Scrivere o non scrivere? Cedere al fascino dell’ozio assoluto come l’Oblomov di Gončarov, simbolo indiscusso del torpore esistenziale, o reagire con contagioso attivismo sulle orme dell’eroe del lavoro sovietico Stachanov per comunicare alacremente idee e storie al resto del mondo? Il dilemma è antico e si è riproposto nei giorni del lockdown pandemico – Una riflessione che è anche un viaggio nella letteratura

Scrivere o non scrivere? Cedere al fascino dell’ozio assoluto come l’Oblomov di Gončarov, simbolo indiscusso del torpore esistenziale o reagire con contagioso attivismo sulle orme dell’eroe del lavoro sovietico Stachanov per comunicare alacremente idee e storie al resto del mondo? Il dilemma è antico e si è riproposto nei giorni del lockdown pandemico. Approfittare dei tempi dilatati della reclusione domestica per riempire pagine o lasciare il foglio (anche elettronico) al suo nitore astenendosi dalla vanità in un momento tanto grave per tutti? Quanti scrittori si sono riproposti di cogliere l’occasione per mettersi al lavoro finalmente senza distrazioni e si sono poi ritrovati bloccati perché orfani magari di una scadenza o di una motivazione decisiva?

È una questione che si pone da sempre per scrittori, pittori, musicisti, fotografi, artisti e sedicenti tali. “La storia che penso di raccontare sarà all’altezza di quanto ci si aspetta da me?”, “Posso aggiungere qualcosa al mare magnum di quanto è già stato scritto?” Naturalmente la prima risposta che taglia le gambe a ogni domanda sul tema è che scrivere per molti è un mestiere, migliore o peggiore di altri, a seconda dei punti vista, ma comunque una professione più o meno retribuita: e se Oblomov può vivere delle proprie rendite, l’operaio Stachanov non può farlo (nessuno dei due faceva lo scrittore, va aggiunto). Il dilemma in ogni caso continuerà a riproporsi perché coincide semplicemente con quello di esistere e da sempre anche tra gli scrittori si fronteggiano le due scuole di pensiero (e di azione): i prolifici, come Alexandre Dumas, Agatha Christie, Stephen King, Joyce Carol Oates (per fare qualche caso di autori da decine o centinaia di romanzi) e i riluttanti come Socrate, Arthur Rimbaud, Emily Dickinson, Cristina Campo (per ricordare alcuni autori più combattuti).

Per questi ultimi c’è una figura letteraria di riferimento quella dello scriba renitente nata nel 1853 dalla penna dello scrittore americano Herman Melville. Il profilo in questione è quello del protagonista di un racconto, Bartleby lo scrivano, e la storia è quella di un copista in uno studio commerciale di Wall Street a New York che si rifiuta di attendere al proprio lavoro con una frase passata alla storia “I would prefer not”, “Preferirei di no”. È una frase che diventa una chiave emblematica per esplorare l’universo degli scrittori afflitti appunto dalla “Sindrome di Bartleby” e cioè attratti nel vortice della rinuncia, perché che non hanno mai scritto una riga, perché hanno smesso di scrivere dopo il primo libro, o perché hanno iniziato un’opera senza mai portarla a termine. Ma nel libro di Melville è molto di più: è solo l’inizio di un rifiuto che parte dalla sua attività, dal lavoro d’ufficio, ma si rivelerà ben presto una negazione ben più profonda del mondo che lo circonda. Un testo anticipa un intero filone letterario, quello esistenzialista.

A dedicargli a sua volta libro è stato Enrique Vila-Matas, autore spagnolo da sempre a cavallo tra invenzione letteraria ed erudizione saggistica. Tra i suoi titoli Suicidi esemplari e Storia abbreviata della letteratura portatile, che ne hanno fatto un autore di culto soprattutto per gli amanti della nicchia letteraria dei “libri che parlano di libri”. Con Bartleby e compagnia  Vila-Matas non tradisce le caratteristiche di narratore-saggista eccentrico con una vena di malinconica ironia anche se lui stesso è l’opposto di Bartleby, ha scritto molto come giornalista, autore di reportage, saggi e romanzi, mentre il protagonista del libro è affetto da un rapporto quanto meno complicato con la scrittura e la vita. Tanto per cominciare ha nell’aspetto qualcosa che richiama alla mente il Gregor Samsa di Franz Kafka, trasformato in insetto, cosa che lo porta raramente a mettere il naso fuori dal suo spiacevole cubicolo e a sfuggire in continuazione anche dalla narrazione del suo creatore, limitandosi a redigere note a piè di pagina di un testo inesistente.

Chi meglio di questo gobbo infelice potrebbe accompagnarci attraverso mille storie e aneddoti affascinanti di scrittori veri e fittizi? Chi potrebbe perdersi meglio di lui in citazioni senza mai venir meno alle sue convinzioni e senza far perdere al testo la forza di un racconto sofisticato e divertente? Si citano anche gli anti-Bartleby per eccellenza come Georges Simenon, l’inventore dell’ispettore Maigret ma naturalmente come eccezione alla regola: ed ecco allora Juan Rulfo che smise di scrivere perché gli morì lo zio Celestino fonte diretta delle sue storie, o Fridriech Holderlin e Ronert Walser, colpiti da forme maniacali che finirono per paralizzarne la scrittura. Che dire poi di scrittori come Thomas Pynchon e J. D. Salinger, fuggiti dalla celebrità e da ogni manifestazione della vita pubblica? A volte Vila Matas sembra propendere per la rinuncia alla scrittura teorizzata da un consulente editoriale di genio, Bobi Bazlen (“Io credo che non si possa più scrivere libri”), ma in altri casi sembra prediligere la tesi di scrittori come Daniele Del Giudice che difende la scrittura come impegno. Non sembra esserci soluzione migliore se non nella massima riportata all’inizio del volume e opera di Jean de La Bruyère il moralista francese, precettore del Duca di Borbone (anch’egli a suo modo nella compagnia dei Bartleby nel suo cupo moralismo di sincero misantropo): “La gloria di certi uomini consiste nello scrivere bene. Quella di altri nel non scrivere affatto”.

Eppure non mancano autori di valore capaci di tenere il ritmo produttivo di uno o più libri l’anno, un po’ per predisposizione grafomane, un po’ perché spinti a scrivere da editori e lettori che continuano a premiarne l’attività, che si tratti di saggisti, giallisti, autori di genere e non solo. Simbolo antico di prolificità letteraria è stato il greco Crisippo, padre dello stoicismo, che come narra Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi scrisse oltre settecento testi, ma pare usasse le citazioni altrui con una certa liberalità. “Quando gli chiesero cosa leggesse, rispose La Medea di Crisippo”. Apollodoro così commentava: “Se si togliessero dai libri di Crisippo le citazioni altrui, le pagine sarebbero vuote”.

Il fatto in realtà è controverso (un caso di fake news ante litteram?) ma ci sarebbe anche la testimonianza diretta di Diocle, l’anziana governate di Crisippo, che sosteneva egli scrivesse giornalmente cinquecento righe e in fondo in questo caso veniale il valore non è tanto nella veridicità del caso quanto nella capacità di sollecitare la discussione sul tema. “Nullo die sine linea” è la massima attribuita a Plinio il vecchio ma pochi ricordano che era riferito al tratto quotidiano di un pittore, Apelle, e alla metafora del continuo perfezionamento artistico, e non alla costanza di uno scrittore.

La scrittrice più prolifica al mondo in Italia d’altronde è sconosciuta ai più. Il suo nome è Corin Tellado, nome d’arte di Maria del Socorro Tellado Lopez: scrive in spagnolo e ha pubblicato più di 4.000 romanzi e venduto oltre 400 milioni di libri tradotti in diverse lingue. Cercando su Amazon potreste trovare anche un autore da 200.000 libri. Possibile? Sì, si chiama Philip Parker, è docente di management science nonché inventore di un algoritmo che consente l’aggregazione di testi con un certo minimo comun denominatore. Di fatto i suoi non sono veri e propri libri in realtà ma raccolte di dati e testi su un certo argomento: compendi che utilizzano materiali liberi da copyright e rintracciabili in prevalenza sulla rete. Il signor Parker non è ascrivibile tra gli scrittori prolifici, quindi, ma ci dice qualcosa su come già oggi possono essere prodotti volumi con l’aiuto determinante delle macchine. Come ha scritto Marcello Veneziani “per ogni vero scrittore che non scrive libri, ci sono cento finti scrittori che purtroppo li pubblicano. Ogni libro non pubblicato sale in cielo e diventa un gradino nella scala per il paradiso.”

Sarà vero, allora, come ha scritto William Goldman, che “la cosa più facile al mondo è non scrivere”? A risolvere il blocco dello scrittore di alcuni, tra l’altro, è sempre pronto un esercito della salvezza: quello dei ghost writer, popolo ben più numeroso di quanto appaia. Scrivono discorsi politici che hanno cambiato il corso di un congresso o le sorti di una nazione e inventano bestseller da milioni copie, coprendo l’inefficienza di romanzieri e saggisti anche di fama. Solo raramente vengono allo scoperto, ma preferiscono più spesso il buio alla ribalta. Forse perché in qualche caso si dissociano da quanto partoriscono per mestiere, o, molto più semplicemente, perché sono artigiani, professionisti della scrittura e la loro dedizione non è prona alla vanità del mondo, ma tesa ad un lavoro ben svolto e spesso proporzionalmente ben pagato. Illuminante, in questo senso, il romanzo dello spagnolo Javier Marias, debitore a Shakespeare di uno splendido titolo Domani nella battaglia pensa a me (dal Riccardo III). Il protagonista non solo scrive anonimamente per altri, ma è addirittura il negro di un negro, prestando il proprio nome, e in questo caso anche la sua immagine negli incontri con i committenti, a un geniale e apprezzato autore di discorsi pubblici che preferisce restare nell’ombra per non compromettere in alcun modo la propria fortunata carriera. Anche se la regola è a volte confermata dall’eccezione come nell’indimenticabile commedia Il Prestanome, con un’esilarante performance di Woody Allen che veste i panni di un buono a nulla in cerca di quattrini che in piena età maccartista accetta di firmare i manoscritti di un presunto comunista prima di finire pericolosamente per innamorarsi della parte non sua e sentirsene il vero autore.

L’eterna lotta tra prolifici e riluttanti, in ogni caso, continuerà. Ci saranno autori come Harper Lee, tornata a pubblicare decine di anni dopo il grande successo de Il Buio oltre la siepe; o come Henry Roth che ha inanellato quarantacinque lunghi anni di silenzio dopo Chiamalo sonno. E su un altro fronte non mancheranno amati insaziabili inventori di trame e personaggi come James Patterson e Stephen King. Perché, come ha ammesso, ColumMcCann si scrive “perché il mondo non è ancora compiuto e le storie non sono state raccontate tutte. E l’abilità di scrivere sta nell’immaginare che esistano ancora infinite storie.” E il bello, in effetti, è che molte di queste storie si scoprono proprio quando si è comodamente seduti sul divano di casa, con o senza Bartleby accanto.

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