Il talento è per forza connesso alle nostre passioni? Brando è un ballerino classico straordinario, e non gli costa alcuna fatica: allora perché sente che la sua vera passione è il disegno, in cui invece non eccelle? Matteo Bussola, con “Il talento della rondine”, propone un romanzo (adatto agli adolescenti, ma che dovrebbero leggere anche adulti ed educatori) in cui i tre protagonisti, adolescenti, si interrogano sui propri limiti e margini di miglioramento, su cosa sia una passione e cosa il talento, tra le ingerenze dei genitori, le aspettative della società e il desiderio di essere, semplicemente, liberi…

Il talento è per forza connesso alle nostre passioni? E per forza le passioni devono avere una seconda finalità?

Attorno a queste due grandi domande ruota il nuovo romanzo di Matteo Bussola, Il talento della rondine, in libreria per Salani.

Il talento della rondine, ultimo libro di Matteo Bussola

Il libro, adatto anche a giovani lettori, presenta innanzitutto Brando, che a tredici anni “aveva cominciato con la faccenda della danza soprattutto per accontentare lei [la madre, ndr]. Aveva proseguito come si prosegue spesso: solo per sentirsi amato” (p. 9). Il suo corpo flessuoso, perfettamente proporzionato e le linee invidiabili fanno di Brando un ballerino classico come ne nascono pochi in un secolo. A lui vengono spontanei movimenti che ad altri costano ore e ore di lavoro e i risultati lasciano tutti a bocca aperta. Eppure, se dovesse indicare la sua passione, Brando sceglierebbe il disegno, anche se con una matita in mano non eccelle e una tavola gli richiede impegno, cancellature, frustrazione.

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A poche pagine dall’inizio del romanzo, Brando incontra un altro ballerino classico, Ettore, che si distingue per determinazione, ma non ancora per tecnica o per naturalezza: c’è troppa rabbia nei suoi passi di danza, troppo desiderio di arrivare. Viceversa, non ci vuole molto perché Brando scopra che Ettore ha un talento naturale nel disegnare e sfrutta questa sua inclinazione per fermare sulla carta i movimenti dei ballerini che un giorno vorrebbe imitare.

Insomma, “entrambi sognavano di diventare ciò che volevano attraverso la strada più difficile: non il talento con cui erano nati, ma la passione che avevano scelto” (p. 59), e questo porta Brando ed Ettore a stringere un legame immediato. I due si sostengono, si spronano a migliorarsi, complice l’arrivo di una terza figura: Mirta, altrettanto fantasiosa. In lei coesistono passione e talento per la fotografia: fermare con un clic un movimento, cogliere ombre e luci del ballo di Ettore e Brando diventa prima un passatempo, poi un modo per aiutare i nuovi amici a guardarsi con altri occhi.

Mirta ha un approccio alla vita ben più libero: al contrario di Ettore, non ha un padre oppressivo che non dà valore alle passioni del figlio, né una madre come quella di Brando, ossessionata dall’idea che il figlio faccia una brillante carriera nella danza, cosa che lei, ballerina di fila, non è riuscita a fare. Mirta è, insomma, più abituata a esplorare le possibilità che la vita le offre, senza preconcetti. Si è tinta i capelli di viola semplicemente perché ne aveva voglia e allo stesso modo immortala le persone e i movimenti che ritiene belli, artistici. Accompagna così i suoi nuovi amici agli allentamenti, assiste ai loro diverbi quando Brando prova ad esercitarsi con Ettore, li sostiene nei momenti di difficoltà e li sprona a esprimersi appieno quando si prospetta la possibilità di fare un esame di ammissione per accedere a un’Accademia di danza classica piuttosto prestigiosa.

Quel che nessuno di loro tre sa – ma che Matteo Bussola racconta ai lettori – è che sia Brando sia Ettore portano con sé un fardello importante, ovvero una storia familiare che pesa e che ha plasmato almeno in parte il carattere di ognuno di loro. Eppure c’è una grande differenza tra i due protagonisti: Brando ha chiari gli obiettivi che deve raggiungere per accontentare sua madre; Ettore, al contrario, sente quali obiettivi vuole raggiungere, a dispetto di suo padre. E in questo rovesciamento di prospettive troviamo altri spunti di riflessione su quanto l’influenza genitoriale condizioni le scelte dei figli, in positivo e in negativo.

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Altro punto fondamentale del romanzo è il rapporto tra passione e frustrazione: non bisogna necessariamente amare ciò in cui eccelliamo:

“All’improvviso, vide il suo limite come una ricchezza e realizzò quanto bene volesse alla propria parte fragile. A quella parte che, nonostante tutto, in quegli anni non si era mai arresa. E decise che non voleva più negarla, non voleva più nasconderla, non voleva più fingere che non ci fosse” (p. 124).

E questo testimonia un processo di maturazione fondamentale, che porta a essere non solo più consapevoli dei propri limiti, ma anche desiderosi di misurarsi giorno dopo giorno con le proprie difficoltà e con i possibili miglioramenti. Restare delusi e non arrivare primi non è segno di un fallimento; è segno che si è umani. E in questi ultimi anni è fondamentale dare alle nuove generazioni la testimonianza che le cadute e le imperfezioni fanno parte di qualsiasi esistenza. Ecco perché Il talento della rondine è un romanzo che dovrebbero leggere non solo i giovani lettori, ma anche chi è sempre a contatto con loro: genitori, educatori, insegnanti troveranno in quest’opera un accesso privilegiato e delicato al mondo degli adolescenti e ai loro grandi interrogativi.

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