo Pinocchio del 1961.

Ad ogni modo, la mappatura delle numerose riscritture, riletture e traduzioni dell’opera di Collodi può dirsi sterminata, e sarebbe difficile riuscire a tracciarne un profilo esaustivo in questa sede. Davanti al fiorire di nuovi prodotti che vedono sempre il burattino di legno come protagonista, la domanda che però ci si può iniziare a porre è come mai questa storia continui a non stancare. Cosa ci sta raccontando? Secondo Franco Cambi, Collodi riesce a restare nei nostri cuori perché attraverso Pinocchio fornisce un’immagine di infanzia come tragedia della crescita e dell’iniziazione al mondo.

Anche Giorgio Manganelli, nel suo Pinocchio. Un libro parallelo, mostra come in questo racconto non ci sia nulla di umano e, allo stesso tempo, non ci sia nulla di più simile all’uomo: “L’apprendistato umano di Pinocchio avviene attraverso cadute e sofferenze: quando è assetato, trova una sorgente d’acqua dove si bagna tutto; quando è infreddolito, si avvicina al fuoco e si brucia i piedi; quando è affamato, viene attratto da una pentola di fagioli che scopre essere solo dipinta sul muro. Conosce il male e l’inganno, fa esperienza dell’ingiustizia della legalità, e poi della malattia e della morte. Pinocchio mostra come l’infanzia non sia il periodo spensierato che si è sempre pensato ma, al contrario, una tragedia, poiché l’individuo è continuamente in conflitto tra il desiderio di ribellarsi e la necessità di adeguarsi alla norma”.

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